Energia, ambiente e pace: intreccio drammatico e obbligato

a cura di Drilling

Durante un pubblico dibattito sul dopo Chernobyl, ricordo uno scambio di battute con uno dei più noti leader politici del fronte antinucleare che sosteneva come l’energia nucleare non avesse nessuna reale giustificazione economica, vista la illimitata disponibilità di petrolio e sopratutto di gas naturale, ancora sfruttato solo marginalmente. Mi ero allora permesso di rilevare che - a parte le considerazioni sull’effetto serra - la sicurezza degli approvvigionamenti degli idrocarburi, di petrolio ma ancora più di gas naturale, era intrinsecamente legata al problema della pace del mondo. Una rete di oleodotti e di gasdotti che attraversa Paesi e continenti, garantisce il trasporto continuo dei flussi di olio e gas solo in un mondo in equilibrio stabile. E di conseguenza,il prezzo di queste materie prime è garantito entro limiti accettabili e controllabili solo a queste condizioni.
A venti anni di distanza, purtroppo, quella considerazione si è rivelata sostanzialmente corretta. Non solo il prezzo di olio e gas si è mantenuto costante soltanto fino alla fine degli Anni ‘90, ma anche la certezza dei flussi di approvvigionamento non è più assoluta.

"LE SCELTE DI BUSH E DEI SUOI CONSIGLIERI SONO PARTITE DALL'ASSUNZIONE
DI UNO STATO DI CRISI EVIDENTE
DELLA SICUREZZA ENERGETICA DEGLI USA
E QUINDI DI UNA POTENZIALE FRAGILITÁ
ECONOMICA E STRATEGICA"

Le scelte di politica estera ed economica dell’amministrazione Bush hanno sconvolto gli equilibri mondiali in un modo imprevisto, e con conseguenze ormai irreversibili sulle politiche energetiche di tutti i Paesi del mondo. Il problema trascende quindi qualunque polemica politica di basso livello.
Le scelte di Bush e dei suoi consiglieri sono partite dalla assunzioni di uno stato di crisi evidente della sicurezza energetica degli Stati Uniti e quindi di una potenziale fragilità economica e strategica nel medio-lungo termine. Credo sia opportuno esaminare un po' in dettaglio questi elementi di criticità, per analizzare da un punto di vista tecnico quali meccanismi geopolitici e di mercato siano stati messi in moto dalle decisioni dell’attuale amministrazione americana.

La produzione americana è scesa negli ultimi venti anni di quasi cinque milioni di barili al giorno. Un valore enorme, equivalente per dimensione quasi alla somma dell’attuale produzione di Iran e Iraq. In prospettiva il dato sembra essere ancora più allarmante se letto congiuntamente a quello relativo all’evoluzione delle riserve accertate di petrolio.
Dal grafico 1 si può chiaramente vedere che il calo delle riserve accertate ha fatto registrare un crollo ancora maggiore. Il che vuol dire che lo sfruttamento dei giacimenti esistenti è avvenuto a ritmi superiori a quanto avrebbe dovuto farsi per consentire il reintegro delle riserve. Ha prevalso la logica del monetarismo di breve periodo e del dividendo da parte delle compagnie petrolifere.
Il tutto appare in grande contrasto con quello che è stato e continua ad essere il trend dei consumi petroliferi del Paese. È come se la logica dei numeri e il loro impatto sull’economia e sui risvolti internazionali fossero stati ignorati o rimossi dalla leadership della nazione.


