Una battaglia culturale contro i pregiudizi sul nucleare |
di Dario Giardi, Consulente Formez presso il ministero dell'Ambiente
Se è così, cosa impedisce all’Italia di reintrodurre il nucleare? Tecnicamente parlando, non esistono elementi ostativi. In ogni momento è possibile comprare un reattore e predisporne l’installazione sul nostro territorio. Il problema semmai è di natura culturale. In Italia una certa propaganda, a partire da una percezione erronea ed esasperata del disastro di Chernobyl, ha diffuso nell’opinione pubblica la fobia della tecnologia, con il risultato che oggi la semplice parola nucleare viene associata a quanto di peggio possa esistere. Molti personaggi politici e rappresentanti delle maggiori associazioni ambientaliste spesso si sono lanciati nel dire che: “Col referendum contro il nucleare fu la maggioranza degli italiani a voler rinunciare al nucleare”. Ma, riflettendo su tale dichiarazione e indagando nel profondo del problema nucleare, ci si rende conto come tale affermazione batta ogni record: tre inesattezze in tre concetti. Infatti non ci fu nessun referendum contro il nucleare, né la maggioranza degli italiani si espresse per il sì, né, infine, gli italiani hanno rinunciato al nucleare. Innanzitutto,non potevano esserci referendum contro il nucleare: L’articolo 75 della Costituzione, come vieta quelli in materia fiscale, vieta anche i referendum abrogativi di trattati internazionali. E l’Italia, con l’adesione all’Euratom, si era impegnata a sviluppare una potente industria nucleare (e per questo stanzia ancora circa 50 milioni di euro l’anno senza oggi averne alcun ritorno economico o energetico). Allora, cosa votarono gli italiani? Votarono su tre quesiti: uno chiedeva l’abrogazione dei compensi agli enti locali che nel loro territorio accettavano le centrali nucleari. Ma anche quelle a carbone! Forse fu un referendum contro il carbone e nessuno ce l’ha detto? Un secondo quesito chiedeva l’abrogazione della norma che dava potere al Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) di decidere dove allocare le centrali se gli enti locali non decidevano entro tempi stabiliti; l’ultimo abrogava la norma che consentiva all’Enel di partecipare alla gestione di centrali nucleari all’estero. Come si vede, anche se interpretati e diffusi come quesiti referendari contro il nucleare, essi né lo erano né potevano esserlo. Tant’è che venne deciso non l’abbandono, ma una “moratoria” di 5 anni, con fermo delle centrali attive e sospensione dei lavori di costruzione di nuove centrali. Di anni ne sono passati 20, e una centrale come quella di Caorso si sarebbe dovuta avviare 15 anni fa. Infatti la General Electric propose di riavviarla. Spesa da stanziare: 350 miliardi di vecchie lire. L’attraente proposta avrebbe fatto pensare ad una ripartenza accelerata della centrale da parte degli amministratori del Paese, ma si decise per lo smantellamento. Spesa stanziata: 7.000 miliardi di vecchie lire. Ma quale fu la maggioranza di italiani che votò sì a quei referendum? Fu poco più del 40 per cento degli aventi diritto, cioè una minoranza. Fatto, questo, che dimostra come l’istituto referendario sia ben lontano dal dirimere la presunta controversia tra maggioranza del Paese e maggioranza parlamentare, visto che una legge voluta o mantenuta da quest’ultima potrebbe essere abrogata per volontà di una minoranza degli aventi diritto al voto. Infine, non è vero che abbiamo rinunciato all’energia nucleare: semplicemente ne abbiamo fatto una nuova forma di importazione, visto che, come detto, ce la vendono a carissimo prezzo la Francia, la Slovenia e la Svizzera.
