In Italia si è risvegliato il dibattito sul nucleare |
Le dichiarazione del premier Berlusconi sul nucleare, qualunque sia il giudizio che se ne dà, non rappresentano un’uscita estemporanea: un numero monografico della rivista “Aspenia” (La seconda era del nucleare) e articoli più squisitamente tecnici comparsi in parallelo su “La Termotecnica” ed “Energia” avevano già riproposto anche in Italia una problematica che altrove ha ripreso a circolare da diverso tempo.
Si tratta di un tema non nuovo per questa rivista, che tuttavia merita una rivisitazione più approfondita in grado di offrire un arco di informazioni e di opinioni per quanto possibile esaustivo, anche perché la riapertura del dibattito sul nucleare non è casuale, come cercherò di mettere in evidenza - in termini necessariamente sintetici, ma soprattutto in parte problematici in parte provocatori - in questo intervento introduttivo.
La causa principale del sostanziale arresto nello sviluppo di impianti nucleari nell’Occidente industrializzato non sono stati i movimenti di opposizione a questa scelta energetica e nemmeno, secondo una vulgata in auge presso alcuni nuclearisti, gli interessi dei petrolieri. Paradossalmente entrambi hanno contato molto meno degli ingegneri addetti allo sviluppo delle tecnologie nucleari, fermamente convinti che un reattore fosse una caldaia di tipo nuovo, a cui andavano applicati gli stessi criteri validi per gli altri impianti di generazione elettrica. In particolare: una potenza delle singole unità sempre più elevata per garantire i massimi benefici, in termini economici, derivanti dall'effetto di scala; una densità di potenza, all'interno del reattore nucleare, la più alta possibile; condizioni spinte per l'estrazione del calore dal nocciolo. Obiettivi, tutti, perseguiti per alcuni decenni con zelo degno di miglior causa, col risultato di allontanare sempre di più gli impianti dalle condizioni per le quali non sarebbe stato necessario un piano di emergenza, la cui semplice esistenza ha creato allarme nell'opinione pubblica, che si è tradotta in pressanti richieste per ulteriori garanzie di sicurezza. Ne è risultato un aumento disordinato del numero e dell'importanza dei sistemi di sicurezza attivi, cioè richiedenti l'azione di meccanismi, di circuiti elettrici, e così via.
Poiché le sicurezze attive non sono mai affidabili al cento per cento, si è ovviato a questo handicap duplicando o triplicando i sistemi di intervento, oppure affiancando sistemi con caratteristiche diverse (ad esempio un comando pneumatico e uno elettromagnetico), col risultato di complicare l'impianto, di renderlo più costoso e più difficile da gestire. Last but not least, il ritardo con cui i tecnici hanno compreso il nocciolo razionale della crescente ostilità alle tecnologie nucleari, ha peggiorato la situazione con risposte insufficienti quando non addirittura arroganti, ai dubbi espressi dall’uomo della strada; analoghe conseguenze ha avuto il colpevole silenzio sulle insufficienze in termini di sicurezza di alcune tecnologie sviluppate in Unione Sovietica, mantenuto fino a quando, con il disastro di Chernobyl, non è stato più possibile nasconderle. Il blocco di fatto dei programmi nucleari in Occidente, dovuto al concomitante effetto degli incrementi nei costi, dei tempi lunghi e delle difficoltà di realizzazione come conseguenza delle crescenti opposizioni, ha in pratica relegato la realizzazione di nuovi impianti nei Paesi un tempo appartenenti all’area sovietica (attualmente circa il 30% del totale) e in Estremo Oriente (circa i due terzi del totale); di particolare evidenza i programmi cinesi, con circa 7.500 MW entrati in funzione nell’ultimo decennio più ulteriori 950 MW quest’anno, e un programma già approvato per circa 25.000 MW. Oltre che alla diversa sensibilità e al ridotto (o inesistente) potere d’incidenza dell’opinione pubblica, la persistenza di significativi programmi nucleari al di fuori dei Paesi occidentali viene comunemente attribuita anche alla difficile compatibilità degli impianti nucleari dell’attuale generazione con mercati elettrici liberalizzati, in cui la domanda non è né certa né programmabile a lungo termine. Condizioni, entrambe, che favoriscono investimenti in impianti a ridotta intensità di capitale, su piccola scala e realizzabili in tempi contenuti: tutte assenti negli impianti nucleari oggi offerti sul piano commerciale. Questa tesi, che anch’io ho sostenuto a più riprese, sembrerebbe trovare oggi un’eccezione nella scelta - per di più decisa da una società privata - di costruire un impianto nucleare da 1.600 MW in Finlandia, cioè in un paese facente parte del Nortel, a detta di tutti il più efficiente mercato elettrico oggi esistente. A proposito del caso finlandese, che merita comunque uno specifico approfondimento in uno dei prossimi numeri della rivista, va però preliminarmente osservato che lo Stato ha garantito per quarant’anni l’acquisto