La bolla petrolifera sta nel pieno

a cura di Drilling

C’è un dato che meriterebbe di essere esaminato più attentamente dai commentatori di problematiche energetiche: mentre il prezzo del petrolio viaggia su livelli altissimi mai visti finora, il valore delle azioni delle compagnie petrolifere è in evidente sofferenza. Eppure, sia i profitti registrati sia i dividendi distribuiti sono altissimi.
Credo sia un segno del caos ormai presente nel mercato petrolifero internazionale, divenuto un sistema totalmente al di fuori di ogni controllo e delle regole “classiche” dell’economia. Si tratta di fenomeni che hanno radici antiche, risalgono alla rivoluzione del sistema di fissazione del prezzo deciso dall’OPEC prima nel 1986 (guerra dei prezzi) con l’abbandono dell’Arabian light come benchmark e dell’assunzione nel 1988 del Brent come prezzo di riferimento mondiale. Si è trattato di una sorta di Bretton Wood del mercato petrolifero, anche se pochi ne hanno avuto la consapevolezza.

Da allora si è avviato un progressivo e irreversibile processo di separazione del mercato fisico del petrolio dal sistema di fissazione del prezzo del Brent, sempre più legato ai mercati finanziari e alle speculazioni nelle Borse di Londra e New York.

Oggi, dopo venti anni, il sistema ha raggiunto livelli di crisi incontrollabili e pericolosi sia per l’industria petrolifera, sia per l’economia nel suo complesso.

Basta dare uno sguardo a cosa sta succedendo da due anni a oggi sul mercato dei futuri per toccare con mano che le quotazioni e sopratutto le transazioni in Borsa del Brent non hanno più nulla a che spartire con il mercato petrolifero.

A fronte di circa venti milioni di barili di greggio scambiati ogni giorno sui mercati fisici del mondo (circa un quarto della produzione mondiale), le transazioni di contratti paper raggiungono livelli di circa 750 milioni di barili/giorno, ovvero circa 35 volte superiori.

