Caro Guido, io la penso così... |
di G.B. Zorzoli Fra pochissimi anni Guido Possa e il sottoscritto raggiungeranno il mezzo secolo di familiarità, che per un ventennio ci ha visto lavorare insieme per raggiungere obiettivi allora ritenuti essenziali per fare fronte ai problemi energetici del Paese. Poi le nostre strade si sono divise, ma le occasioni di incontro e di confronto non sono mancate. Sempre con una immutata stima reciproca.
Possa sa bene che ogni significativa novità in campo scientifico non si impone con un taglio netto rispetto alle teorie precedenti, come documenta Thomas Kuhn nel suo fondamentale saggio “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”. I contemporanei di Galileo avversari dell’ipotesi della rotazione della Terra, non erano tutti degli ottusi retrogradi, come ce li figuriamo oggi. Con un corretto calcolo matematico, i più preparati dimostrarono che se la Terra ruotava alla velocità richiesta per l’alternarsi del giorno e della notte si sarebbero prodotti venti di tale velocità da sradicare ogni cosa: alberi, case, ponti. Solo anni dopo, quando Newton ebbe elaborato la teoria della gravitazione universale, da cui si deduce che l’atmosfera ruota solidalmente col globo terrestre, la suddetta critica cessò di avere basi scientifiche. Eppure già prima della pubblicazione degli studi di Newton la maggioranza della comunità scientifica aveva accettato il paradigma galileano, sulla base di un criterio che ha continuato a seguire fino ai giorni nostri: i problemi che risolveva, i punti dubbi che contribuiva a chiarire, erano superiori a quelli irrisolti o ai nuovi interrogativi che sollevava. Oggi la grande maggioranza dei climatologi concorda sull’esistenza di una correlazione fra attività antropiche, crescita della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, aumento della temperatura. Anche l’ipotesi secondo cui i cambiamenti climatici sono il risultato di una crescente intensità della radiazione solare è stata considerata dall’IPCC che ne ha valutato l’effetto, trovandolo di importanza secondaria rispetto alla cresciuta presenza dei gas serra nell’atmosfera terrestre. Con questo non intendo affatto minimizzare le incertezze che tuttora permangono (come confermano i rapporti dell’IPCC).
Io, come Guido Possa, non sono un climatologo. Ho tuttavia letto (e ascoltato) abbastanza sull’argomento per rendermi conto che la scelta fatta dalla grande maggioranza degli addetti ai lavori è conforme al criterio di accettazione che ho più sopra riassunto. E il livello di confidenza nelle proiezioni riportate nel recente IV Assessment Report dell’IPCC mette in evidenza quanto lavoro sia stato nel frattempo svolto per migliorare lo stato delle conoscenze. Di conseguenza non intendo assumere, a parti invertite, il ruolo di chi, non avendo mai lavorato direttamente nel settore, ai tempi del dibattito sul nucleare in Italia metteva in dubbio affermazioni tecnico-scientifiche di persone come il sottoscritto e Guido Possa. Credo che su questo lo stesso Guido non potrà non convenire. Non a caso i suoi dubbi sulla correlazione fra aumento della temperature terreste e attività antropiche sono caratterizzati da una notevole cautela che non si ritrova in altri effetto serra-scettici, a conferma della sua serietà scientifica e della sua onestà intellettuale. Naturalmente il dibattito sul nucleare o a maggior ragione quello sul riscaldamento globale non è riducibile a una controversia esclusivamente scientifica, nel cui ambito deve prevalere l’opinione degli esperti: per le altre implicazioni è dunque naturale che nel confronto intervengano altri soggetti. Tanto più quando si tratta di un autorevole parlamentare. Prima di entrare nel merito delle critiche mosse da Possa alla Commissione europea, vorrei però sottolineare un’impressione che involontariamente la sua lettera può trasmettere al lettore non troppo addentro a queste problematiche: definire “perniciose” le scelte dell’Europa può portare a dedurne che tutto il resto del mondo si muove in tutt’altra direzione Non è così. Il 2 febbraio scorso l’amministrazione Bush ha fatto proprio il IV Assessment Report dell’IPCC e questo primo riconoscimento ufficiale dei rischi derivanti dalle emissioni di anidride carbonica era stato anticipato dalle decisioni operative di una decina di Stati, California in testa, tutti orientati a contenere le emissioni di anidride carbonica, riducendo, proprio come in Europa, la combustione di petrolio, gas, carbone mediante una maggiore efficienza energetica e un accelerato ricorso alle fonti rinnovabili. Le principali aziende americane non sono da meno. Il 22 gennaio 2007 dieci delle maggiori compagnie americane, comprese Alcoa, General Electric e Lehman Brothers, hanno inviato al presidente degli Stati Uniti, George W.Bush, un invito ad intraprendere azioni più aggressive per contrastare il mutamento climatico, con l’obiettivo di forzare il presidente ad abbracciare un sistema di tetti obbligatori sulle emissioni di gas serra in grado ridurle di almeno il 30% nei prossimi 15 anni (perniciose anche queste società?). Più recentemente, il 18 luglio scorso, al segretario di Stato americano per l’energia, Samuel Bodman, è pervenuto il rapporto elaborato su sua richiesta dal National Petroleum Council, già molto esplicito nel titolo: “Facing the Hard Truths about Energy”. Un testo ponderoso,più di 400 pagine, a cui hanno collaborato direttamente 350 esperti, mentre pareri e contributi sono stati richiesti a un altro migliaio di persone, compresi 19 ministri per l’energia di altri Paesi. A coordinare il tutto Lee Raymond, ex-presidente e amministratore delegato della Exxon Mobil, e il sottosegretario per l’Energia, Jeffrey Clay Sell, contornati da un discreto numero di importanti oil men.
