La partita europea si gioca al Topkapi

di Salvatore Aprea

..Recep Tyyip Erdogan

In una intervista del luglio scorso il presidente della Commissione europea Barroso asseriva: La Turchia non è pronta ad entrare nell’Unione Europea e l’Unione non è pronta ad accettarla come membro. Né domani né dopodomani. Ma siamo sicuri di non essere di fronte a uno di quei casi in cui in un minuto c'è il tempo per decisioni e scelte che il minuto successivo rovescerà, per dirla con Thomas Stearns Eliot?

L’economia turca durante il governo dell’Akp
La Turchia è un Paese anagraficamente giovane (1/4 dei suoi 72 milioni di abitanti ha meno di 14 anni) in cui il settore privato è in rapida espansione, ma lo Stato svolge ancora un ruolo principale in industria, banche, trasporti e comunicazioni. Il rigido modello che impiantò Kemal Ataturk negli ultimi anni si è allineato poco per volta agli Stati di diritto europei, preservando nel contempo i tratti originari della laicità e dello statalismo ed il potere della classe dirigente kemalista (vertici militari, burocrazia, sistema giudiziario e servizi di sicurezza). La larga vittoria nelle elezioni dello scorso luglio dell’Akp, il partito islamico moderato del primo ministro Erdogan, rappresenta per la Turchia una svolta storica sostenuta dalla piccola e media borghesia, mai considerata dalle precedenti amministrazioni. Conservatrice e devota, di forte presa imprenditoriale, diffidente verso lo statalismo kemalista, questa classe sociale alle urne ha premiato il buon governo più che l’anima islamica dell’Akp. La politica economica del governo Erdogan, infatti, grazie anche al sostegno del Fondo monetario internazionale, si è dimostrata assai utile per dare slancio alla intorpidita economia turca. Non mancano delle debolezze (debito pubblico alto, tasso di disoccupazione al 9,9 per cento, inflazione risalita al 9,65), ma gli investimenti stranieri sono arrivati in misura cospicua, il Pil è cresciuto ad un ritmo asiatico raggiungendo il 9 per cento nel 2004 e attestandosi a circa il 5 l’anno nel biennio 2005-06, la Borsa ha volato e gli stipendi sono quasi raddoppiati.

