Né euforia né scoraggiamento per il futuro delle rinnovabili

Né euforia né scoraggiamento
per il futuro delle rinnovabili

di GIUSEPPE GATTIVisita il profilo LinkedIn


Tra i postumi della prima (e speriamo ultima) ondata del Covid-19 spiccano nel mondo dell’energia due posizioni, speculari e contrapposte, che stanno alimentando a loro volta narrazioni e suggestioni diverse.

Da un lato, si enfatizza il ruolo assunto dalle rinnovabili nella copertura della domanda durante i mesi della pandemia, con il 51 per cento della produzione nazionale netta nel trimestre aprile-giugno, coprendo il 49,2 per cento del fabbisogno di energia elettrica, valori che nel mese di maggio sono arrivati al 54 per cento per la produzione e al 51,2 per cento dei consumi. Sulla base di questi dati si è celebrata l’avanzata travolgente della transizione energetica con la prospettiva di una sua anticipata conclusione.

Sul versante opposto si è assistito con sgomento alla caduta delle quotazioni delle
commodity energetiche, con il carbone che da gennaio a maggio scendeva da 86 a 53 dollari/tonnellata, il Brent da 64 a 29 dollari/barile e il gas sul PSV da 13,28 a 6,70 euro/MWh. Resurrezione delle rinnovabili, in questa lettura, e tramonto delle fossili, messe fuori gioco per alcuni anni dall’inesorabile squilibrio tra una domanda in crisi e una offerta abbondante, che manterrà necessariamente bassi i prezzi di carbone, oil e gas. Due posizioni alquanto frettolose nelle assunzioni e ancor più nelle conclusioni.

Partiamo da un’analisi completa dei dati disponibili. Nel secondo trimestre del 2020 la produzione da rinnovabili è salita sul 2019 del 6,6 per cento grazie a un’abbondante idraulicità, buona ventosità ed entrata in esercizio di nuovi impianti fotovoltaici. Quindi certamente vi è stata una crescita delle FER, ma non di carattere eccezionale ed è da sottolineare che l’idroelettrico (le rinnovabili dei nostri nonni), con il 44 per cento della produzione verde, continua ad essere la prima delle fonti alternative. Il maggiore spazio acquisito dalle rinnovabili non è insomma dovuto a una loro esplosione, ma alla caduta della domanda che in aprile-giugno è passata dai 77 TWh del 2019 a 66,5 TWh, con una contrazione del 13,6 per cento.

Avendo precedenza nel dispacciamento, le rinnovabili non hanno sofferto di questo calo dei consumi e hanno spiazzato in primo luogo le importazioni - quasi dimezzate - e poi il termoelettrico, il quale per altro si è in parte rifatto riuscendo ad aumentare le esportazioni di 1,8 TWh (con il ragguardevole aumento del 133 per cento sul 2019).
Del tutto evidente la precarietà di questa composizione dell’offerta, che risulta dalla combinazione di fattori eccezionali e non può rappresentare una sorta di anticipazione della transizione energetica.

Quanto alla posizione opposta, dobbiamo ricordare anzitutto che la contrazione dei prezzi delle
commodity energetiche si inscrive in una dinamica iniziata ben prima dell’esplodere della pandemia e indipendente dai suoi effetti sulla domanda. Di questo ci siamo rapidamente dimenticati, ma è necessario invece tenerlo ben presente. Pochi dati al riguardo: tra gli inizi di luglio del 2018 e i primi di febbraio 2020 (prima dunque di ogni misura di contrasto al virus) il Brent era sceso del 30 per cento, il gas del 58 per cento, il carbone a sua volta del 52 per cento e in Italia il PUN, cioè il prezzo dell’energia elettrica all’ingrosso, era calato del 41 per cento.
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