Gli effetti di quell’incidente sono stati esaminati – a 10, 15 e 20 anni di distanza – anche dall’UNSCEAR (Comitato scientifico dell’ONU sugli effetti delle radiazioni atomiche) i cui rapporti rappresentano il lavoro di oltre 100 scienziati appartenenti a 20 nazioni diverse. Ogni rapporto conferma i risultati del precedente: il numero totale di decessi attribuibili all’incidente di Chernobyl non sarebbe stato nell’ordine delle decine o centinaia di migliaia, di cui si è favoleggiato. Ma sarebbe inferiore a 60. Più precisamente, 3 lavoratori morirono sotto le macerie dell’esplosione, e dei 237 tra lavoratori nella centrale e soccorritori cui fu diagnosticata la sindrome acuta da radiazioni (poi confermata a 134 di essi), 28 morirono entro pochi mesi. Dei rimanenti, ulteriori 19 sono morti tra il 1987 e il 2004 «per varie cause» (uno di costoro, ad esempio, morì in incidente d’auto). Gli altri sono ancora vivi. Meno di 60, appunto, e non le migliaia che molti organi d’informazione (si fa per dire) e responsabili politici hanno asserito (e continuano indisturbati ad asserire). Costoro, piuttosto, sono i veri responsabili del più grave danno sanitario riscontrato dallo studio dell’UNSCEAR secondo cui le conseguenze psicologiche subite dagli abitanti le zone vicine all’incidente sono state simili a quelle dei sopravvissuti alle bombe atomiche. La cattiva informazione e la propaganda terroristica etichettarono quelle popolazioni come vittime di Chernobyl attribuendo loro il ruolo di invalidi, e incoraggiandoli a percepire sé stessi come disperati, deboli e senza prospettiva di alcun futuro; ed è noto che se una situazione è percepita come reale, essa diventa reale nelle sue conseguenze. Naturalmente, tutti credono ora che l’energia atomica sia la più pericolosa, perché così è stato fatto credere da chi ha avuto l’interesse, tutto politico, a demonizzarla. Altri diranno che i rapporti delle Nazioni Unite non fanno altro che difendere gli interessi delle grosse potenze occidentali nucleariste. A questo punto però bisognerebbe mettersi d’accordo circa la corretta interpretazione e legittimazione dei rapporti ONU. Non si capisce, infatti, perché se l’ONU denuncia i cambiamenti climatici e la fame nel mondo diventa la fonte più autorevole esistente, e quando invece analizza gli effetti del nucleare e le sue prospettive diviene strumento guidato dagli interessi del capitalismo mondiale. O è vero tutto, o tutto è in discussione. Ma volendo rimanere alla fobia del nucleare, è facile dimostrare come questa non trovi giustificazione nella pericolosità che questa fonte di energia porta con sé. Il nucleare, infatti, non è la sola causa di incidenti gravi: tutti ricordano Chernobyl, ma anche altre fonti hanno fatto (e tuttora fanno) molte vittime, dirette e indirette. Per il carbone ci sono 6-7mila morti l’anno, soprattutto derivanti dal lavoro in miniera. E il gas naturale? 1984, Messico, a San Juanito esplosero diversi serbatoi di gas uccidendo 550 persone, ferendone 7 mila e 300 mila persone furono evacuate. In quell ’incidente milioni di metri cubi di gas e di chissà quali altri materiali pesanti (metalli, plastiche, vernici, solventi, eccetera) furono immessi nell’atmosfera. E l’oro nero? Senza contare le numerose petroliere che perdono il loro contenuto e inquinano il mare, esistono innumerevoli disastri dimenticati. Warri, Nigeria, 1998:la perdita di un oleodotto provocò la morte di più di 500 persone. Seul, 1994: in seguito all’esplosione di diversi serbatoi di carburante morirono 500 persone. Durunkha, Egitto, 1994: in seguito all’esplosione di un pozzo di petrolio morirono più di 600 persone...e ce ne sono molti altri. E sono solo tre di molti casi altrettanto gravi. Curiosamente in nessuno di questi disastri ci si è curati di controllare le sostanze cancerogene immesse in atmosfera o di calcolare le possibili vittime a lungo termine. Per l’idroelettrico basterebbe infine pensare al Vajont, anno 1963, con quasi 2.000 morti.
|