L’energivora Mezzaluna
La dinamica economia ha reso il Paese un significativo consumatore di energia a livello regionale. I consumi di petrolio del 2006 sono stati analoghi al 2001, stimati dall’Eia in 618.000 barili/giorno (circa 1/3 dell’Italia), ma i consumi elettrici sono cresciuti considerevolmente. Tra il 2000 e il 2004 la potenza totale installata è cresciuta del 36 per cento, raggiungendo i 35,6 GW, forniti per il 68 per cento da impianti termoelettrici e per la parte residua da impianti idroelettrici. I consumi di gas nello stesso periodo sono aumentati del 51 per cento, attestandosi a 22,5 miliardi di metri cubi, grazie anche al notevole incremento negli ultimi 10 anni delle centrali a gas, che ora costituiscono più della metà degli impianti convenzionali. Le fonti fossili però scarseggiano. Secondo l’Oil and Gas Journal nel 2006 le riserve provate di greggio e di gas ammontavano rispettivamente a soli 300 milioni di barili e 8,5 miliardi di metri cubi (meno di 1/12 delle riserve di greggio e di 1/50 di quelle di gas britanniche), anche se la compagnia petrolifera pubblica Tpao asserisce che un contributo significativo potrebbe provenire da un giacimento di gas scoperto nel 2004 al largo delle coste del Mar Nero occidentale, le cui riserve recuperabili stima pari a circa 40 miliardi di metri cubi.
Il rischio di uno shock energetico di notevole portata nei prossimi anni appare reale. Ankara sta perciò ponendo le basi per una nuova politica energetica che, oltre all’utilizzo più massiccio delle non abbondanti risorse carbonifere (nel 2004 ammontavano a 4.150 milioni di tonnellate, meno di 1/3 della Polonia) prevede la costruzione di centrali nucleari, nell'agenda politico-economica turca da 30 anni ma sempre bloccate a causa delle difficoltà di attrarre sufficienti risorse finanziarie e dell’opposizione degli ambientalisti. Nel febbraio scorso Ankara, con la benedizione di Washington, ha presentato il piano per la costruzione in partnership tra pubblico e privato di tre centrali per complessivi 5.000 MW entro i prossimi 8 anni, con un investimento di 15 miliardi di dollari.
Il piano turco punta anche allo sfruttamento del notevole potenziale di cui dispone il Paese nelle fonti rinnovabili, con possibili investimenti valutati in 128 miliardi di dollari. Notevole è il contributo delle risorse idroelettriche, con più di 100 impianti operativi ed una capacità di 12,6 GW, in fase di espansione nell’ambito del Progetto dell’Anatolia Sud-Orientale, il Gap, lungo i bacini dei fiumi Tigri ed Eufrate, che sarà completato nel 2010 con un investimento di 32 miliardi di dollari. Con il Gap, che è considerato uno dei più ambiziosi progetti di sviluppo idrico mai intrapresi, saranno realizzate 22 dighe e 19 centrali, 8 delle quali già operative dal 2005, per una potenza totale di circa 7,5 GW. La Turchia, inoltre, occupa l’ottavo posto nel mondo per la quantità di energia geotermica utilizzabile, sfruttata finora solo per il 2,7 per cento, possiede un enorme potenziale solare e secondo uno studio eseguito nel 2005 dalla Commissione Europea e da Windforce, è la seconda nazione più ricca di vento in Europa, inferiore solo al Regno Unito, con un potenziale di 88.000 MW. Nel breve periodo, tuttavia, escluso l’idroelettrico, il contributo delle rinnovabili non potrà essere rimarchevole.
Ankara ha così deciso di fronteggiare la crescita della domanda energetica stipulando accordi per importare circa 51 miliardi di metri cubi/anno di gas nel 2010, ora divenuti eccessivi rispetto alle recenti previsioni di consumo della società di Stato Botas di 39,6 miliardi di metri cubi/anno (- 25 per cento). Ciò ha anche raffreddato l’interesse della Botas per la costruzione di altri tre impianti di Gnl, tra cui uno da 6 miliardi di metri cubi vicino Smirne per l’importazione dall’Egitto, da affiancare all’unico terminale a Marmara Ereglisi, vicino Istanbul, che importa Gnl dall’Algeria e dalla Nigeria (rispettivamente oltre 3,1 miliardi e 1 miliardo di metri cubi nel 2004). L’obiettivo primario del piano turco resta però l’importazione via pipelines attraverso nuove arterie, intensificando le relazioni con i principali Paesi produttori limitrofi.

La guerra delle pipelines
Un tempo a Est di Costantinopoli passava la via della seta. Oggi la Turchia sta diventando sempre più un corridoio strategico per il transito delle condotte che dalle regioni del Medio Oriente e del Caspio ai suoi confini, ricche del 73 per cento delle riserve mondiali di petrolio e del 72 per cento di quelle di gas, sono dirette ai porti del Mediterraneo e ai mercati europei. Coinvolto in addirittura 13 pipelines, delle quali 7 già operative e 6 in costruzione o in fase di progetto, per il Paese il ruolo di controllore delle zone di passaggio di petrolio e gas, che diversificano le fonti e le rotte, diventa un fattore economico e diplomatico cruciale. Il greggio del Caspio, grazie alla caparbietà americana, non scorre più solo nelle condotte russe, ma raggiunge il terminale petrolifero turco di Ceyhan, nel Mediterraneo orientale, ultima tappa dell’oleodotto di 1.768 chilometri “Baku-Tiblisi-Ceyhan” (BTC) che porta in Turchia il greggio azero attraverso la Georgia ed evitando la troppo filo-russa Armenia. L’oleodotto, gestito da un consorzio di 11 compagnie (tra cui l’Eni per il 5 per cento) guidate da BP, dopo un investimento di 4 miliardi di dollari è operativo dal maggio 2006 e a regime può trasportare oltre 1 milione di barili/giorno, equivalente alla produzione dell’Algeria. Ceyhan è anche il traguardo del “Tap”, l’oleodotto che sarà realizzato in joint-venture dall’Eni e dalla turca Calik Energy, che partendo dal porto turco di Samsun sul Mar Nero, dal 2011 farà arrivare al Mediterraneo 50 milioni di tonnellate l’anno di greggio dal Caspio, in primis dal giacimento kazako di Kashagan. La città turca è poi il punto d’arrivo dell’oleodotto “Kirkuk-Ceyhan”, lungo 970 chilometri con una capacità massima di circa 1,6 milioni di barili/giorno, che esporta il greggio dall’Iraq settentrionale, anche se dal giugno 2003 è operativo sporadicamente a causa dei frequenti sabotaggi. Da Ceyhan in futuro potrebbero poi partire quattro condotti verso Israele per la fornitura di elettricità, acqua, gas e petrolio.

