Kyoto: tutti d'accordo sull'andare avanti, sul "come" non si sa

I delegati alla Conferenza delle Parti (COP 10) svoltasi a Buenos Aires nello scorso mese di dicembre avrebbero dovuto avere alcuni buoni motivi per sentirsi soddisfatti: dopo sette anni di attesa e quando sembrava ormai prevalere il disfattismo (tutto sbagliato, tutto da rifare di bartaliana memoria) la ratifica del Protocollo di Kyoto da parte della Federazione russa avrebbe consentito a partire dal mese di febbraio la piena operatività del sistema.

E infatti, per molti, è una buona notizia: il Segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan ha commentato: "Questa è una tappa fondamentale della lotta intrapresa dalla comunità mondiale contro questa minaccia globale"; il primo ministro britannico Tony Blair, che nel 2005 ha assunto la presidenza del G8, ha affermato che l'entrata in vigore del Protocollo avrà riflessi certi sulle politiche internazionali in tema di ambiente. Il cambiamento climatico sarà tra i grandi temi da includere prioritariamente nell'Agenda del gruppo dei Paesi industrializzati.
Ma per altri versi è invece anche una cattiva notizia perché viene confermato che solo una parte del mondo è partecipe di questo importante traguardo. Gli Stati Uniti, attualmente il maggior contribuente mondiale alle emissioni di gas serra, e alcuni dei grandi Paesi del terzo mondo (Cina e India in testa) che diverranno in un orizzonte di medio periodo "competitors" degli USA per il primato delle emissioni, sono ancora ai blocchi di partenza e non vi sono evidenze che "Kyoto così com'è" possa rappresentare per essi uno stimolo sufficiente ad aderire.

Come ha osservato Ray Kopp di Resources for the future, Stati Uniti e Paesi in via di sviluppo hanno una visione delle politiche sui cambiamenti climatici abbastanza simile. Essi ritengono che nel disegno strategico finalizzato a combattere l'effetto serra un ruolo centrale debba essere assunto dal costo del controllo dei gas serra e dagli effetti che esso avrà sullo sviluppo economico e sulla competitività globale. In altri termini questi Paesi, pur avendo consapevolezza dei rischi derivanti dal global warming, sono attualmente preoccupati più dello sviluppo economico dei loro Paesi che del riscaldamento del pianeta.

D'altro canto l'impegno della comunità internazionale nella riduzione delle emissioni di gas serra non sembra aver prodotto in questi anni risultati tangibilmente soddisfacenti. Secondo un recente studio del Potsdam Institute for Climate Impact Research saremmo oggi, per effetto dell'inerzia dei governi e del mondo economico, prossimi ad una condizione di "non ritorno". Infatti, anche se fosse fattibile l'azzeramento di tutte le emissioni di gas serra, la quantità di gas finora immessi sarebbe comunque tale da causare più della metà dei possibili effetti del riscaldamento globale. L'evidenza dei fatti mostra che non solo è impossibile azzerare le emissioni, ma risulta arduo perfino arrestarne la crescita. Una conferma di tale difficile situazione è data dal fatto che presumibilmente anche il "più verde" dei firmatari del Protocollo (l'Unione europea) avrà qualche difficoltà a rispettare gli impegni di stabilizzazione delle emissioni. Infatti, secondo le più recenti stime dell'AEA (Agenzia Europea dell'Ambiente), l'Unione europea a 15 potrebbe, se tutte le politiche e misure in atto o programmate venissero attuate, raggiungere entro il 2010 una riduzione del 7,7% rispetto al 1990 (contro il limite dell'8% del Protocollo). Il Protocollo operativo dal 16 febbraio 2005 nasce quindi con due vizi congeniti: da un lato la rappresentanza (solo una parte minoritaria degli Stati emettitori vi partecipa) e dall'altro la credibilità (difficilmente verranno mantenuti i sia pur modesti impegni assunti dagli Stati firmatari in termini di riduzione delle emissioni).