Il grafico 2 mostra in modo chiarissimo come, a partire dagli Anni ‘90, le importazioni di petrolio dall’estero abbiano superato nettamente il livello del petrolio prodotto nel Paese, ad un ritmo travolgente: oggi le importazioni rappresentano il doppio della produzione interna di petrolio. I consumi hanno superato i 20 milioni di barili al giorno, ovvero quattro volte la produzione nazionale. Si è quindi aperto per gli Stati Uniti un problema serio di dipendenza energetica dall’estero, con ricadute strategiche di notevole portata.
È in corso un chiaro processo di ridimensionamento dei flussi di importazione dall’Arabia Saudita e dal Venezuela, i fornitori storici che possiedono, fra l’altro, asset importanti nel sistema di raffinazione e distribuzione americano, per sostituirli con flussi da Canada e dall’Africa occidentale (Nigeria e Angola in testa). Questi cambiamenti non sono di natura puramente commerciale, sono la conseguenza dei mutati rapporti politici che stanno avvenendo nelle diverse aree del mondo, in modo particolare Golfo Persico, Sud America e Africa occidentale.
Nel Golfo Persico è stato fin troppo evidente il tentativo americano di compensare con una presenza in Iraq, l’indebolirsi del legame storico con l’Arabia Saudita. Il petrolio iracheno avrebbe dovuto aggiungersi a quello saudita per rendere meno critico l’approvvigionamento del Paese.
È cronaca di tutti i giorni lo sviluppo dei rapporti fra il Governo di Chavez in Venezuela e quello americano, anche se ancora non si è giunti alle conseguenze estreme del processo. Paradossalmente, il governo venezuelano ha mostrato i muscoli con le compagnie europee, cui ha nazionalizzato i gacimenti, ma non ha finora fatto lo stesso con quelle americane, che continuano ad operare anche se sotto la minaccia di subire lo stesso trattamento.
Forse, il fatto che un esproprio di beni americani in Venezuela potrebbe essere compensato da un equivalente esproprio di beni venezuelani nel territorio statunitense (raffinerie e asset di distribuzione), che potrebbe essere deciso da un giudice a favore delle compagnie americane, ha portato Chavez a urlare molto contro gli Usa, ma a colpire solo gli europei.
L’Africa occidentale sta divenendo sempre più il terreno di un confronto a tre, Europa, Stati Uniti e Cina. I cinesi stanno investendo massicciamente nella costruzione delle infrastrutture dei Paesi produttori di petrolio, ovviamente finanziando interamente le opere e chiedendo in cambio contratti di fornitura di petrolio a medio - lungo termine. Molte delle crisi regionali nel continente africano sono generate da questi confitti di interesse fra le potenze economiche mondiali.
Gli aumenti delle importazioni dal Canada e dalla Nigeria non sono per gli Stati Uniti una novità rassicurante. Il Canada rimane un risorsa fragile (sulla base delle riserve finora accertate, le prospettive di produzione non sono di lunghissimo periodo) e dai costi elevatissimi, mentre l’Africa occidentale è diventata terreno di scontro sempre più duro con la potenza emergente dell’Estremo Oriente.

"ESISTE POI UNA GRANDE CRITICITÁ
NEL CONTESTO PETROLIFERO USA:
LA CAPACITÁ DEL SUO SISTEMA
DI RAFFINAZIONE, PERFINO DIMINUITA
RISPETTO AI VALORI DEGLI ANNI '80"


Esiste altresì un’altra grande criticità nel contesto petrolifero americano, la capacità del suo sistema di raffinazione.
I volumi di greggio raffinato al giorno hanno raggiunto il livello di 15 milioni di barili, mentre la capacità di raffinazione complessiva è persino diminuita rispetto ai valori degli Anni‘80.
I dati più significativi sono comunque due:

  • il sistema di raffinazione non è in grado di raffinare il 100 per cento del greggio necessario al Paese. A fronte di una domanda al di sopra di 21 milioni di barili/giorno, può raffinare soltanto 15 milioni di barili. 6 milioni di barili di prodotti finiti devono essere importati dall’Europa e dalle aree di mercato più vicine (Messico,Venezuela, Centro America);
  • il sistema industriale viaggia ai limiti della compatibilità operativa, senza quella flessibilità che viene garantita dalla presenza di una capacità eccedente (spare capacity) di almeno un 8-10 per cento rispetto a quella nominale. Il susseguirsi di incidenti gravi nelle maggiori raffinerie americane è la conferma di questa situazione di criticità.

