Metta: “Per fare ricerca di qualità bisogna saper guardare lontano”

Metta: “Per fare ricerca di qualità
bisogna saper guardare lontano”

di Paola Sesti

IL NOSTRO PAESE È IN GRADO DI FARE RICERCA DI QUALITÀ? LA SCIENZA PUÒ CONTARE SU SOSTEGNO CONTINUO E COERENTE, INVESTIMENTI ADEGUATI IN INFRASTRUTTURE E CAPITALE UMANO? LO ABBIAMO CHIESTO A GIORGIO METTA, DIRETTORE SCIENTIFICO DELL’IIT

Quali sono i criteri che un sistema di ricerca dovrebbe soddisfare per funzionare bene? Quale la ricetta perfetta, il metodo migliore, il più efficace ed efficiente? Il Consiglio europeo ha tentato di darne una definizione nella Raccomandazione del maggio 2020 sul programma di stabilità italiano. Un sistema di ricerca ben funzionante – si legge al punto 23 – è “il risultato di un sostegno continuo e coerente, attuato mediante politiche e accompagnato da investimenti e capitale umano adeguato”. A questi ingredienti aggiunge la necessità di rafforzare lo scambio tra ricercatori e la cooperazione tra scienza e industria per portare sul mercato i risultati.
La ricerca italiana può contare oggi su questi principi cardine – sostegno continuo e coerente, attuato attraverso politiche, investimenti e capitale umano adeguati? Lo abbiamo chiesto a Giorgio Metta, direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT). Una vita passata a fare ricerca nel campo della robotica umanoide e biologicamente motivata (detto in altre parole, nello sviluppo di robot di aspetto simile agli esseri umani in grado di adattarsi e imparare dall’esperienza), Giorgio Metta ha coordinato per oltre un decennio lo sviluppo di iCub – tanto da esserne simpaticamente definito il papà – rendendolo di fatto la piattaforma di riferimento per la ricerca sull’IA incarnata. Insomma, uno che di ricerca se ne intende.
“Mi trovo molto bene nella definizione del Consiglio europeo. Il sostegno continuo è componente fondamentale, e deve anche essere abbastanza prolungato e coerente: occorre cioè individuare, con criterio e ragionevolezza, le materie di ricerca. Una volta identificato l’oggetto di studio, la continuità è essenziale, perché ogni serio programma non si conclude in pochi anni ma necessita di periodo più lungo. Bisogna saper guardare lontano quando si fa un pensiero sui sistemi di ricerca”.

Gli investimenti in infrastrutture e in capitale umano sono le altre due componenti.
Sì, ed è essenziale investire in due direzioni. Avere laboratori all’avanguardia è necessario anche per attirare ricercatori e per averne di validi servono risorse adeguate. Va da sé che senza i ricercatori bravi non si ottiene una qualità elevata, risultato che credo sia l’aspirazione di chiunque investe in ricerca.

Se ci confrontiamo con il panorama europeo, cosa dicono di noi i numeri?
Dicono fatti noti. Che l’investimento italiano in ricerca è un po’ basso, e non solo rispetto al Pil. Questo chiaramente crea una estrema e ulteriore fatica per chi fa scienza, perché non riceve un supporto adeguato.
Il che si traduce poi in un minor numero di ricercatori rispetto alla dimensione della popolazione e quindi un impatto minore della ricerca sul Sistema Paese. Peraltro, guardando la produttività dei ricercatori italiani pro capite, questa è molto elevata, a dimostrazione che abbiamo dei fondamentali buoni.
Se adeguatamente supportata, la ricerca potrebbe dare una grossa mano sia al funzionamento complessivo del Paese, sia alla competitività del nostro sistema produttivo e dei servizi. Tutto questo per dire che non siamo i primi della classe in termini di risorse allocate, che potremmo essere molto bravi in termini di risultati e che, chiaramente, paghiamo lo scotto di questo investimento più basso in ricerca.

I drammatici tassi italiani di abbandono scolastico e la percentuale di laureati in materie scientifiche e tecnologiche inferiore alla media europea, possono essere causa della attuale carenza di ricercatori?
In parte sì. Un po’ perché in passato abbiamo avuto la cosiddetta fuga dei cervelli, un periodo – tra gli anni ‘80 e ‘90 – in cui un numero rilevante dei nostri laureati si è spostato all’estero e ciò ha causato una frattura faticosamente colmabile. Ancora oggi nel settore della ricerca – un mondo dove è richiesta una specializzazione elevatissima – ci sono materie di studio per le quali non riusciamo a ingaggiare personale preparato. C’è una difficoltà ulteriore data dal momento presente di grande spinta verso temi come l’intelligenza artificiale o la genetica: la richiesta da parte del mercato è tale da rendere quasi impossibile costituire team in grado di affrontare queste materie. È un problema importante; lo è stato in passato e continua a esserlo per quegli ambiti che richiedono un elevatissimo grado di specializzazione. Ma non è solo un problema della ricerca; anche l’industria fa fatica.

