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Tanto per parlare (concretamente) di nucleare |
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Tanto per parlare (concretamente)
di nucleare
di Stefano Conti

In un contesto energetico sempre più instabile, il nucleare torna al centro del dibattito. Sicurezza, indipendenza e diversificazione delle fonti sono le chiavi per comprenderne il ruolo. Perché anche l’Italia dovrebbe tornare a considerare questa opzione? Un’analisi lucida
Per approcciare il tema relativo alla produzione di energia elettrica da fonte nucleare in Italia è necessario intendersi su due premesse fondamentali.
La prima: si tratta di investimenti importanti per la sicurezza del sistema energetico del Paese e per il soddisfacimento del fabbisogno di imprese e famiglie. La seconda: il nucleare sarà utile per assicurare la pluralità delle fonti e la diversificazione delle tecnologie. Gli ultimi anni hanno mostrato i rischi crescenti legati a scelte di approvvigionamento che determinano una totale dipendenza da altri Stati.
Da questo punto di vista, il principio che deve guidare l’Italia è quello della diversificazione. E siccome il nucleare è una delle fonti possibili, anche il nucleare può essere considerato.
Perché nucleare non è più parola singolare
Ad oggi si ipotizzano due soluzioni per la realizzazione di impianti nucleari: piccoli reattori modulari (SMR - Small Modular Reactor) o grandi centrali - potremmo dire classiche - presenti da decenni nelle specifiche nazioni. Le due soluzioni non sono equiparabili; sono profondamente diverse per il servizio che prestano e per l’impatto sulle realtà territoriali.
Questa è la prima grande scelta che andrà fatta. Se ne vedrà il riverbero anche nel modo in cui le due opzioni saranno trattate nei provvedimenti che dovranno essere adottati. La norma potrà essere neutra, andare su una strada generica e non fare riferimento alle due opzioni. Oppure, almeno in una prima fase, potrà dare un’indicazione importante esprimendo una preferenza quando il Parlamento esaminerà il disegno di legge per le centrali nucleari.
A seconda del modo in cui la politica affronterà queste due soluzioni, darà un primo segnale significativo in un Paese che tutti sappiamo essere ipersensibile al tema e, in parte, contrario alla scelta nucleare.
Piccoli o grandi, pari non sono
Sui piccoli impianti c’è un gap di conoscenza. Ad oggi non è una tipologia di produzione operativa. Industrialmente non c’è una filiera con anni di esperienza alle spalle. Qui entriamo nel terreno delle verifiche, tutt’ora in corso: quando i piccoli impianti diventeranno una opzione industriale operativa e diventeranno una produzione ordinaria è tutto da vedere. Nella migliore delle ipotesi, questa evoluzione si potrebbe realizzare nel prossimo decennio: 2030-2040. Questo è il primo elemento di incertezza.
Va considerato, però, che l’Unione europea terrà una consultazione sul Piano di azione UE per i piccoli reattori nucleari SMR, i cui esiti saranno resi pubblici entro la fine dell’anno. Ciò - almeno - è quanto è stato comunicato dal Commissario europeo all’energia (il danese Dan Jørgensen) nel corso della seconda Assemblea generale dell’Alleanza UE per i piccoli reattori modulari del 1° settembre 2025.
I piccoli reattori nucleari, ha messo in evidenza Jørgensen, sono essenziali anche per gli obiettivi climatici («non esiste uno scenario in cui possiamo rimanere al di sotto di 1,5 gradi senza il nucleare») e per la nostra sicurezza e indipendenza «mentre continuiamo a eliminare gradualmente l’energia russa dal nostro sistema». In tal senso le proiezioni della Commissione Europea indicano al 2050 una capacità di SMR in funzione in Europa compresa tra i 17 e i 53 GW.
Tuttavia, ad oggi non abbiamo nessun elemento per una azione a breve nei prossimi anni. Nel prossimo decennio dovremmo avere un quadro che farà progressivamente sparire le incertezze e renderà noti gli elementi fondamentali.
Per le grandi centrali - e parliamo sempre di fissione, perché se apriamo il tema della fusione il discorso diviene ancora più complicato e ancora più lontano nel tempo - che siano di terza o di quarta generazione, abbiamo a riferimento l’esperienza europea.
Ci sono poche nuove centrali in Europa e quelle poche sono state costruite impiegando circa vent’anni. Mutuando le medesime condizioni da applicare al nostro Paese, se si andasse su questa strada sarebbe difficile immaginare che prima del 2050 ci siano dei gruppi nucleari che possano produrre elettricità. C’è una incertezza temporale doppia rispetto ai piccoli impianti.
Nell’alternativa tra grandi centrali e piccoli impianti, questi ultimi, specie se associati alle produzioni industriali, ai clienti energivori e ai distretti produttivi, e se sostenuti dal mondo del lavoro e delle imprese, possono avere maggiori possibilità di essere accettati. Perché se il mondo delle imprese valuterà che l’energia elettrica prodotta da piccoli impianti nucleari è utile per lo sviluppo delle attività economiche e del lavoro, credo sarà difficile per la politica non considerare questa necessità. [...]
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