Per non farla troppo lunga, mi limito infine a ricordare che durante la visita in Giappone dell’aprile scorso il primo ministro cinese Wen Jiabao ha annunciato che la Cina è pronta ad assumere gli impegni che le competono per il post-Kyoto. Non è episodio marginale. Quando si muove, la Cina lo fa con una determinazione e una velocità a noi non più familiari. Ancora più di recente,il 9 settembre all’incontro dell’APEC tenutosi in Australia, i capi di Stato e di governo di ventuno Paesi, fra cui Stati Uniti, Cina, Australia, Russia, Giappone, hanno approvato una dichiarazione su “cambiamenti climatici, sicurezza energetica e sviluppo pulito”, in cui si impegnano a sostenere gli accordi internazionali sui cambiamenti climatici post-Kyoto. Queste le posizioni di grandi aziende americane, petrolieri, governi che fino a poco tempo fa addirittura negavano l’esistenza o il rilievo dei cambiamenti climatici: non credo che li si possa accusare di avere abbracciato le tesi ambientaliste! Una volta stabilito che il consenso sulla gravità e sull’urgenza di adeguati interventi è oramai molto esteso non solo a livello scientifico, ma anche politico, mi sembra più produttivo concentrare la discussione sugli strumenti da adottare. Come mai tutti scelgono di intervenire sull’utilizzo dei combustibili fossili e non sulle altre cause di emissione di anidride carbonica, come sottolinea giustamente Guido Possa? Il Little Green Data Book 2007 della Banca Mondiale conferma che l’utilizzo dei combustibili fossili e le attività industriali sono responsabili solo del 56% delle emissioni mondiali di anidride carbonica, ma ciò è dovuto principalmente a quanto avviene nei Paesi in via di sviluppo. Se infatti ci si limita ad analizzare i dati dei Paesi sviluppati, la combustione di fossili e le attività industriali diventano responsabili dell’81% delle emissioni. D’altra parte il protocollo di Kyoto - e su questo non vi furono obiezioni sostanziali - non solo stabilì che fino al 2012 dall ’impegno a ridurre le emissioni di gas serra erano esentati i Paesi in via di sviluppo; nella medesima sede e soprattutto nelle successive conferenze delle parti prevalse l’indirizzo di privilegiare gli interventi all’interno dei Paesi sviluppati. Si può discutere sulla bontà di queste decisioni ma, una volta prese, la scelta di cercare di renderle operative è più corretta di quella unilaterale di non onorarle. Inoltre un politico con l’esperienza di Guido Possa (tre legislature, in una per cinque anni vice ministro per la Ricerca) sa molto bene che la politica è l’arte del possibile. È molto più agevole e fattibile individuare gli strumenti ritenuti più efficaci per intervenire sulla combustione di fossili e sulle attività industriale che, ad esempio, sul cambio d’uso della Terra nei Paesi in via di sviluppo. Non a caso tutti, anche i soggetti che nemmeno la persona più maliziosa può sospettare di avere abbracciato le tesi ambientaliste, hanno scelto o indicato questa via. Il che non esclude di intervenire sul resto delle emissioni, ma questa non può realisticamente diventare la strategia dominante, anche perché la fuoriuscita dal sottosviluppo di giganti come la Cina, l’India, il Brasile, sta cambiando rapidamente il rapporto complessivo nei PVS fra contributi dovuti alla combustione e alle industrie e quelli derivanti da altre attività. Ultimo tema affrontato da Possa,le soluzioni tecniche adottate, di cui in realtà menziona una sola, le fonti rinnovabili, mentre non si pronuncia sui contributi che possono venire dall’aumento dell’efficienza energetica. Lo fa perché li considera marginali? Se questo è il caso, fra le molte letture possibili gli consiglio il numero di luglio 2007 de L’ingegnere italiano, organo del Consiglio nazionale degli ingegneri,che in copertina ha un solo richiamo: EFFICIENZA ENERGETICA – NUOVA FRONTIERA. Per le rinnovabili, a parere di Possa l’apporto del 20% al 2020 è un obiettivo “radicale,sostanzialmente non conseguibile e comunque costosissimo ”. Radicale lo è di certo, tuttavia non più di quello che nella seconda metà del secolo XIX portò diversi Paesi alla realizzazione di reti ferroviarie pur in presenza di costi d’investimento non giustificati dal flusso di merci e passeggeri fino a quel momento esistente sulle medesime tratte (materia, questa, di riflessione anche per gli avversari della TAV che alla sua realizzazione oppongono argomentazioni analoghe). Nel secolo XIX i Paesi che osarono ne trassero opportunità di sviluppo enormemente superiori agli altri. Oggi di analoghe prospettive per le rinnovabili sono convinti Paesi come il Giappone e la Germania, non a caso fra quelli all’avanguardia nello sviluppo tecnologico e industriale. Malgrado la sostanziale latitanza dell’amministrazione federale, nell’ultimo