Come indurre i giovani ad appassionarsi alle materie STEM (science, technology, engineering and mathematics)?
È una sfida importante e non credo ci sia una risposta pronta o una soluzione preconfezionata. È chiaro, però, che qualcosa bisogna fare.
L’IIT in questo senso è una goccia nel mare. Facciamo tutto quello che possiamo in termini di dissemination per attirare più pubblico possibile e sperabilmente appassionare dei giovani a seguire queste strade. Non abbiamo programmi di formazione in senso stretto, perché il nostro lavoro inizia quando ormai – per così dire – è tardi, cioè quando i ragazzi si iscrivono a un corso di dottorato e si trovano a un punto già molto avanzato del proprio percorso.
C’è un problema sistemico da affrontare e risolvere in maniera sistematica.
E qui l’università può fare la parte del leone. Bisognerebbe intervenire subito dopo il diploma – o subito prima, meglio ancora – per spingere nella direzione delle scienze e della tecnologia, perché sono materie sempre più critiche nello sviluppo di un Paese.

Alcuni sostengono sia necessaria una educazione scientifica più pervasiva, partendo addirittura dalla scuola primaria.
È una questione di cultura generale: i ragazzi si appassionano se hanno occasione di vedere. Bisogna creare le occasioni e presentarne tante; poi ognuno seguirà la propria strada. Però se i giovani non vedono, è difficile che si appassionino. Più sono grandi, più diventa arduo. Per questo è fondamentale iniziare molto presto, se vogliamo avere numeri importanti e formare più persone possibile nelle materie STEM.

Come valorizzare un investimento che non torna in un rapporto di uno a uno, ma va inserito in una logica di sistema?
L’investimento in ricerca non è facile da misurare e proprio per questo motivo non è semplice riconoscergli un valore. In un Paese è la creazione di know-how globale che porta poi l’innovazione nelle aziende, attraverso l’inserimento di persone più competenti e meglio formate. È un loop virtuoso che porta risultati nel tempo. Porto un esempio per spiegare come sia complicato fare questo genere di misurazioni tra risorse destinate a un ambito di ricerca ed esiti ottenuti. Se domani decido di investire in intelligenza artificiale, non vedrò un risultato che è identico all’intelligenza artificiale. Potranno sì nascere delle startup che si occupano nello specifico di IA, ma ciò che è più importante è che nel tempo tutte le aziende diventeranno più digitali e in dieci anni si assisterà a un miglioramento complessivo della digitalizzazione del Paese.
È difficile correlare l’investimento in ricerca con il risultato, però il risultato c’è. Tant’è che le realtà nazionali che più hanno investito in ricerca hanno ottenuto nel tempo un risultato di competitività generale del Paese e, in ultima analisi, sono quelle che performano meglio anche dal punto di vista economico.

Che cosa significa oggi fare ricerca in IIT?
Siamo articolati in quattro Domini di Ricerca, ognuno dei quali è sviluppato da Principal Invistigator (PI) che operano in completa autonomia e indipendenza, anche in termini di visione. Nella realtà, ogni ricercatore porta avanti la visione dell’Istituto. In qualità di direttore scientifico, cerco di favorire il fatto che la scoperta avvenga – insieme ai brevetti e al trasferimento delle tecnologie al mercato: in una parola, il mio compito è fare in modo che i nostri ricercatori si trovino in un ambiente il più possibile funzionante affinché non debbano fare altro che ricerca. Ma molta della visione e delle idee provengono da loro e dalla loro passione. Magari nata proprio quando erano alle scuole elementari.
E lungo questa continua strada di apprendimento, tutti siamo continuamente valutati.

Quella che descrive è davvero una carriera affascinante, che richiama un termine (e un concetto) oggi assai fuori moda: sacrificio.
Assolutamente sì. Quella del ricercatore è una carriera – bisognerebbe ogni tanto raccontarla – fatta di sacrificio, passione e pazienza. Sapere aspettare è cruciale, perché si arriva a dirigere la propria linea di ricerca dopo un bel lasso di tempo. Bisogna iniziare giovani, perché il percorso è lungo ed è necessario capire subito la direzione in cui si vuole andare. Ma si fa ricerca da subito, con posizioni adeguate alla propria età. Credo che la vita sia anche questo: per ottenere soddisfazioni incredibili ci vuole una passione incredibile. Chiaramente anche una fatica, e tanta, perché quello della ricerca è un lavoro che si costruisce nel tempo. Però le gratificazioni sono eccezionali.