dell’energia prodotta al prezzo di costo. Tuttavia il risveglio del dibattito sul nucleare trae essenzialmente origine da due tipi di preoccupazioni, che in tempi recenti sono andate aggravandosi. Non meno acuti sono i timori per gli effetti dell’accumulo nell’atmosfera di gas climalteranti, fra cui il più rilevante è l’anidride carbonica prodotta nella combustione di carbone, prodotti petroliferi, gas naturale, se pur con peso diverso (un impianto a gas a ciclo combinato, a parità di energia produce meno del 50% della CO2 emessa da un impianto a carbone di tipo avanzato). Analizzando le prese di posizione in materia, accanto al consenso pressoché unanime sulla necessità di puntare su un continuo incremento dell’efficienza nella produzione, nelle trasformazioni, nel trasporto e nell’utilizzo finale delle diverse fonti energetiche, e alle ipotesi - per ora ancora allo studio - di sequestro della CO2 che rivitalizzerebbero l’uso del carbone, è visibile per così dire “a occhio nudo” la crescita di una posizione intermedia, fra gli opposti sostenitori delle fonti rinnovabili o del nucleare come soluzioni risolutive sul medio-lungo periodo, che propone invece un mix nucleare-rinnovabili, ipotesi fino a poco tempo fa pressoché assente dal dibattito (lo studioso di problemi ambientali James Lovelock è forse il più noto fra questi “terzisti”). Tale proposta si base sulla constatazione che: a) dati i ritardi accumulati e la spinta alla crescita dei consumi energetici nei PVS, i tempi richiesti per cambiare in misura significativa le tendenze attuali non riusciranno a impedire l’incremento della temperatura media del globo; b) per realizzare l’obiettivo realistico di contenerlo entro limiti non catastrofici si deve necessariamente intervenire da subito utilizzando tutte le tecnologie disponibili, senza tralasciarne nessuna, e puntare sullo sviluppo più rapido possibile di tutte le innovazioni oggi allo studio. Al di là di opinioni difformi, che è auspicabile si esprimano nel dibattito aperto da questa nota introduttiva, rimane indubitabile che il combinato delle preoccupazioni relative alle disponibilità future di petrolio e gas e all’effetto serra reintroduce il nucleare nel confronto sulle opzioni tecnologiche. Si tratta però di un’ipotesi realistica? In questa introduzione mi limiterò essenzialmente a individuare i quesiti principali a cui si deve tentare di rispondere. Molte delle nuove soluzioni impiantistiche tendono appunto a rimuovere ostacoli alla penetrazione del nucleare nei mercati elettrici liberalizzati, riducendo drasticamente le taglie degli impianti e i tempi per la loro realizzazione. Rimane comunque aperto il problema dei costi del nucleare rispetto a soluzioni alternative, su cui è doveroso aprire una discussione di merito, anche se, come ho avuto occasione di osservare su questa stessa rivista a proposito del carbone (La battaglia del carbone si combatte sul monte Fior, “Nuova Energia”, n. 6 del 2004), in un mercato liberalizzato il confronto va fatto anche sulla capacità delle diverse tecnologie di proporre prezzi vincenti nelle differenti fasce orarie. Nelle ore vuote, infatti, sono obiettivamente favoriti gli impianti con costi proporzionali più bassi, che possono di conseguenza ridurre le ore di funzionamento della concorrenza, riducendone quindi la competitività nelle fasce a elevata domanda. Anche nell’ipotesi che a tutte le problematiche fin qui esposte sia possibile dare risposte positive per il nucleare, rimarrebbero pur sempre due ostacoli principali alla sua ripresa in Occidente: le banche e il terrorismo. Dei due pericoli, di gran lunga più preoccupante è il rischio della proliferazione di ordigni nucleari e di bombe sporche. Nel periodo della guerra fredda l’esistenza di potenze nucleari ha agito nel senso di impedire conflitti globali, perché a fronteggiarsi erano Stati che decidevano sulla base di analoghe motivazioni razionali. Oggigiorno non è più così: sono leciti dubbi su alcuni Stati che hanno raggiunto il nuclear hedging (dispongono cioè di conoscenze e infrastrutture per dotarsi rapidamente di armi nucleari), mentre nel caso del terrorismo internazionale siamo già in una situazione di asimmetria razionale, che aumenta in misura imprevedibile il rischio di uso di ordigni nucleari o di bombe sporche. Di qui un’ultima serie di interrogativi che attendono risposta. Come e in quale misura è possibile proseguire lo sviluppo di impianti nucleari senza aumentare i rischi di proliferazione? La gestione dei residui radioattivi è in grado di impedire la diversione di materiale per la costruzione di bombe sporche? Quanto può ostacolare un rilancio del nucleare in Occidente l’impegno richiesto per evitare la crescita di Paesi in situazione di nuclear hedging e per impedirne la transizione a potenza nucleare, come quello per contrastare la disponibilità di mezzi di offesa nucleare o radioattiva da parte di gruppi terroristici? |