periodo anche negli Stati Uniti si assiste a una forte ripresa sia delle attività produttive sia delle applicazioni commerciali delle rinnovabili. Sbagliano anche i non pochi imprenditori americani che hanno fatto questa scelta? Per mancanza di spazio non posso entrare in soverchi dettagli. Mi limito ad osservare che l’energia eolica è già competitiva là dove i regimi dei venti sono favorevoli, mentre i costi del fotovoltaico diminuiscono oramai da un quindicennio del 20% a ogni raddoppio della produzione, evento che all’attuale velocità di crescita si verifica in meno di tre anni. Di conseguenza dal confronto fra i costi reali dell’energia attualmente prodotta in Italia per via fotovoltaica e il prezzo medio dell’energia elettrica al consumatore privato è ragionevole prevedere che al più tardi nel 2015 per costui diverrà conveniente installare sul tetto un impianto fotovoltaico, ovunque ciò sia possibile. Per gli impianti a biomasse gli obiettivi già conseguiti con la Short Rotation Forestry consentono di immaginare fin d’ora un loro non trascurabile contributo alla generazione elettrica.
Immagino una possibile obiezione di Guido Possa: rasentare in tal modo il 30% di contributo delle rinnovabili alla generazione elettrica (dove va prodotto il massimo dello sforzo) indubbiamente comporterà problemi non marginali di gestione delle reti, soprattutto di distribuzione. Tuttavia in tutto il mondo (anche in Italia, in particolare al Cesi) sono in fase di avanzato sviluppo le innovazioni necessarie per consentire alle reti di distribuzione di accettare al loro interno consistenti carichi attivi. Insomma, si tratta di una delle tanti innovazioni sulle reti che hanno caratterizzato il loro più che secolare sviluppo. Per restare al settore elettrico,dove Guido ed io abbiamo maggiore familiarità, secondo le proiezioni del documento governativo nel 2020 grosso modo il 70% dell’energia in Italia verrebbe ancora prodotta bruciando fonti fossili: nella sostanza molto gas e poco del resto. D’altra parte, vista l’entità degli investimenti in cicli combinati già completati o in fase di realizzazione, non c’è da illudersi di riuscire a cambiare di molto l’attuale mix produttivo in presenza di un parco termoelettrico dove prevalgono e prevarranno impianti con scarsa “anzianità”. Tuttavia anche tutto ciò che realisticamente potrebbe essere fatto in termini di diversificazione delle fonti fossili, dovrà fare i conti con i vincoli posti da Bruxelles alle emissioni di anidride carbonica. A questa situazione si può reagire sulla falsariga del commento sarcastico di Bertolt Brecht di fronte alle risposte del governo della DDR alla rivolta operaia del giugno 1953: “Compagno presidente, il popolo ci ha tolto la fiducia”, “Allora non ci resta che sfiduciare il popolo”. Poiché si incontrano difficoltà a realizzare impianti a carbone, si nega o si minimizza l’esistenza di un riscaldamento globale del Pianeta correlato alla combustione di fonti fossili; oppure, meno estremisticamente, si afferma che per risolvere il problema ci vorrebbe “ben altro”. Mi rifiuto di credere che questo sia l’atteggiamento di Possa. Più probabilmente, come me, giudica più realistico puntare sullo sviluppo delle tecnologie per la cattura e il sequestro dell’anidride carbonica che,una volta diventate economicamente accettabili per impianti a carbone, potrebbero in tempi non lunghi ridurre le emissioni anche nei numerosi cicli combinati presenti nel nostro Paese. Per l’Europa porsi su questa linea non significa necessariamente assumere la parte del Pierino. Se vogliamo che anche i Paesi extracomunitari siano indotti a contribuire al contenimento delle emissioni di gas serra, i nostri rappresentanti politici, soprattutto quando su questi temi hanno l’autorevolezza di Guido Possa, dovrebbero sostenere in tutte le sedi la proposta di recente avanzata ufficialmente dal presidente dell’Autorità per l’energia. Essa parte da una constatazione incontrovertibile: i criteri con cui il protocollo di Kyoto assegnò gli obiettivi di riduzione dei gas serra si basavano implicitamente sull’ipotesi che all’interno delle grandi aree territoriali considerate vi fosse una sostanziale coincidenza tra emissioni effettive ed emissioni indotte dai consumi del territorio stesso. Questa ipotesi poteva ancora rappresentare una discreta approssimazione della realtà negli anni‘90, quando - come osserva Ortis - “la modesta dimensione degli scambi commerciali tra continenti rendeva in effetti sostanzialmente coincidenti un vincolo sulle emissioni prodotte o un vincolo sulle emissioni associate ai consumi europei”, ma oggi con la globalizzazione dei commerci, che vede fra i protagonisti importanti Paesi asiatici, in particolare la Cina, la situazione è radicalmente cambiata.
