Come si può (definitivamente) "trattare" il retaggio nucleare
di Giancarlo Bolognini

Il retaggio nucleare resta per l’Italia un problema in gran parte irrisolto. Le quattro centrali elettronucleari e i cinque impianti di trattamento e fabbricazione del combustibile nucleare costruiti in Italia sono in fase di smantellamento, ma in essi sono ancora presenti materiali radioattivi ad alta attività, con particolare riferimento al combustibile irraggiato e ai rifiuti derivanti dal ciclo del combustibile. Gli esercenti hanno finora garantito la sicurezza delle installazioni, ma la loro progressiva obsolescenza impone di sistemare in via definitiva i rifiuti radioattivi e di smantellare gli impianti. Nel frattempo le installazioni nucleari sono divenute motivo di preoccupazione, fino a convincere il governo a decretare lo stato di emergenza nei territori che le ospitano.

LA DIMENSIONE DEL PROBLEMA
I programmi nucleari e le attività condotte nell’industria, nella ricerca e nel settore medico-ospedaliero hanno prodotto circa 30 mila metri cubi di rifiuti radioattivi, solo una parte dei quali è stata sottoposta a processi di trattamento (riduzione del volume) e condizionamento (immobilizzazione in forme idonee allo smaltimento). La parte preponderante è tuttora stoccata in forma non condizionata presso i siti di produzione, attualmente gestiti da SOGIN (centrali elettronucleari, impianti del ciclo del combustibile) e da un ristretto numero di aziende operanti del settore nucleare (Avogadro, Nucleco, Sorin, ...). Esiste inoltre un certo numero di depositi temporanei di rifiuti radioattivi di origine industriale e ospedaliera distribuiti sul territorio, talvolta all’interno di strutture non progettate per questo scopo.
La componente più impegnativa di questo retaggio è rappresentata dal combustibile nucleare irraggiato. I quantitativi di cui l’Italia deve farsi carico ammontano complessivamente a circa 350 tonnellate di ossidi di uranio, plutonio e torio.
Anche dopo la chiusura delle centrali nucleari e degli impianti del ciclo del combustibile - ormai concretamente avviati allo smantellamento - la produzione dei rifiuti radioattivi prosegue, sia pure su scala più ridotta, per effetto delle residue attività di manutenzione e smantellamento in corso presso gli impianti, mentre altri materiali radioattivi (circa 500 tonnellate all’anno) continuano ad essere prodotti dal sistema medico-ospedaliero, dall’industria e dal sistema della ricerca.
Le attività di disattivazione e smantellamento degli impianti nucleari dismessi produrranno a loro volta ingenti quantitativi (30.000 m3 secondo le stime correnti) di materiali radioattivi da condizionare e smaltire.
Presupposto fondamentale per dare soluzione definitiva al problema è dunque la disponibilità di un deposito centralizzato per lo stoccaggio dei materiali radioattivi.

GLI INDIRIZZI STRATEGICI
La strategia nazionale di gestione del nucleare pregresso, definita in uno specifico documento del 14 dicembre 1999 trasmesso dal Ministro dell’Industria al Parlamento, si fonda su tre obiettivi generali da conseguirsi in modo coordinato:
sistemazione dei materiali nucleari, dei rifiuti radioattivi e del combustibile irraggiato esistente (entro 10 anni);
localizzazione e realizzazione del sistema nazionale di stoccaggio e smaltimento dei rifiuti radioattivi (entro 10 anni);
disattivazione e smantellamento degli impianti nucleari esistenti (entro 20 anni).
Gli indirizzi strategici formulati nel documento al Parlamento del dicembre 1999 sono stati ribaditi e confermati nel DM Industria del 7 maggio 2001 recante “Indirizzi operativi alla SOGIN”, la società di proprietà del Ministero dell’Economia incaricata dello smantellamento delle centrali nucleari e degli impianti del ciclo del combustibile.