Ankara ha un accordo con Gerusalemme, che ha una partecipazione nei campi petroliferi azeri, per la costruzione di una connessione tra il BTC e il porto israeliano di Ashkelon, da cui, attraverso le condotte israeliane che raggiungono il porto di Eilat nel Mar Rosso, il greggio e il gas del Caspio potrebbero arrivare fino in India.
La città turca è dunque destinata a diventare un hub da cui nel 2012 transiterà il 6-7 per cento del commercio mondiale di petrolio e intorno al 2020 forse altrettanto di gas, preservando lo Stretto del Bosforo dal traffico delle petroliere ed abbreviando i tempi di trasporto verso i mercati orientali da 50 a 19 giorni. Nei primi 120 giorni di operatività, infatti, al molo del BTC hanno attraccato 45 petroliere dirette in Italia, Francia, Spagna, Stati Uniti, India e Israele caricando 32,6 milioni di barili. Tra 5 anni Ceyhan potrebbe movimentare 190 milioni di tonnellate all'anno di greggio, ben 60 milioni di tonnellate in più di Rotterdam, il maggiore porto europeo. Logica conseguenza è anche il potenziamento nell’area di Ceyhan della capacità di raffinazione turca che oggi con 714.275 barili/giorno è meno di 1/3 di quella italiana. Una joint venture tra la Calik Energy e la Indian Oil Company (IOC) ha stimato di investire 4,5 miliardi di dollari per la costruzione di un complesso petrolchimico e di raffinazione da 300.000 barili/giorno, mentre la Petrol Ofisi AS (POAS) ha ipotizzato la costruzione di un impianto da 200.000 barili/giorno per un costo di 2 miliardi di dollari.
Gli interessi in gioco sono enormi e possono scatenare delle guerre degli oleodotti aspre quanto quelle per il petrolio. Il BTC è infatti considerato da vari analisti una delle origini della guerra libanese e, bypassando la Russia, la ragione che ha spinto Mosca ad aggirare la Turchia siglando il 15 marzo scorso ad Atene un accordo di cooperazione con Bulgaria e Grecia per la costruzione di una "strada del petrolio" che colleghi il porto bulgaro di Burgas sul Mar Nero con il porto greco di Alexandropoulos sull'Egeo.
Se lo scenario degli oleodotti è in piena evoluzione, non dissimile è il quadro dei gasdotti, anche a causa della drastica crescita della domanda turca di gas. L’importazione turca proviene dalla Russia per i 2/3, pari a 24 miliardi di metri cubi nel 2006, attraverso due condotti. Una pipeline, la “Trans-Balkan”, viaggia via terra da Ovest, attraversando Moldova, Ucraina, Romania e Bulgaria, e ha una capacità di 14 miliardi di metri cubi/anno. L’altra arteria è il “Blue Stream”, una pipeline di 1300 chilometri, criticata da diversi analisti energetici turchi per avere incrementato la dipendenza del Paese dal gas russo. Completato nel 2002 da Gazprom, Eni e Botas con un investimento di 3,2 miliardi di dollari, il gasdotto attraversa il Mar Nero raggiungendo il porto turco di Samsun e prosegue fino ad Ankara e ha una capacità di 16 miliardi di metri cubi/anno, anche se nel 2006 l’import turco è stato circa la metà e il raggiungimento della capacità massima non è programmato fino al 2010.
Oltre che dalla Russia il mercato turco del gas è rifornito dal 2002 dall’Iran tramite la “Iran-Turkey Pipeline” che corre per circa 1200 chilometri da Tabriz ad Ankara. Il gasdotto ha una capacità di 14 miliardi di metri cubi/anno, anche se i consumi annui del 2006 si sono attestati a 8 miliardi di metri cubi e finora ha avuto una vita piuttosto tribolata, tra sabotaggi (nell’agosto 2006 è stato danneggiato da un’azione del Partito separatista curdo PKK) e riduzioni di flusso (nel gennaio 2006 l’Iran ha ridotto il flusso di gas da 27 a 12 milioni di mc/giorno adducendo “problemi tecnici” a Tabriz causati dal freddo, costringendo in febbraio la Turchia a incrementare l’acquisto di gas russo via Blue Stream).

