Meglio esportare la democrazia o il libero mercato degli idrocarburi? |
a cura di Drilling È interessante osservare come i recenti passi della nuova amministrazione Bush in campo internazionale possano essere analizzati sia sulla base di macro modelli e visioni strategiche sugli equilibri del mondo, nuovi assetti nel Medio Oriente, democrazia e terrorismo, evoluzione della democrazia nell’ex mondo sovietico e così via, sia in una chiave di lettura un po’ più pragmatica, alla luce dello sviluppo della nuova crisi energetica mondiale.
Le due letture non sono in contraddizione, ma di sicuro la seconda, un po’ più modesta, può essere di grande aiuto alla prima. Non va dimenticato, infatti, che i massimi esponenti dell’amministrazione Bush provengono dall’industria petrolifera e hanno quindi una particolare sensibilità per queste problematiche.
C’è anzitutto da prendere atto che la stabilizzazione del prezzo del petrolio al di sopra dei 50 $/barile costituisce la chiara conferma dell’esistenza di una crisi internazionale dell’energia, forse la più grave che si sia mai avuta negli ultimi decenni.
E comincia anche ad essere chiaro che non si tratta di una crisi da imputare al monopolio dei Paesi produttori che sta ricattando i Paesi consumatori, come avvenne nel 1973, ma di un autogol dei Paesi industrializzati che, sull’onda del neoliberismo e monetarismo, hanno gestito la politica energetica al di fuori di una visione strategica di lungo periodo e in un clima di euforia alimentato dal mercato dei futures. Sono state ignorate le difficoltà del mondo produttivo e, nel gioco virtuale dei mercati di carta, si è immaginato di risolvere i problemi opponendo alla domanda crescente di petrolio una offerta virtuale equivalente. Dai dati sul bilancio petrolifero mondiale si ha una chiara conferma che per tutto il 2004, e sarà lo stesso per il 2005, l’offerta di greggio è stata e sarà superiore alla domanda: di 600 mila barili al giorno nel 2004 e di 400 mila barili al giorno nel 2005. Dovremmo quindi essere di fronte a un trend in discesa dei prezzi del petrolio. I problemi sul tappeto sono ben altri. C’è quello delle esportazioni di greggio e gas dall’area del Caspio e dalle ex repubbliche sovietiche, dove anche le compagnie petrolifere americane sono presenti nella produzione di idrocarburi (Kazakistan, Arzebajan...) e dove la dipendenza dai sistemi di trasporto russi è ancora determinante, in quanto tutte le pipeline attraversano la Russia prima di avere uno sbocco a mare. Questo è il vero punto. L’accettazione delle condizioni di libero mercato da parte dei produttori di energia nel mondo. L’eliminazione dei vincoli politici nella gestione della produzione e dei flussi di esportazione dei prodotti energetici. Nell’agenda russo-americana c’è infine il problema non risolto della validità dei contratti per lo sfruttamento dei campi petroliferi iracheni firmati dal governo Saddam prima della guerra, in quanto la Russia è Stato che vanta la quota più importante e più numerosa di tali contratti. Sulle vicende irachene sono stati scritti fiumi di inchiostro utilizzando i modelli interpretativi più sofisticati, eppure rimane quasi totale il silenzio su un aspetto che si sa esistere ma non si porta, come sarebbe giusto, alla ribalta: il petrolio e la nuova grave crisi energetica del mondo industrializzato. O meglio, si ammette che il petrolio è stato considerato come uno dei componenti preso in considerazione dagli strateghi che hanno deciso la guerra in Irak, ma lo si colloca fra i minori (intorno al decimo posto nella scala di importanza fra i vari fattori), mentre ai primi posti c’è sempre stata, dopo l’eliminazione del pericolo per la sicurezza dei Paesi occidentali, la volontà di esportare la democrazia in quell’area del mondo. Se provassimo per un momento a sostituire l’espressione “esportazione della democrazia” con quella di “creazione del libero mercato” delle risorse energetiche esistenti nella regione, avremmo una chiave di lettura che renderebbe molto più credibile il progetto e forse ne farebbe anche vedere un processo di attuabilità progressiva in tempi non troppo lontani, oltre a fornire una chiave di lettura unificante con la strategia seguita dall’amministrazione Bush verso le repubbliche ex-sovietiche. In fondo si cerca di portare lo scontro per la futura competitività su un terreno che si ritiene favorevole a chi oggi dispone di maggior risorse finanziarie e tecnologiche. In un mercato energetico completamente liberalizzato, la distribuzione delle risorse, in caso di una loro limitata disponibilità, avverrebbe dando la priorità a chi può pagare di più. Così come avviene già oggi in certi Paesi dove il mercato petrolifero è gestito dalle compagnie petrolifere. Ad esempio, la Nigeria - produttrice dei greggi più pregiati per la produzione di benzine - rischia ogni estate di restarne senza perché i suoi greggi vengono esportati verso i mercati che pagano i prezzi più alti. Situazione che non sarebbe immaginabile in Iran o nelle ex repubbliche sovietiche, dove la priorità politica continua ad essere il rifornimento del mercato interno. In un mondo in cui le condizioni di libero mercato si espandessero in modo generalizzato, verrebbero a cessare gli attuali vincoli che impediscono la normalizzazione del prezzo dei prodotti petroliferi (si pensi alla struttura di raffinazione dell’ex Urss messa a disposizione dei mercati occidentali) e permetterebbe ai Paesi a moneta forte e che dispongono di alta capacità tecnologica di spostare i rapporti di scambio a loro favore. Il barile a 50 $ non è quindi soltanto un maggior onere nella lista della spesa delle nostre famiglie, ma un indicatore di imprevedibili e drammatici sviluppi della politica internazionale.
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