Siete continuamente valutati, ma a vostra volta rivalutate i vostri obiettivi di ricerca.
C’è un’evoluzione continua perché il mondo va avanti. Nuove scoperte avvengono e siamo incessantemente richiamati ad aggiornarci.
In IIT, più o meno ogni tre anni riguardiamo il nostro Piano strategico e cerchiamo di capire se sono opportune delle modifiche. Nell’ultima versione del Piano 2018-2023, ad esempio, si è introdotto in maniera quasi prepotente l’uso delle tecniche computazionali all’interno delle varie discipline scientifiche. Il tema era già presente, ma abbiamo voluto mettere un accento ulteriore perché è diventato ormai preponderante: senza capacità di calcolo, senza intelligenza artificiale, senza apprendimento automatico si fa nulla, in qualunque disciplina. Abbiamo di fatto reso palese questo aspetto.
Il Piano strategico si compone di due elementi ed è frutto di un delicato processo che bilancia la curiosità scientifica dei nostri ricercatori con gli stimoli provenienti dall’esterno. Il compito del direttore scientifico sta nel capire come (e dove) sta andando la ricerca scientifica e fare una sintesi delle richieste che arrivano bottom-up. Il tutto viene poi valutato dal comitato scientifico – per verificare che il direttore scientifico non abbia preso un abbaglio! – che formula delle raccomandazioni di indirizzo. È un processo molto sereno e anche molto bello. Dal 2021 abbiamo anche iniziato a organizzare dei meeting interni: una settimana di confronto tra ricercatori, tutti insieme, per parlare di come sta andando la scienza nel mondo.

Come si concilia la curiosità del singolo ricercatore con i sentieri di ricerca globali?
Deciso lo spartito, il mio è un po’ il ruolo del direttore d’orchestra. I nostri ricercatori sono tutti primi violini, superstar dello strumento: farli suonare tutti insieme è un esercizio sia scientifico sia di costruzione di sinergie e rapporti umani.

I risultati della vostra ricerca sono patrimonio pubblico, a beneficio dell’intera società. Come si concilia il trasferimento tecnologico con la tutela della proprietà intellettuale e il ritorno economico?
Noi siamo no profit. Il trasferimento di conoscenza e di tecnologia verso il mondo della produzione e dell’impresa – cercando di migliorare la qualità e portando innovazione a beneficio del Sistema Paese – è parte della nostra missione ed è parte della missione dello Stato. Il soggetto pubblico ha fatto un investimento per cercare di avere un impatto sulla società.
Però no profit non vuol dire svendersi. Cerchiamo nei limiti del possibile di recuperare in parte l’investimento fatto. Quindi, in alcuni casi, tuteliamo la proprietà intellettuale perché serve per arrivare alle aziende, per consentire loro di prendere in licenza brevetti su cui investire per immaginare di fare un profitto. Con un contraccambio in royalties, che servono per lo sviluppo di ulteriore ricerca. Ci sono anche licenze aperte – le cosiddette Open Source, come per esempio Linux – che chiunque può usare.
Anche qui: chiunque le può usare non vuol dire che poi non si possano far fruttare. È possibile costruire prodotti e servizi destinati al mercato a partire da licenze aperte. È l’esempio di iCub, la piattaforma Open Source che ha portato a sviluppare progetti industriali e a trasferimento di tecnologia verso soluzioni di tipo diverso.

L’Italia è in grado di fare ricerca di qualità? Lei ha proposto la creazione di una Volta Society: ce la può illustrare?
Dopo anni di lavoro in questo ambito ho cominciato a intuire quali sono gli elementi essenziali affinché un modello di ricerca abbia successo. L’idea che mi sono fatto (ma non sono il solo) è che ciò che nel nostro Paese è stato realizzato con l’Istituto Italiano di Tecnologia può rappresentare un modello da copiare. La mia proposta – un invito al decisore politico, se vogliamo – è quello di pensare a IIT come a una risorsa e replicarla tante volte, costruendo una società di istituti come IIT, un network con identico modello su aree tematiche diverse. Riprodurre il modo in cui impostiamo i percorsi dei ricercatori, il modo in cui ci siamo focalizzati su alcuni temi – non facciamo tutto, proprio per poter avere la massa critica rilevante su alcune attività e avere successo su queste. E come abbiamo investito in una infrastruttura di laboratorio importante.
In altri Paesi questo già esiste; il Fraunhofer, per esempio, è una Società di Istituti focalizzati, ognuno dei quali sviluppa un proprio tema di ricerca. Secondo me è un modello che potrebbe portare la nostra ricerca a fare un deciso salto di qualità. La cosa essenziale è pensare a investimenti mirati: si decidono i temi rilevanti e si punta su quelli.

Come si stabilisce l’importanza dei temi?
Il decisore deve avere coraggio. Fare delle scelte è indispensabile per non spezzettare le risorse. Per quanto riguarda i settori a cui destinare investimenti importanti – per avere massa critica e risultati importanti – qualche idea ce l’ho: intelligenza artificiale, automazione, robotica, AgriFood, Cultural Heritage, medicina di precisione, scienze della vita.