La morsa russo-iraniana
L’obiettivo di non restare stretti nella morsa russo-iraniana, è dunque comune all’Europa e alla Turchia ed entrambe guardano soprattutto ai giacimenti turkmeni, kazaki e azeri, che promettono copiose forniture anche in futuro. Attraverso il gasdotto noto come “South Caucasus Pipeline” (SCP) o “Baku-Tbilisi-Erzurum” (BTE), costruito con un investimento di 1,3 miliardi di dolalri da una società guidata da BP e Statoil, la Turchia potrà importare dal giacimento azero di Shah Deniz inizialmente 6,5 miliardi di mc/anno di gas, incrementabili fino a 20 miliardi aggiungendo altre stazioni di pompaggio. Da Erzurum dovrebbe partire anche il gasdotto destinato nel progetto europeo ad aggirare la Russia dal 2011, il “Nabucco”, trasportando in Austria, dopo 3.300 chilometri attraverso la Turchia e i Balcani, il gas dal Caspio, dall’Asia Centrale ed eventualmente dal Medio Oriente, con un investimento di 5,8 miliardi di dollari. La capacità della pipeline dovrebbe inizialmente oscillare tra i 10 e i 13 miliardi di metri cubi/anno, crescendo progressivamente fino a 31 miliardi nel 2020. Tuttavia, come con gli oleodotti, la Russia ha già cominciato a dare battaglia, creando seri problemi di approvvigionamento al Nabucco con gli accordi siglati il 12 maggio scorso con il Turkmenistan e il Kazakistan per il passaggio del loro gas destinato all’Europa attraverso la già esistente rete centro-asiatica che transita in territorio russo.
Parallelamente Mosca, da un lato si è offerta di realizzare un progetto alternativo al Nabucco, duplicando il gasdotto Blue Stream ed estendendo la sua portata fino all’Ungheria, attraverso Bulgaria, Serbia e Croazia, dall’altro si oppone ad una pipeline che attraversi il Caspio, sostenendo che potrebbe tradursi in un potenziale danno per l'ambiente. Il gas kazako e turkmeno non prenderà la via di Ankara anche per la cancellazione, almeno per ora, della costruzione del gasdotto "Trans-caspico”, che avrebbe dovuto trasportarlo in Turchia dopo aver attraversato per circa 1800 chilometri il Turkmenistan, il Mar Caspio, l’Azerbaigian e la Georgia, a seguito della scoperta del campo di Shah Deniz. Alla realizzazione di condotte transcaspiche oltre ai Russi si oppongono gli Iraniani, in un gioco a due sponde che mira alla creazione di un Cartello del gas con il 40% delle riserve mondiali. L’Iran, inoltre, ha bloccato il gas turkmeno diventandone il terzo importatore e ha proposto nel 2006 alla Turchia di collegare la Iran-Turkey Pipeline con il Nabucco, puntando a soddisfare il 30-50% del fabbisogno europeo e a disporre di in un’arma di ricatto politico, che fin qui ha già prodotto la premurosa tutela degli interessi iraniani in Libano di Bruxelles e Pechino e le posizioni deboli verso futuribili sanzioni contro Teheran.
La Turchia, comunque, è destinata a diventare una via del gas per il Sud Europa con il Corridoio “ITGI” per il trasporto dall’area del Caspio verso Italia e Grecia, dopo la firma nel luglio scorso di un accordo a tre. Il Corridoio richiede il potenziamento della rete turca e la realizzazione degli Interconnector tra Turchia e Grecia (Progetto ITG) e tra Grecia e Italia (Progetto IGI). L’ITG, una condotta di 300 chilometri recentemente avviata in esercizio, consente agli ellenici di importare il gas azero che transita per la SCP e ha una capacità iniziale di circa 3,5 miliardi mc/anno che a regime raggiungerà gli 11,5 miliardi. L’IGI, lungo circa 800 chilometri, sarà in esercizio entro il 2012 per 25 anni con una capacità iniziale di trasporto di circa 8 miliardi di metri cubi/anno.
Il Paese della Mezzaluna è guardato con crescente interesse non solo dall’Europa, come via per l’import dal Caspio, e da Russia e Iran, come sbocco verso il Mediterraneo, ma anche dal Nordafrica. Nel Maggio 2006, infatti, i ministri dell’Energia di Turchia, Egitto, Giordania, Libano e Siria hanno discusso sulla possibilità di estendere la “Trans-Arab Pipeline”, per esportare il gas egiziano a Cipro e Turchia ed eventualmente all’Europa Occidentale.

