Blackout: se la Svizzera piange l'Italia non ha molto da ridere
di G.B. Zorzoli

L’esposizione mediatica giustamente garantita al blackout del 28 settembre 2003 immediatamente a valle dell’evento avrebbe lasciato supporre un po’ più di interesse per i risultati dell’indagine condotta dall’Autorità per l’energia del 9 giugno scorso. Invece, dopo i commenti di prammatica usciti sulla stampa il giorno dopo la pubblicazione del Resoconto dell’attività conoscitiva in ordine alla interruzione del servizio elettrico verificatasi il giorno 28 settembre 2003, il sipario sulla questione sembra essersi di nuovo chiuso. E ancora meno spazio hanno avuto sui quotidiani del 3 luglio i commenti alle risultanze dell’analoga indagine del Ministero delle Attività produttive, finalmente resi noti dopo sei mesi dalla conclusione dei lavori. Risultanze che nella sostanza confermano quanto scritto dall’Autorità per l’energia.
Colpa delle conclusioni, deludenti o evasive? Non direi: certo le 117 pagine del Resoconto dell’Autorità per l’energia (a cui farò esclusivo riferimento, avendo avuto il tempo di leggerle con la dovuta attenzione) sono prive di enfasi, ma questo approccio anglosassone è più efficace di ogni artificio retorico; lascia parlare senza tentazioni scandalistiche i fatti. E che fatti.

Innanzitutto sono confermate in pieno le responsabilità svizzere: nella notte fra il 27 e il 28 settembre la linea del Lucomagno era esercita a una temperatura di 72 °C invece di quella standard di 40 °C, con la sua conseguente flessione verso il basso, ma nulla sarebbe successo se non si fosse trascurato di tagliare i rami degli alberi sottostanti. Come è noto, dal contatto fra questi e i cavi è partito il fuori servizio della linea. Anche l’altra linea che connette la Svizzera all’Italia, quella del San Bernardino, era esercita al di sopra dei valori di progetto, per cui non avrebbe potuto sopportare il sovraccarico derivante dal fuori servizio della linea del Lucomagno, come regolarmente è avvenuto. Per di più le contromisure adottate sono state tardive e non coerenti con quanto previsto dalle regole internazionali in materia, e gli svizzeri “hanno informato i gestori delle reti confinanti con eccessivo ritardo, in maniera non corretta, sottostimando la gravità degli eventi” (tutti i brani virgolettati sono tratti dal Resoconto dell’Autorità), col risultato di isolare il sistema elettrico italiano dalla rete internazionale.

Responsabili primi di un black-out costato almeno 640 milioni di euro, per non parlare dei disagi subiti dalla popolazione, lungi dallo scusarsi, gli svizzeri si sono rifiutati di collaborare all’indagine dell’Autorità italiana. E qui nasce il primo interrogativo: di fronte alle responsabilità e all’arroganza svizzera quali sono state le iniziative prese dal governo italiano? E un secondo: poiché le regole internazionali prevedono accordi preventivi fra i gestori di rete per gestire congiuntamente situazioni di emergenza - mentre dall’indagine dell’Autorità per l’energia “non risulta la conclusione di accordi fra il GRTN e le imprese elettriche svizzere inerenti l’utilizzo della modulabilità dei prelievi degli impianti idroelettrici di pompaggio in Italia al fine di fronteggiare una situazione di emergenza della rete di trasmissione della Svizzera” - quali azioni sono state intraprese dopo il 28 settembre per realizzarli?

Se la Svizzera piange, l’Italia non ride. Il piano di difesa previsto per fronteggiare situazioni di particolare criticità mediante il distacco automatico e mirato dei prelievi di energia elettrica da parte dell’utenza diffusa non ha funzionato. Il motivo è semplice: da quanto risulta, “oltre i tre quarti delle imprese distributrici … non risultano essere dotate di dispositivi per l’alleggerimento del carico”. Sembra che la giustificazione sia la mancata indicazione da parte del GRTN di come e dove installare gli alleggeritori del carico. Evidentemente vorremmo saperne di più.
Prima ancora di puntare il dito su GRTN, va però ricordato come l’origine di alcune sue debolezze risieda nella scelta fatta a suo tempo di separare la gestione della rete dalla sua proprietà, disarticolando in modo irresponsabile una tecnostruttura di grande esperienza, con la conseguente perdita di sinergie e una non sempre razionale ripartizione delle singole professionalità fra GRTN e TERNA. Già criticata (anche dal sottoscritto) per diverse ragioni, questa separazione nel caso del black-out ci ha propinato altri frutti avvelenati.