Va da sé che quello che non è stato nominato rimarrebbe fuori...
Preferisco partire da un positivo, ossia da quello che vogliamo fare. Questo non vuol dire che il resto non lo studiamo. Potrebbe restare sottotono per un po’, ma di fronte a un momento di cambio della scienza e di scoperte nuove non escludo che si possa cambiare anche direzione. Certo è che bisogna farlo lentamente. Non si può tutti i giorni cercare una nuova materia: è decisivo mantenere la rotta per un tempo sufficiente affinché la ricerca ripaghi l’investimento fatto.

Quanta energia serve per fare ricerca?
Dipende dalle attività. Ce ne sono di dispendiose – il grande freddo, il grande microscopio, il supercalcolatore – che richiedono un impiego energetico importante. Ma non è certo la ricerca che ha l’impatto maggiore sui consumi. Più utile è capire quanto costa la computazione al mondo intero, vale a dire una fetta importante della spesa energetica globale. Poiché il fabbisogno di computazione cresce ogni giorno di più, sarà indispensabile pensare come usare bene l’energia, oltre che a produrla meglio.

Nell’ambito della vostra ricerca avete prodotto nuovi modi per produrre energia o per recuperarla?
Sia per strategia, sia perché con le nostre risorse non riusciamo ad avere un impatto significativo, abbiamo scelto di dare il nostro contributo molto specifico e molto verticale sul tema energia. Abbiamo una serie di attività per lo sviluppo di materiali per le batterie, per la catalisi per la produzione di idrogeno e per il recupero della CO2. Sviluppiamo alcuni processi chimici e, in alcuni casi e in collaborazione con le aziende, cerchiamo di portarli sul mercato.
Sulle batterie, ad esempio, ci concentriamo sui catodi ma non abbiamo un sistema di produzione o di realizzazione della batteria intera. O ancora,
il nostro centro di Torino lavora sui temi del recupero della cattura della CO2 dall’atmosfera e della sua valorizzazione attraverso processi green, contribuendo alla conservazione di energia in varie forme: tipicamente idrogeno, ma non solo quello. Anche nel settore del fotovoltaico, l’aspetto interessante per noi è la chimica e il contributo che l’Istituto dà in questo senso riguarda come sviluppare nuovi materiali. Non siamo noi ad arrivare sul mercato con il prodotto su larga scala.

Nel 2015 il suo predecessore raccontava a Nuova Energia di un piano scientifico basato su un approccio “bioispirato umanocentrico”.
È ancora così?

Il tema della bioispirazione – l’evoluzione della natura come modello a cui ispirarsi – rimane perché è un paradigma da cui arrivano continuamente nuove idee. La natura ci sorprende sempre con soluzioni intelligenti (in realtà non c’è intelligenza, è l’evoluzione che ha portato a questi esiti), altamente ottimizzate e funzionali; se così non fosse, la specie che le ha sviluppate non sarebbe sopravvissuta. Partiamo sempre da un’osservazione della natura da cui cogliamo l’ispirazione di partenza per poi arrivare a una sintesi ingegneristica e a delle soluzioni tecnologiche.

La robotica, l’automazione e l’intelligenza artificiale lasciano comunque ancora l’uomo al centro? La tecnologia a servizio della vita e per migliorarne la qualità?
Assolutamente sì. Non mi stancherò mai di ripeterlo, perché in generale esiste una paura intrinseca nei confronti della tecnologia – si tratti di robotica o di genetica – credo motivata dall’ignoranza di quelle che sono le sue reali possibilità. Da questo punto di vista la comunicazione riveste un ruolo molto importante. Mi sento di rassicurare tutti: è più facile costruire un’idea distopica del futuro che realizzarla. La tecnologia è descritta come onnipotente; nella realtà non abbiamo quel genere di tecnologia.
Si parla ad esempio di intelligenza artificiale come se potesse sostituirci domani: non è così. Anzi, in alcuni casi servirebbe un po’ più di intelligenza artificiale, ma non c’è; non abbiamo gli algoritmi, non abbiamo la comprensione di come realizzarla.

Lui respira nell’aria cosmica, è un miracolo di elettronica ma un cuore umano ha... La citazione può racchiudere l’essenza dell’Istituto Italiano di Tecnologia: ricerca, innovazione, alta tecnologia... con una grandissima dose di umanità.
Il fattore umano è e resta essenziale, perché fare ricerca in IIT ci porta a toccare temi affascinanti che sono parte della nostra umanità: come funzionano il nostro cervello e la nostra biologia. Oltre a sviluppare robot umanoidi, cerchiamo di capire come siamo fatti noi. La ricerca sull’essere umano può essere fatta solo da esseri umani. E ci insegna a essere umani.

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