Europei in ordine sparso
Non aspettare il momento opportuno: crealo!, diceva George Bernard Shaw. La regione del Mar Nero e in particolare la Turchia offre all’Unione europea la chiave per la sicurezza energetica affrancata dalla Gazprom, con l’accesso alle vaste risorse energetiche della regione del Caspio. Le amministrazioni americane hanno colto l’opportunità di aprire un corridoio energetico est-ovest svincolato da Mosca sin dalla dissoluzione dell’Urss, favorendo l’indipendenza dei nuovi Stati nell’Asia centrale. Tutto ebbe inizio nel '94 quando il segretario di Stato americano dell’epoca, Madeleine Albright, dopo aver tentato l'impossibile, fece sterzare il presidente azero Heydar Aliyev verso l'indipendenza energetica dall'ex-Urss con un poderoso sostegno economico. L’approccio europeo finora è stato assai meno incisivo. Sono stati avviati programmi di respiro regionale in specifici settori, come l’”Inogate” (INterstate Oil and GAs Transport to Europe) in campo energetico, ma l’Unione europea, diversamente dal Baltico, dai Balcani e dalla partnership euro-mediterranea con il Nordafrica, finora non ha dato corso ad una strategia regionale per il Mar Nero, intrattenendo con i Paesi dell’area solo relazioni bilaterali. In mancanza di una politica comune l’Inogate Program non ha fatto passi avanti e diversi Paesi europei perseguono solo il proprio tornaconto.
La Germania, ad esempio, sta premendo per la costruzione di un oleodotto attraverso il Baltico per il trasporto diretto dalla Russia, anche se questo danneggia gli interessi dell’Ucraina e della Polonia. La Comunicazione della Commissione Europea dell’11 aprile 2007 ha finalmente definito una "Sinergia del Mar Nero" per le future iniziative della Ue, dopo un lungo processo di dialogo con la “Bsec” (Black Sea Economic Cooperation), l’organizzazione regionale che meglio rappresenta i molteplici interessi dei Paesi dell’area.
In quest’ambito la Turchia sta facendo di tutto per affermare il proprio ruolo strategico e il 5 giugno scorso si è proposta come "ponte energetico naturale" tra i detentori di riserve energetiche ai suoi confini orientali e l’Unione europea, nel corso di una conferenza svoltasi a Istanbul con i Commissari Europei per l’Allargamento Olli Rehn e per l’Energia Andris Piebalgs.