Questa è forse una delle ragioni per cui il dibattito si è (paradossalmente ancor prima che entri in vigore il trattato) spostato su ciò che avverrà nella fase successiva di attuazione del Protocollo e cioè dopo il 2012. È quello che è accaduto in parte nel corso del COP 9 di Milano, ma con maggior evidenza in occasione del recente COP10 di Buenos Aires.
Nonostante i sette anni che ci separano dal 2012 è evidente fin d'ora che non sarà possibile in tale seconda fase non coinvolgere i Paesi in via di sviluppo e in particolare i due colossi Cina e India, che insieme assommano quasi 2,5 miliardi di abitanti (40% della totale popolazione mondiale) e le cui economie crescono a un ritmo superiore all'8% annuo. Il peso dei Paesi del terzo mondo (non solo i due "megastati" citati ma anche altri grandi Paesi emergenti quali Brasile e Indonesia) nel "paniere " delle emissioni climalteranti sarà in ogni caso di assoluto rilievo. In accordo con le stime dell'IEA (International Energy Agency) nel breve - medio periodo due terzi delle nuove emissioni di CO2 si origineranno nei PVS e, se non tenute sotto controllo, le emissioni di questi Paesi rappresenteranno nel 2030 oltre il 50% del totale delle emissioni mondiali. Se a questo si aggiunge il contributo di altri grandi Paesi (quali Stati Uniti e Australia, presumibilmente nel 2012 ancora fuori dal Protocollo) le cui emissioni (pur se stabilizzate) peseranno ancora significativamente sul totale delle emissioni mondiali e si considera che alcuni dei Paesi firmatari potrebbero non essere disponibili ad andare avanti oltre il 2012, si giunge a questa conclusione: se limitiamo la nostra analisi alle sole emissioni, la prosecuzione di Kyoto diviene problematica in assenza di una drastica inversione di rotta.

Per un’analisi più completa mancherebbe tuttavia un tassello e cioè il contributo che potrà derivare su scala globale dall'applicazione dei "meccanismi flessibili" del Protocollo, su cui molti Paesi (soprattutto quelli più sviluppati) ripongono molte speranze. L'AEA ha stimato che per l'Ue a 15 i meccanismi flessibili potrebbero contribuire ad una ulteriore riduzione dell'1,1% consentendo all'Unione di raggiungere nel 2008-2012 una riduzione delle emissioni dell'8,8% e di rispettare quindi gli impegni assunti.

Quali sono le possibilità di avviare un negoziato con i PVS per il "dopo 2012"? Come già detto in precedenza, questi Paesi hanno scale di priorità diverse da quella del mondo industrializzato. L'approccio "Development first" (Sviluppo innanzitutto) è comune a tutti i Paesi (compresi Cina e India) e questo sviluppo non può a loro giudizio non essere prioritariamente indirizzato alla eliminazione della povertà e al miglioramento della qualità di vita delle popolazioni. Ciò pur in presenza di una percezione condivisa che gli effetti del riscaldamento globale avranno impatti più forti proprio sulle economie dei PVS. Come osserva Preety Bandhari, direttore della Divisione analisi politiche del TERI (Tata Energy Research Institute, India), i PVS guardano con sospetto i tentativi di imporre loro limiti stringenti per il contenimento delle emissioni.

È vero, infatti, che vi sarà un accentuato incremento dei trend di crescita delle emissioni, ma le emissioni pro- capite rimarranno anche in futuro molto al di sotto di quelle dei Paesi ricchi i quali, d'altro canto, non hanno finora dimostrato di essere capaci di mantenere gli impegni assunti in sede di firma degli accordi di Kyoto. Agus P. Sari, direttore di Pelangi Indonesia, fa notare che comunque i tempi per un coinvolgimento pieno dei PVS non sembrano ancora maturi: l'opinione pubblica è scarsamente informata e motivata, le Istituzioni non sono preparate a gestire le azioni conseguenti e la capacità di negoziare su tali tematiche a livello internazionale è modesta. La soluzione migliore consisterebbe quindi in un approccio morbido e graduale, lasciando che (almeno in una prima fase) i PSV affrontino i problemi autonomamente mettendo in essere piani e interventi a livello nazionale. I sette anni che ci separano dal 2012 possono essere ritenuti adeguati per una strategia di questo tipo.

D'altro canto un tale approccio sembra trovare consenziente lo stesso UNFCCC (United Nation Framework Convention on Climate Change) quando esso afferma che la partecipazione dei Paesi a un accordo internazionale deve essere "in conformità con le comuni ma differenziate responsabilità, le rispettive capacità e le condizioni sociali ed economiche". L'UNFCCC precisa inoltre che "il grado di adempimento degli impegni assunti dai PVS nell'ambito della Convenzione dipenderà dall'effettivo adempimento dei loro impegni da parte dei Paesi sviluppati in rapporto alle risorse finanziarie ed al trasferimento delle tecnologie" e riafferma comunque che "lo sviluppo economico e sociale rimane la prima e irrinunciabile priorità dei Paesi in via di sviluppo".
In conclusione, sono convinto che la prospettiva più probabile per il "dopo 2012" possa essere un accordo sostanzialmente nuovo che preveda azioni gestite da una comunità internazionale allargata in grado di incidere significativamente sul fenomeno del riscaldamento globale. Sull'indifferibilità dell'andare avanti vi è certamente un consenso diffuso, sul "come" è tutto un altro discorso. Le COP che seguiranno quella di Buenos Aires credo saranno in buona parte dedicate a dibattere tali problemi.