Quasi non bastasse il mancato funzionamento del piano di difesa, il deficit di 6.664 MW (pari a circa il 24% del fabbisogno complessivo nel medesimo istante) provocato dalla separazione del sistema elettrico nazionale dalla rete internazionale, è stato aggravato dalla disconnessione dalla rete, durante la fase transitoria di decadimento della frequenza, di unità di produzione per un potenza complessiva pari a circa 6.512 MW (21 gruppi) prima che la frequenza di rete scendesse a 47,5 Hz, valore previsto dalle regole vigenti (predisposte dal GRTN) per l’arresto degli impianti. Il tutto senza che il GRTN avesse accordato deroghe a tali regole. Evidentemente gli apparati a ciò predisposti non hanno funzionato regolarmente, oppure non erano nemmeno in funzione. Come si è potuta verificare una situazione siffatta? Perché il GRTN non ha effettuato i controlli necessari per verificare il rispetto delle regole?

A questo punto il blackout era diventato inevitabile. Non era però scritto che durasse così a lungo, e soprattutto che il riavvio del sistema procedesse da Nord a Sud, come è avvenuto, lasciando la Sicilia al buio per più di venti ore. Come ricorda il Resoconto dell’Autorità, nelle fasi di ripristino del servizio elettrico assumono un ruolo fondamentale:

a) la chiara definizione delle sequenze operative, delle gerarchie e delle necessarie azioni di coordinamento che ciascun soggetto coinvolto è tenuto ad osservare;
b) la capacità delle unità di produzione termoelettriche di mantenere alimentati i propri servizi ausiliari in seguito ad una loro disconnessione dalla rete dovuta a perturbazioni rilevanti nella medesima (azioni di rifiuto di carico );
c) la disponibilità di unità di produzione di prima riaccensione (in pratica quelle idroelettriche, che sono in grado di avviarsi anche col servizio elettrico interrotto);
d) la corretta esecuzione, attraverso i sistemi di controllo e di attuazione dei comandi (sistemi di conduzione) nelle stazioni elettriche della rete di trasmissione nazionale e delle cabine primarie delle reti di distribuzione, delle manovre richieste nei tempi prestabiliti e in assenza di alimentazione esterna;
e) la piena operatività dei sistemi di telecomunicazione preposti allo scambio di informazioni, al controllo e all’attuazione dei comandi di cui alla precedente lettera d).

Incominciamo dal punto b). “Solo 8 gruppi termoelettrici dei 140 connessi alla rete di trasmissione nazionale hanno completato con successo le azioni di controllo dedicate all’attuazione del rifiuto di carico”. La spiegazione che ho ricevuto è semplice: per garantire il buon funzionamento delle azioni di controllo è necessario ricorrere a prove periodiche, che sono lunghe, faticose e onerose. Nella logica del taglio dei costi (la stessa che ha indotto a ridurre gli interventi sui rami in Svizzera), sono state trascurate. Chi doveva controllare che venissero puntualmente eseguite? Perché non lo ha fatto?
E passiamo al punto c). “Dagli elementi acquisiti nel corso dell’attività conoscitiva, emerge, nella maggior parte dei casi, il mancato avvio autonomo delle unità di promozione di prima riaccensione”.
Questa situazione, che a prima vista ha dell’incredibile, è principalmente addebitabile al fatto che i telecomandi di tali impianti non potevano essere correttamente eseguiti - contrariamente a quanto prescritto al punto d) - a causa della mancata operatività dei sistemi di telecomunicazione (punto e).

L’importanza di un sistema di telecomunicazione affidabile è infatti decisivo per il buon funzionamento della rete: figuriamoci in un situazione di massima emergenza. Ebbene, da quanto risulta, questo era essenzialmente basato su cellulari collegati attraverso un sistema di ripetitori con un’autonomia, in caso di mancanza di energia elettrica, di 2-3 ore. Eppure – ve lo posso assicurare- il mio cellulare ha continuato a funzionare per un numero di ore molto superiore. Incredibile ma vero, in un momento così critico il governo della rete elettrica italiana era cieco, muto, paralizzato. Impossibile perfino comunicare con il personale in reperibilità, che stava tranquillamente dormendo nel proprio letto.

Questa necessariamente sommaria e incompleta rassegna degli incredibili eventi verificatisi il 28 settembre dell’anno di grazia 2003 avrebbe dunque meritato l’apertura di un dibattito ampio e articolato. Non tanto per dilettarsi nella caccia ai colpevoli (all’identificazione delle singole responsabilità e ai conseguenti provvedimenti sanzionatori dovrebbero servire le istruttorie formali avviate dall’Autorità per l’energia) quanto per avviare una riflessione collettiva sugli errori e sulle carenze verificatisi nel processo di liberalizzazione, che l’esperienza del blackout ha contribuito a mettere impietosamente in luce. A partire dalla mancanze di un quadro di comando per arrivare a una razionalizzazione dei ruoli e delle responsabilità e alla definitiva messa in mora della comoda equazione liberalizzazione = indiscriminato taglio dei costi, su cui qualcuno negli anni a cavallo dell’avvio della liberalizzazione si è esercitato senza che chi di dovere intervenisse a fermarlo.
Purtroppo il silenzio assordante che fino al momento in cui scrivo queste righe ha accompagnato la pubblicazione dei rapporti sul blackout, non lascia spazio a soverchie speranze.