I dubbi di Bruxelles
Ma Bruxelles diffida e i negoziati per l’ingresso della Turchia nell’Unione europea, avviati nell’ottobre 2005, si sono arenati. Le cause sono note: la velata ostilità di tanta parte dell’opinione pubblica europea, lo status del Nord di Cipro e soprattutto il mancato rispetto dei diritti umani in alcuni ambiti. Ankara ha in corso con la minoranza curda, che rappresenta il 20 per cento della popolazione, un conflitto che dal 1984 a oggi ha causato 30.000 vittime e non nasconde la propria irritazione di fronte al consolidamento della regione autonoma del Kurdistan in Iraq schierando 149.000 soldati al confine iracheno. Bruxelles, poi, nutre dei dubbi sulla capacità turca di aprirsi ulteriormente agli investimenti e preme per la liberalizzazione del mercato dell’energia. Il governo di Ankara nel 2001, per armonizzare la propria politica energetica con quella dell’Ue e incoraggiare gli investimenti stranieri in infrastrutture energetiche, ha varato nuove leggi per l’avvio della liberalizzazione dei mercati elettrico e del gas. Grazie alla legge sul Mercato Elettrico è stata creata l’Autorità turca per il mercato energetico (Epdk) ed è stata separata la compagnia pubblica elettrica TEAS in distinte società di trading (Tetas), generazione (Euas) e trasmissione (Teias), con l’obiettivo di privatizzare le prime due. Analogamente la legge sul Mercato del Gas Naturale ha stabilito di abolire il monopolio della compagnia pubblica Botas, separandola entro il 2009 in strutture distinte per l’importazione, il trasporto, lo stoccaggio e la distribuzione del gas, al fine di privatizzare le varie attività ad eccezione del trasporto. Il processo in entrambi i settori, però, progredisce con lentezza, un po’ per il tiepido interesse degli investitori e molto per le resistenze politiche. Nel settore del gas la scadenza del 2009 potrebbe essere rinviata, mentre in quello elettrico le autorità turche nel luglio 2004 hanno ritirato una proposta di legge che avrebbe indebolito il programma di liberalizzazione solo dopo le dure critiche espresse dall’Ue e dalla Banca Mondiale. Inoltre la privatizzazione della Euas, che fino al 2001 forniva il 91 per cento dell’elettricità del Paese, è stata solo parziale sebbene ne fosse programmata l’ultimazione entro il 2006. Nel mercato petrolifero il parlamento turco nel dicembre 2003 ha approvato una legge di riforma che mira a rimuovere i vincoli statali e liberalizzare i prezzi. Tuttavia le attività di esplorazione e produzione sono dominate dalla compagnia statale Tpao che fornisce circa il 70 per cento della produzione interna di greggio, mentre la raffinazione è appannaggio all’85 per cento di un’altra compagnia pubblica, la Tupras. Quanto al carbone, le aziende pubbliche TKJ e TTK dovevano essere privatizzate a seguito della ristrutturazione avviata negli anni ’90, ma ancora oggi sono di proprietà statale e dominano il settore. Troppo poco.

Il "nodo" della liberalizzazione
Nello scorso mese di maggio Bruxelles ha comunicato al governo di Ankara di reputare fondamentale la liberalizzazione della distribuzione, rimarcando i ritardi nella ristrutturazione della Botas e l’incompatibilità delle restrizioni alle partecipazioni di capitali stranieri, come nel mercato del gas in cui è posto un limite al 20 per cento, con le norme comunitarie sulle fusioni e acquisizioni. L’Ue sta rischiando di perdere il proprio ascendente su Ankara e il nuovo strumento finanziario Enpi (European Neighborhood and Partnership Instrument), che nel periodo 2007-2013 dovrebbe destinare alla regione del Mar Nero ingenti risorse, può essere d’aiuto. Il Paese di Mezzo, con il cuore in Europa ma prigioniero del Medio Oriente, non ha ancora risolto la sua antica crisi di identità e con tutta probabilità il suo futuro politico sarà un braccio di ferro fra il governo islamico ed un esercito custode della laicità dello Stato. Il più filo-americano tra i Paesi musulmani all’epoca della Guerra Fredda, dopo l’invasione dell’Iraq detesta gli Stati Uniti ancor più dei dispotismi arabi. La scrittrice turca Elif Shafak ha scritto: ”Per un Paese in questo scenario turbolento, non è facile inglobare sia elementi occidentali che orientali e rimanere allo stesso momento musulmano e laico. È come vivere su una imbarcazione grande e rumorosa… Sotto la barca si scontrano due correnti che la sospingono verso una direzione differente. Da una parte c’è la corrente che va verso l’occidentalizzazione, verso la modernità e verso una ulteriore democratizzazione. Dall’altra, c’è la corrente della xenofobia e dell’insularità”. L’epoca in cui il Palazzo del Sultano, il Topkapi, dominava dai Balcani al Nordafrica è ormai lontana nel tempo e certo non rischiamo l’assalto dei giannizzeri, ma una Turchia irritata potrebbe ancora giocare contro l’Europa la partita dell’energia.