Non solo vi è sempre meno coincidenza geografica fra produzioni e consumi, ma politiche come quelle adottate in Europa per realizzare gli obiettivi di Kyoto tendono ad accentuare il fenomeno, in quanto contribuiscono a localizzare le produzioni a maggiore impatto ambientale in Paesi dove i vincoli in materia sono minori o di fatto inesistenti. Di conseguenza, rileva Ortis, l’enorme incremento delle emissioni di gas serra nei Paesi emergenti è dovuto meno alla crescita dei consumi interni e molto di più alla straordinaria crescita delle esportazioni; nel secondo caso si tratta quindi di un aumento delle emissioni per soddisfare i consumi di altri Paesi, fra cui non ultimal’Europa. Trattandosi di beni quasi sempre prodotti con processi meno rispettosi dell’ambiente rispetto a quelli consentiti nei Paesi europei, lo spostamento in tali Paesi di attività industriali indotto dall’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra in Europa porta paradossalmente a un incremento globale di tali emissioni. Da questa constatazione discende la proposta avanzata dall’Autorità per l’energia: “Noi crediamo che sia indispensabile, per valutare correttamente le emissioni europee, considerare non soltanto quelle determinate dalle produzioni europee, ma anche quelle ascrivibili ai consumi del nostro continente. Fino a quando l’acquisto in Europa di un bene prodotto in altri continenti non verrà computato in alcun parametro di valutazione ambientale europeo, non vi sarà alcuna garanzia di agire verso il contenimento delle emissioni; anzi è reale il rischio di concorrere ad incrementarle attraverso un pur indesiderato incentivo indiretto a importare o a delocalizzare le produzioni in territori ove la tutela ambientale è ben poco praticata”. Non sfugge a nessuno la complessità del passaggio da criteri che pongono limiti alle emissioni su base territoriale ad altri che i limiti li mettono alle emissioni indotte dai prodotti consumati, tenendo conto della loro provenienza, anche se il lavoro in corso a livello europeo sul ciclo di vita ambientale dei prodotti offre già una importante base metodologica e in parte conoscitiva. Non è però questa una buona ragione per continuare imperterriti su una strada dove elevato è il rischio di produrre risultati opposti a quelli voluti. Oltre tutto secondo Ortis “i processi in corso di revisione della direttiva emission trading e di revisione degli strumenti di difesa commerciale dell’Unione europea potrebbero essere anche l’occasione per studiare regole idonee a contrastare gli effetti antiambientali, prima ancora che anticompetitivi, di pratiche commerciali che non garantiscono standard adeguati per l’ambiente”. Se il mondo politico,in tutt ’altre faccende affaccendato, si occupasse - come merita - di questa proposta, le cui valenze non solo ambientali sono evidenti, credo che darebbe un grosso contributo alla contestuale mitigazione dell’effetto serra e di alcuni problemi di unfair competition. Per quanto concerne il primo obiettivo, è da non considerare in alternativa alle proposte che in Europa e altrove mirano a mettere ordine in casa propria, bensì aggiuntive. Insomma, unicuique suum. Per consulate la dichiarazione su "cambiamenti climatici, sicurezza energetica e sviluppo pulito", approvata nel corso della riunione Apec tenutasi a Sidney lo scorso 9 settembre da 21 capi di Stato e primi ministro, clicca qui. |