Non si tratta quindi di operazioni di copertura del rischio prezzo (hedging) effettuate dalle compagnie petrolifere, ma di un business indipendente, gestito dal mondo della finanza internazionale a prescindere dall’evoluzione dell’industria petrolifera. È stato costruito un nuovo bene rifugio che, a differenza di quelli tradizionali (oro, mattone), consente una gestione flessibile e una liquidità pressoché infinita. Nel giro di minuti si possono acquisire o ci si può liberare di masse ingenti di “barili di carta”. Si può vedere con estrema chiarezza come il prezzo del Brent nello stesso giorno fra le 9.00 del mattino (a chiusura della Borsa di Singapore) e le 18.00 (chiusura del mercato di Londra) sia variato di oltre 4 dollari/barile. Dal 7 febbraio il prezzo è cresciuto più di 17 dollari/barile in un mese, con oscillazioni record fra un giorno e il successivo (anche di 4 dollari/barile). Se il dollaro sempre più debole e il continuo flusso di capitali nel mercato delle commodity hanno sostenuto il prezzo, sono bastati un round di liquidazioni degli investimenti speculativi e il profit-taking prima della riunione OPEC per abbassare la quotazione di 3,88 dollari/barile (4 marzo). Già nei quattro giorni successivi il prezzo ha però riguadagnato 7,43 dollari/barile, grazie a una combinazione fra scarse scorte americane, la decisione dell’OPEC di non incrementare la produzione e le tensioni tra Venezuela e Colombia. Non c’è analista al mondo che possa spiegare una variazione così significativa del prezzo sulla base della evoluzione del rapporto domanda/offerta mondiale di greggio. È evidente che si tratta di fenomeni puramente finanziari, che vedono ingenti risorse spostarsi da una commodity a un’altra in funzione di regole empiriche (chart analysis) o messaggi emotivi immessi in rete dagli stessi attori che gestiscono il sistema.
Su base mensile si ha ormai una volatilità dei prezzi che supera ampiamente i 10-15 dollari/barile, consentendo quindi ogni sorta di speculazione da parte dei gestori di fondi e di capitali finanziari. Non c’è più una banca internazionale che non partecipi in modo massiccio a questo gioco d’azzardo. Molti dei disastri che stanno coinvolgendo le istituzioni finanziarie riguardano queste partecipazioni non pienamente controllate dai meccanismi interni di governance. Le compagnie petrolifere si trovano in mezzo a questo universo. Non possono fare a meno del rating dei gruppi finanziari per avere accesso al credito e devono cercare di indirizzare le loro attività secondo i parametri (e gli indicatori finanziari) stabiliti dagli analisti del settore.
E qui si ripete la storia di Crono che mangiava i suoi figli. Le speculazioni finanziarie stanno spingendo il prezzo del Brent verso l’alto, oltre ogni ragionevole limite dovuto ai fondamentali, e di conseguenza i profitti delle compagnie petrolifere stanno crescendo a dismisura; ma uno dei principali parametri che usano gli analisti finanziari per stabilire la solidità di una compagnia petrolifera è l’ammontare delle riserve in barili fisici (non in valore monetario). I contratti di concessione mineraria fra compagnie e Paesi produttori sono però basati sulla divisione della produzione (Production Sharing Agreements), in base ai quali una compagnia ha il diritto di portarsi via da un Paese un ammontare di greggio che consente il recupero dei costi sostenuti (cost oil) e una remunerazione del capitale investito (profit oil). Quindi, più alto è il prezzo del petrolio, minore è la quantità di barili necessari al recupero dei costi sostenuti. Agli attuali livelli di prezzo, le compagnie vedono pertanto ridursi in modo significativo la quota di produzione nelle loro mani. Di conseguenza gli analisti finanziari, (al di là degli investimenti sostenuti, della performance produttiva traguardata e di profitti ottenuti), giudicano negativamente quelle compagnie che non facciano registrare anche un aumento delle riserve fisiche di greggiio a loro disposizione.Si genera così una pressione sulle compagnie, che le obbliga a mettere in atto ogni stratagemma per bypassare le forche caudine dell’ammontare delle riserve. Poiché è pressoché impossibile generare nuove riserve fisiche al ritmo della salita del prezzo del greggio (quasi 100 per cento in un anno), si mettono in campo accordi creativi con i vari Paesi produttori che consentano di mettere a libro nuove riserve: per esempio, si assume come prezzo di riferimento un valore del Brent rilevato dalla fonte più favorevole. In buona sostanza si entra nel gioco della creazione di schemi fittizi per impacchettare all’investitore il prodotto da vendere (nel caso del petrolio, tuttavia, si tratta sempre di un prodotto valido anche se privo di una bella custodia).
Tutti questi marchingegni continuano a funzionare perché il petrolio costituisce ancora un bene rifugio almeno per due ragioni: i problemi strutturali legati ai trasporti privati e ai connessi vincoli ambientali, e il valore reale del prezzo del greggio. Nonostante i grandi dibattiti di natura epocale sugli sconvolgimenti dei consumi petroliferi indotti dalla domanda crescente di Cina e India (che forse si manifesteranno nel prossimo decennio), oggi il vero sostegno ai prezzi del petrolio viene dalla mancanza di combustibili ecologici per autotrazione nei Paesi occidentali (benzine americane e gasolio europeo).
Troppo spesso nelle analisi “solenni” si dimentica che il raffinatore compra un carico di greggio non per accumulare scorte in vista della crisi che potrà arrivare in futuro per i nuovi consumi di Cina e India, ma solo perché deve produrre oggi benzina e gasolio per la propria rete di distribuzione.
E paga certi prezzi perché potrà vendere i prodotti ottenuti a un prezzo ancora più alto. Guadagnandoci, dunque. D’altronde basta guardare i livelli delle scorte presso i vari sistemi di raffinazione in Europa e negli Stati Uniti per vedere che risultano sempre più bassi di anno in anno. Non c’è dunque speculazione sul petrolio fisico o attività di accaparramento dovuta alla preoccupazione di uno shortage di approvvigionamento. Se l’OPEC non fa nemmeno la fatica di annunciare un aumento di produzione, è perché tutti gli addetti ai lavori sanno come ogni giorno sul mercato ci sia almeno un carico di petrolio greggio invenduto o svenduto.
Dunque, è sempre più la tensione provocata dalla benzina a trascinare in alto e dare quindi sostegno al prezzo del greggio. E la tensione risulta ancora più elevata sul mercato americano. A questi problemi non c’è oggi soluzione. Si può quindi assumere che fino al giorno in cui saranno fatti significativi investimenti nel settore della raffinazione per produrre più benzine ecologiche (o riconversioni industriali nel sistema automobilistico), il prezzo del petrolio sarà deciso dall’ultimo automobilista americano che non vuole spegnere il motore della propria macchina e dal prezzo che sarà disposto a pagare per un pieno di benzina.
Questo è il sostegno di base su cui si regge il gioco della speculazione finanziaria dei mercati a futuri. A ciò va aggiunta una considerazione sul prezzo attualizzato del petrolio. Con riferimento ai valori del 1980, il suo prezzo negli ultimi sei mesi è risultato intorno ai 35 dollari/barile. E se pensiamo in termini di euro, possiamo dire che il livello del prezzo è leggermente sopra i 20 euro a barile. Siamo cioè di fronte a prezzi a litro per i carburanti che sono al di sotto (metà o un terzo) di quelli dell’acqua minerale, non tenendo conto della fiscalità presso i Paesi consumatori, che non ha nulla a che vedere con il mercato petrolifero.
Al di là quindi dei discorsi sui massimi sistemi, stiamo quindi affrontando una grave crisi settoriale, dove chi doveva gestire strumenti assicurativi contro il rischio della volatilità dei prezzi, li ha trasformati, con lo strapotere di cui ha disposto la finanza internazionale, in veicoli autonomi di generazione di profitti, amplificando il rischio dei sistemi produttivi reali. Questo strapotere è tale da creare o divorare nel giro di poche ore ricchezze enormi, come d’altronde si può leggere sempre più nelle cronache della finanza mondiale.
Sul mercato di Londra esperti di questi veri e propri war games finanziari sono ricercatissimi e strapagati, molto più di quanto non sia un vero professionista del petrolio. Negli ultimi anni le banche hanno fatto incetta di traders specializzati nei futures petroliferi, strappandoli a suon di quattrini alle compagnie dove lavoravano.
Occorrerebbe uscire da questa sbornia, ma la storia ci insegna che è impossibile farlo senza passare attraverso crisi pesanti. Intanto molti miti sono caduti e continuano a cadere. La catarsi potrà avvenire solo con i meccanismi tipici della Borsa, in modo inatteso e istantaneo.