Riflettendo tra opa e fusioni

di G.B. Zorzoli

Là dove aveva clamorosamente fallito il “grande manager” Tatò ed era solo riuscito a raddrizzare la rotta il disinvolto cosmopolita Scaroni, il meno mediaticamente esposto Conti ha fatto centro. Con l’operazione Endesa, ma non solo. E la Borsa ne prende atto (Figura 1).
Quella di Endesa non sarà un’acquisizione a buon mercato, anche immaginando tutti i possibili incrementi di redditività derivanti dalle sinergie fra Enel e Endesa, come conferma la Tabella 1. Fra settembre 2005 (OPA di Gas Natural) e autunno 2007 (OPA di Acciona-Enel), con l’aumento del prezzo offerto per azione è proporzionalmente cresciuta anche la valutazione complessiva di Endesa ed è di conseguenza diminuito il ROE, calcolato sulla base dell’utile 2006 del Gruppo spagnolo.
D’altra parte si tratta del prezzo da pagare dovendo trasformare oggi Enel in un player su scala mondiale dopo essersi lasciati sfilare sotto il naso le più convenienti opportunità che si offrivano nella seconda metà degli Anni ‘90, quando Tatò giudicò più trendy correre dietro a diversificazioni “avanzate”, come l’ingresso nelle telecomunicazioni. Un prezzo, faute de mieux, accettabile, visti gli evidenti vantaggi dell’operazione per Enel.
Nel settore elettrico Endesa dispone infatti di una potenza totale di circa 42.000 MW, di cui grossomodo 22.750 in Spagna e 19.300 in altri Paesi, principalmente in America Latina. Per non parlare delle estese reti di distribuzione di elettricità e gas possedute sia in Spagna sia in America Latina. Endesa porterà così all’Enel, insieme ai suoi 13 milioni di clienti, attività in Cile, Argentina, Brasile, Colombia, Perù, Guatemala, El Salvador, Panama, Nicaragua e Marocco. Se si considera che, tranne per impianti a fonti rinnovabili, nella produzione elettrica Enel è totalmente assente dall’America Latina, appare evidente la piena complementarietà fra l’azienda italiana e la spagnola.
Pur tenendo conto della cessioni imposte, come quelle della spagnola Viesgo, della partecipazione Endesa nella francese Snet (65 per cento)e in Endesa Italia, quando l’operazione sarà conclusa ci troveremo davanti ad un colosso energetico con una potenza totale di 90.000 MW, una capitalizzazione di 90 miliardi di euro, la presenza in ventidue Paesi di quattro Continenti e 55 milioni di clienti. Dati che lo pongono fra i primi tre europei, insieme a E.On ed EDF.
Oltre tutto il nuovo Gruppo sarà caratterizzato da una notevole diversificazione produttiva, con più carbone rispetto all’attuale mix di Enel e anche più nucleare: cospicuo, infatti, l’apporto da parte Endesa di impianti nucleari che, sommati a quelli della slovacca SE già controllata da Enel, totalizzerebbero ben 6.400 MW. Un valore destinato a crescere con gli ulteriori 880 MW che Enel sta per realizzare in Slovacchia, con il 12 per cento di partecipazione in sei impianti nucleari francesi (corrispondenti a circa 2.300 MW), senza tenere conto delle nuove, possibili presenze in Romania e Russia, dove ha concluso un accordo di collaborazione con Rosatom, l’ente russo che progetta e realizza centrali nucleari, ed è in gara (con E.On, Gazprom, Novatek, Rusal e Kes) per l’acquisizione Ogk-5, la Genco elettrica russa di cui sarà messa all’asta una quota del 25 per cento il 6 giugno 2007 (Ogk-5 dispone di numerose centrali nucleari situate nelle regioni che si stanno sviluppando velocemente, inclusi gli Urali, e produce il 4 per cento del fabbisogno elettrico della Russia).
Questo, senza dimenticare che è da poco entrato in esercizio il secondo impianto da 450 MW della centrale termoelettrica a ciclo combinato di San Pietroburgo, gestita da Enel, nonché l’acquisizione insieme ad Eni di asset di Yukos (anche se da condividere con Gazprom) che dispongono di riserve di idrocarburi pari a 5 miliardi di barili equivalenti di petrolio.
Quanto sta avvenendo smentisce pertanto le tesi di chi da anni sostiene che la cessione di 15.000 MW imposta ad Enel dal Decreto Bersani avrebbe indebolito la società rispetto alle sue analoghe europee. Semmai è vero l’opposto. La contrazione del mercato interno (dove l’offerta Enel è scesa sotto il 40 per cento della produzione) ha rappresentato un formidabile stimolo all’espansione su altri mercati.
Smentisce altresì la tesi,che si continua a caldeggiare a difesa della proprietà da parte di Eni di Snam Rete Gas, sull’essenzialità di conservare il controllo della rete di trasmissione. La cessione di Terna ha viceversa consentito a Enel di concentrare la propria capacità di investimenti su obiettivi più funzionali e sinergici.