LE RISORSE ECONOMICHE
I costi di smantellamento degli impianti nucleari italiani sono quantificabili complessivamente in circa 3,5 miliardi di euro in 20 anni.
Normalmente, il costo relativo allo smantellamento (decommissioning) di una centrale nucleare è portato in conto fin dalla fase di progettazione dell’impianto; assieme a tutti gli altri costi esso entra a far parte degli oneri che incidono sul costo del kWh prodotto dalla centrale, e viene pertanto contabilizzato nel costo del kWh fatturato all’utenza. La quota destinata a coprire il costo di decommissioning è calcolata ipotizzando una produzione elettrica complessiva di 40 anni. Questa prassi, universalmente adottata, garantisce che alla fine della vita utile della centrale l’esercente abbia accantonato le risorse economiche necessarie per smantellarla.
Poiché la scelta di fermare gli impianti nucleari italiani è intervenuta al di fuori di un piano programmato e prima del termine della loro vita utile, non sono state rispettate le condizioni economico-finanziarie ipotizzate in fase di realizzazione e gestione operativa degli impianti.
Durante la fase di esercizio delle centrali, l’Enel aveva alimentato due fondi specifici per il decommissioning degli impianti e per la gestione del combustibile irraggiato. Al momento dell’arresto definitivo delle centrali nucleari i due fondi avevano raggiunto una consistenza complessiva di circa 750 milioni di euro. Esiste dunque la necessità di coprire la parte scoperta dei costi attraverso una riserva sul prezzo del kWh fatturato dalle aziende di distribuzione all’utenza elettrica. L’entità di tale riserva è stata stabilita prima in via provvisoria e successivamente in via definitiva in 0,06 centesimi di euro/kWh dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas.

I CONDIZIONAMENTI
Le attività di smantellamento richiedono una approfondita analisi progettuale finalizzata a minimizzare l’impatto delle operazioni sulla salute dei lavoratori e sull’ambiente. Si tratta di attività che devono essere espressamente autorizzate dal Ministero delle Attività produttive ai sensi del D.Lgs. 230/95 - sentiti i pareri di altri cinque ministeri, dell’APAT e della Commissione Tecnica - e dal Ministero dell’Ambiente ai sensi della direttiva europea sulla valutazione di impatto ambientale (VIA) - sentiti i pareri dell’APAT, della Commissione VIA, del Ministero dei Beni culturali e delle Regioni interessate.
Sulla base degli indirizzi governativi, i tecnici hanno finora predisposto i progetti e le istanze volte ad ottenere le autorizzazioni necessarie per procedere alla sistemazione del combustibile e dei rifiuti e allo smantellamento degli impianti. L’iter autorizzativo si è tuttavia dimostrato piuttosto impervio, anche perché fino ad oggi non esistono in Italia esperienze pregresse, mentre lo stesso contesto normativo è tuttora incompleto. I tempi preventivati per la conclusione degli iter autorizzativi (che di fatto non prevedono il rispetto di scadenze prefissate) finiscono dunque con l’essere affetti da notevoli indeterminazioni.
Un altro fattore che condiziona l’esecuzione dei programmi è la perdurante mancanza del deposito nazionale per i materiali radioattivi. Negli intendimenti originali, il sito in cui realizzare il deposito avrebbe dovuto essere individuato entro la fine del 2001 e la costruzione sarebbe dovuta iniziare nel 2005, in modo da rendere operativo il deposito all’inizio del 2009. Ma ad oggi il sito non è stato ancora localizzato.
Questa situazione induce gli amministratori locali a guardare con preoccupazione agli interventi di messa in sicurezza del materiale sugli impianti, poiché si teme che questi ultimi - in mancanza di una decisione sul deposito nazionale - possano trasformarsi in depositi definitivi.

LO STATO DI EMERGENZA
Le installazioni nucleari sono progettate per resistere ad eventi anche molto impegnativi per le strutture, ma non sono in grado di garantire con assoluta certezza l’integrità in caso di eventi esterni catastrofici quali atti di terrorismo. Per questo motivo, nella ferma volontà di garantire la sicurezza dei lavoratori, della popolazione e dell’ambiente, il Governo ha deciso nel febbraio 2004 di decretare lo stato di emergenza nelle aree che ospitano le installazioni nucleari italiane. Il provvedimento governativo non deve tuttavia creare allarme, dal momento che è volto esclusivamente ad accelerare al massimo le procedure per la definitiva messa in sicurezza delle installazioni nucleari e dei materiali radioattivi.
Se le installazioni nucleari italiane garantiscono per antica tradizione adeguati standard di sicurezza, episodi come la contaminazione radioattiva di un forno dell’acciaieria Beltrame di Vicenza - a causa della fusione di una sorgente dissimulata in un carico di rottame metallico - o il ritrovamento di sorgenti radioattive in un campo di recupero in Campania, dimostrano che i rifiuti radioattivi di origine industriale e ospedaliera presenti in Italia non sono sottoposti a un controllo altrettanto sicuro.
È quindi necessario e urgente dare una soluzione definitiva al problema, così come hanno fatto da tempo tutti i Paesi industrializzati. Le competenze e le conoscenze necessarie esistono al massimo grado di qualificazione all’interno della SOGIN, per quanto riguarda il campo tecnico-gestionale, e all’interno dell’APAT per quanto riguarda la capacità di supervisione e controllo operativo. Si tratta di risolvere un problema che è essenzialmente di tipo politico.