Riduzione dei gas serra, vale la pena sottoporsi a simili sacrifici? |
di Guido Possa Il Consiglio europeo, l’organismo istituzionale al massimo livello dell’Unione europea, composto dai Premier dei 27 Stati membri, nella riunione tenutasi a Bruxelles l’8 e 9 marzo di quest’anno ha assunto varie, importanti e radicali decisioni circa la politica energetica. Tra queste si è impegnato a realizzare una riduzione delle emissioni antropogeniche di gas ad effetto serra di almeno il 20 per cento entro il 2020 rispetto al 1990. Il Consiglio si è anzi dichiarato disposto a sottoscrivere una riduzione del 30 per cento, sempre al 2020, a condizione che gli altri Paesi sviluppati si impegnino ad analoghe riduzioni delle emissioni e i Paesi in via di sviluppo si impegnino a contribuire adeguatamente. Si tratta della seconda decisione di riduzione delle emissioni di gas serra, dopo quella sottoscritta con il Protocollo di Kyoto. Riguarderà gli anni 2012-2020. Si colloca in una linea di politica energetica e ambientale che prevede esplicitamente di pervenire al 2050 a riduzioni del 50-60 per cento e in prospettiva a lungo termine ad una low carbon economy, ovvero ad una economia non più basata sulle energie da combustione. Tale decisione merita di essere commentata sotto diversi aspetti:
Nel Protocollo di Kyoto,approvato l’11 dicembre 1997, i Paesi industrializzati firmatari si sono impegnati per gli anni 2008-2012 a una riduzione delle emissioni nell’atmosfera dei gas ad effetto serra pari al 5,2 per cento rispetto al 1990. L’Unione europea, che in questa materia vuol essere la prima della classe, ha assunto un impegno di riduzione dell’8. In quest’ambito l’Italia si è impegnata ad una riduzione delle proprie emissioni del 6,5. I gas ad effetto serra considerati nel Protocollo sono sei:
In Italia nel 1990 le emissioni di gas serra sono state pari a 519,5 milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente. Sono state di gran lunga prevalenti le emissioni di CO2 (83 per cento), seguite a distanza da quelle del metano e dell’ossido di azoto (pari ciascuna a circa l’8 per cento del totale); poco rilevanti le emissioni degli altri gas. L’obiettivo di fondo che si vuole ottenere con la riduzione dell’emissione dei gas serra è limitare l’aumento della temperatura dell’atmosfera al suolo dovuto alle emissioni stesse. Si ritiene che questo aumento, ove superi i 2 °C rispetto alle temperature preindustriali (e già riscontriamo un incremento di 1,1 °C), determini gravi cambiamenti climatici (siccità,innalzamento del livello degli oceani, profonda alterazione della piovosità, diffusione di malattie tropicali, liberazione dalla terraferma e dagli oceani di ulteriori grandi quantità di gas serra).
Si tratta di ricette apparentemente semplici, ma costose e difficili da porre effettivamente in essere. Per quanto riguarda i primi due punti, sono di ostacolo le radicate abitudini di consumo (basti pensare, ad esempio, alla lentezza di diffusione delle lampadine a basso consumo) e l’ovvia riluttanza a sostituire apparecchiature e impianti non ancora ammortizzati con altri più efficienti reperibili sul mercato. Per quanto riguarda il terzo punto, allo stato attuale della tecnologia l’unica fonte rinnovabile meritevole di importante sviluppo in Europa è quella eolica, che tuttavia in qualche Paese (tra cui l’Italia) presenta varie limitazioni.
Ma i suoi costi sono tutt’altro che trascurabili (anche se la Commissione europea si affanna a dimostrare l’opposto). Al riguardo possono essere indicative le grosse difficoltà che stiamo avendo in Italia per rispettare gli obblighi assunti con il Protocollo di Kyoto. È successo che i comparti maggiormente responsabili delle emissioni di gas serra nel 1990, e cioè la produzione di energia elettrica – 24 per cento – e i trasporti – 20 per cento – (percentuali del 1990) da allora ad oggi, per lo sviluppo stesso della nostra economia, hanno continuato ad aumentare le loro emissioni. Nell’inventario del 2004 l’Italia risulta così avere emesso 580,7 milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente, una quantità maggiore dell’11,8 per cento rispetto al 1990. Per conseguire l’obiettivo di Kyoto, dovremmo perciò ridurre le emissioni non più del 6,5 per cento, ma del 18,3 (e cioè di 95,0 milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente), cosa evidentemente impossibile. Saremo allora costretti a far ricorso all’acquisto di diritti di emissione dai Paesi membri virtuosi nell’ambito dell’apposito mercato Ets (European Trading System). L’Ets è il mercato in cui i Paesi membri dell’Unione europea scambiano i loro diritti di emissione di anidride carbonica (ciascun Paese dell’Unione europea ha diritto di emettere nell’atmosfera senza sanzioni una certa quantità di gas serra). L’Ets fa parte della complessa e implacabile machinery messa a punto dai burocrati di Bruxelles per obbligare gli Stati membri a rispettare gli impegni assunti con il Protocollo di Kyoto, machinery basata su accurati inventari nazionali, su Piani nazionali di assegnazione di quote di emissione e su severe sanzioni (100 euro a tonnellata di anidride carbonica) per gli eventuali esuberi di emissione. Si prevede che l’acquisto dei diritti di emissione ci costerà una somma compresa tra 1 e 2 miliardi di euro all’anno (dal 2008 al 2012), ovviamente alla fine pagata da Pantalone nella bolletta elettrica. È paradossale che il nostro Paese, dove la produzione di energia termoelettrica è ormai la meno inquinante del mondo (basata com’è sull ’uso del costoso gas metano), debba acquistare diritti di emissione da Paesi come la Germania, che produce quasi il 50 per cento di energia elettrica mediante il carbone e che per l’abilità dei suoi negoziatori a Bruxelles è riuscita ad ottenere diritti di emissione di gas serra maggiori del nostro in termini procapite del 40 per cento. Se per il nostro Paese già così gravi sono le difficoltà per conseguire nel 2008-2012 una riduzione delle emissioni dei gas serra del 6,5 per cento, possiamo facilmente immaginare quanto enormi sarebbero per operare la ben più consistente riduzione del 20 per cento, sia pure all’anno 2020. Il consistente aumento del costo dell’energia elettrica che ne deriverebbe avrebbe molto pesanti conseguenze anche in termini di perdita di competitività. Vale la pena sottoporsi a simili sacrifici? |