Questi indubbi successi di Enel offrono però lo spunto per altre considerazioni, meno positive delle precedenti. Innanzitutto la vicenda Enel-Endesa conferma la caratteristica costante di pressoché tutte la grandi operazioni energetiche che avvengono nell’Europa continentale: l’intervento attivo dei governi interessati in vicende che non competono loro. Come conferma in negativo l’intenzione di entrare in Suez espressa un anno fa da Enel, nel Vecchio Continente è tuttora difficile pensare alla realizzazione di operazioni di significativa importanza senza l’intervento o le mediazioni della politica. Può non piacere (personalmente non ne sono entusiasta) ma in particolare per le infrastrutture – si chiamino impianti elettrici, autostrade o telecomunicazioni – queste rimangono le regole del gioco (confermate anche dal caso Telecom).
Con qualche giustificazione oggettiva. Fino a quando l’Unione europea non riuscirà ad acquisire l’autorevolezza politica che può derivare soltanto da un potere decisionale meno limitato di quello odierno, è difficile immaginare un minore interventismo dei governi a difesa di interessi che, a torto o a ragione, vengono considerati strategici per l’avvenire del proprio Paese.
Seconda considerazione non molto positiva, i successi di Enel (o Eni) non possono farci dimenticare che si tratta di Gruppi il cui socio di riferimento è ancora lo Stato italiano, sia direttamente sia tramite la Cassa Depositi e Prestiti. Situazione per altro non limitata a questi due casi. Da quando nei sistemi a rete si sono avviati in Italia processi di liberalizzazione e di privatizzazione, gli asset non finiti in mano a capitale straniero sono quasi sempre diventati di proprietà di imprese dove è determinante la presenza di azionisti pubblici (e/o delle banche).
Là dove il capitale pubblico si è ritirato o conserva quote ininfluenti, com’è nel caso delle telecomunicazioni, dopo che in Telecom sarà entrata la spagnola Telefonica di italiano nel settore non resterà praticamente più nulla. Mentre per l’acqua, il gas e l’elettricità, salvo rare eccezioni, la presenza di imprese nazionali è oggi garantita da Eni, Enel o da aziende dei servizi locali, tutte realtà dove l’azionista di riferimento è pubblico.
A questo punto possiamo discutere all’infinito se la debolezza del grande capitale italiano è conseguenza del troppo lungo (e persistente) ruolo ricoperto da quello pubblico o se, viceversa, il secondo è dovuto intervenire per rimediare alle carenze del primo. Ciò non toglie che a un Paese ammirato all’estero per la vitalità del suo sistema di piccole e medie imprese, con casi di eccellenza per i quali si è addirittura coniata la definizione di “multinazionali tascabili”, manchi un adeguato tessuto di grandi imprese private, le uniche in grado di operare da protagoniste in un mercato come quello elettrico.
Stando così le cose, è allora lecito chiedersi se nel prossimo futuro un ruolo simile a quello attuale di Enel sarà svolto anche dalle maggiori fra le aziende dei servizi pubblici locali. Mentre scrivo queste righe, la vicenda della fusione fra Aem e Asm non si è ancora conclusa.
Pur consapevole delle difficoltà che fin dall’inizio si sono frapposte alla riuscita dell’operazione (come non mancai a suo tempo di rilevare sul numero 5-2006 di Nuova Energia, mentre sulla stampa erano prevalenti previsioni acriticamente positive), mi rallegrerei in caso di successo o di una non troppo controversa conclusione, in quanto esiti comunque negativi potrebbero ritardare il necessario processo di consolidamento del sistema delle ex-municipalizzate attive nel settore energetico, per altro auspicato e previsto già qualche anno fa dalla loro stessa associazione di categoria.
Aggregazioni senza le quali la potenza di fuoco in campo elettrico (vedi Tabella 2), spesso integrata con quella nel settore del gas (vedi Tabella 3), rischierebbe prima o poi di trasformare tali aziende esclusivamente in prede ambite da terzi.
Tuttavia i processi di aggregazione già avvenuti, quelli in itinere e gli altri di cui un giorno sì e uno no si favoleggia, sembrano per ora configurare un allargamento in buona sostanza a macchia d’olio. Così è stato per Hera e per Enìa in Emilia-Romagna, per le aggregazioni del nord-est e per quelle toscane nel settore del gas; tutto sommato anche il Gruppo ligure-piemontese Iride rientra nella medesima categoria. Né diversa è la natura della trattativa in corso fra Aem e Asm. In ultima analisi si tratta di processi che dilatano le dimensioni dell’impresa risultante rispetto a quelle delle aziende che si aggregano, ma non intaccano la natura territoriale che storicamente fa parte del loro Dna.
Le radici territoriali non hanno impedito alle aziende dei servizi pubblici locali di prendere iniziative all’estero, ma si è quasi sempre trattato di azioni marginali, più che altro nei settori dell’acqua e del gas. Per quanto concerne il settore elettrico, l’unico progetto di respiro strategico è stato finora il tentativo dell’Aem Milano di acquisire una quota rilevante del capitale della svizzera Atel; tentativo, come è noto, finito male. È quindi legittimo il dubbio sulla compatibilità fra culture aziendali storicamente legate al proprio territorio e politiche volte a realizzare significative acquisizioni sui mercati esteri. Anche se l’esempio di Rwe, nata da un insieme di realtà municipali, fa ben sperare in senso contrario.