Questo stato delle cose sta provocando delle conseguenze impreviste, ma che non vanno nella direzione di una normalizzazione. Dall’inizio del 2000, quando il fenomeno della mancanza di capacità di raffinazione per produrre sufficienti quantità di benzine pulite si è manifestato, il problema si è sempre più amplificato, continuando a spingere i prezzi da 20/30 dollari a barile al livello di 70/80 dollari a barile. In particolare si stanno verificando:

  • maggiori profitti per le compagnie, che però non sono interessate a investire per risolvere i problemi. Le limitazioni di capacità nelle infrastrutture di raffinazione sono fattori di amplificazione del profitto (prezzi più alti implicano maggiori profitti) e quindi non saranno certo le compagnie ad investire per eliminare i colli di bottiglia del sistema produttivo, riducendo il loro profitto.
    Solo un intervento esterno, di natura legislativa, fiscale o normativa, può determinare una diversa politica degli operatori del settore;
  • tensioni e scontri internazionali per il controllo del petrolio, con un ruolo crescente di Russia e Cina. I prezzi alti del petrolio, conseguenza delle limitazioni strutturali dell’industria, stanno esasperando la corsa al controllo delle risorse esistenti e di quelle disponibili nei prossimi decenni. Il petrolio non è più visto come una semplice commodity, ma come l’arma strategica per lo sviluppo delle economie dei vari Paesi;
  • crescenti guerre locali in Africa fra vecchi controllori (potenze ex-coloniali) e nuovi candidati al controllo (Usa, Cina).

Complessivamente uno scenario di minori certezze e di insicurezza per la pace nel mondo. Sbaglia chi pensa che l’Iraq possa stabilizzarsi solo trovando un accordo fra le fazioni locali. In gioco sono equilibri ben più giganteschi per il controllo del petrolio e dell’energia nei prossimi due decenni. Non dimentichiamo mai che, prima dell’invasione anglo-americana, la ricerca e lo sviluppo della produzione della gran parte del petrolio iracheno era stata affidata con contratti regolarissimi alle compagnie petrolifere europee, russe e cinesi. Che fine hanno fatto questi contratti?
Sono ancora validi,come vorrebbe il diritto internazionale, o sono diventati carta straccia, come avrebbe voluto l’amministrazione Bush subito dopo la “vittoria” sul campo?
Purtroppo di questo non si parla mai nei rapporti della stampa internazionale sulla questione irachena. Eppure, non credo occorra molta fantasia per pensare che qui sta il nocciolo delicato della partita.
L’ultima mossa di Bush di non mollare rappresenta l’estremo tentativo di non chiudere il bilancio dell’avventura irachena senza aver portato almeno il controllo dell’industria petrolifera in mani americane.
Una soluzione vera non può che passare attraverso il compromesso con tutti gli attori storici dell’industria petrolifera mondiale. Le compagnie americane possono stare in Iraq, ma probabilmente in joint venture con quelle europee, russe e cinesi.
Al di fuori di questa soluzione bisogna immaginare scenari di guerra e di instabilità crescenti.
Abbiamo visto negli ultimi mesi una situazione meteorologica straordinaria, con temperature elevate mai registrate da quando esiste uno strumento per misurarle. In una situazione del genere,con il tracollo dei consumi stagionali per il riscaldamento, il prezzo del petrolio è rimasto intorno a 50/60 dollari a barile.
Molti analisti hanno posto l’accento sulla discesa dai 70 dollari dell’estate passata, ritenendo che ci si trovi di fronte ad un nuovo trend dei prezzi del petrolio.
In realtà, si tratta solo di un momentaneo raffreddamento dei prezzi, che tornerà ad invertirsi rapidamente con l’inizio della stagione delle benzine.
Senza i problemi strutturali dell’industria petrolifera (impossibilità di produrre i prodotti finiti della qualità richiesta), con l’eccesso di materia prima sul mercato internazionale, il prezzo del petrolio dovrebbe già essere crollato a 10/15 dollari a barile. Il livello di 50/60 dollari indica il permanere di tensioni strutturali e geopolitiche, che continueranno nei prossimi anni.

"NON SI PUO GARANTIRE
LA PACE E LA CONSERVAZIONE DELL'AMBIENTE SENZA UN SALTO
TECNOLOGICO E UNA VISIONE
INTEGRATA DEL PROBLEMA"


L’intreccio fra pace,questione ambientale e sviluppo tecnologico è divenuto un passaggio obbligato e drammatico dei nostri tempi. Non si potrà garantire la pace o la conservazione dell’ambiente senza un salto tecnologico e una visione integrata dei problemi.Per contro,la logica di parte che ha caratterizzato le politiche economiche/energetiche/ambientali degli ultimi anni non è in grado di assicurare stabilità e pace.