Un miliardo andato in fumo
di Federico Santi

È andata. Il 18 dicembre 2006 è stato infine presentato dal Governo alla Commissione europea, in ossequio alla Direttiva 2003/87/CE, il Piano Nazionale di Assegnazione dei permessi gratuiti di emissione di CO2 per il periodo di Kyoto (2008-2012).
Si fa sul serio. Il primo triennio dell’Emission Trading Europeo (EET, come lo chiamano i siglomani) termina nel 2007 e, diciamocelo, è servito più che altro a mettere a punto il meccanismo, certamente molto complesso. Dal 2008 al 2012 l’obiettivo di riduzione delle emissioni diventa molto più stringente. I settori coinvolti (industria energetica ed energivora) dovranno lavorare non poco per raggiungere gli ambiziosi target fissati. Grande sforzo sarà richiesto in particolare al settore termoelettrico, anche per la relativa concentrazione delle sorgenti di emissione in pochi grandi impianti (si pensi, viceversa, a quanto è polverizzato l’universo dei trasporti o quello delle abitazioni). Occupiamocene.

Intanto, quanto ad obiettivi di emissioni climalteranti per unità di energia, sono ben note le profonde asimmetrie tra l’Europa e il resto del mondo e tra l’Italia e il resto d’Europa.
L’Italia è tra i più ambiziosi Paesi al mondo e l’ambizione, si sa, costa. Kyoto, lo ricordiamo, per l’Italia intera prescrive una riduzione del 6,5% delle emissioni climalteranti rispetto al livello registrato nel 1990. Il PNA assegna permessi di emissione gratuiti agli impianti termoelettrici per poco più di 100 milioni di tonnellate di CO2 l’anno, nell’orizzonte del 2010; tuttavia, le emissioni fisiche del settore sfioreranno i 150 milioni di tonnellate, per cui il deficit arriverà quasi a 50 milioni di tonnellate l’anno: una riduzione di un terzo (!). Nell’ipotesi di un prezzo della tonnellata di CO2 intorno a 20 euro, come dicono gli esperti, il conto della serva è presto fatto: 50 per 20 uguale un miliardo di euro all’anno, tondo tondo, che se ne va dall’Italia verso l’Europa per comprare il “diritto al fumo”. “Fumare” ci costerà un miliardo di euro l’anno.

Qualche maniaco dei numeri dirà che il conto è approssimativo, che in realtà il deficit è un po’ più basso e che nel 2010 andranno in fumo 750 milioni, non un miliardo. Va bè, rispondo, se non sarà il 2010, sarà il 2012: fatto sta che al termine del periodo di Kyoto, per far andare il nostro fumante parco termoelettrico, dovremo sborsare circa un miliardo di euro l’anno, milione più, milione meno.
Intendiamoci: dovendo ridurre, l’Emission Trading è il metodo più economico possibile. Si adotta l’Emission Trading per risparmiare, altrimenti saremmo costretti a ridurre le emissioni fisicamente, non già virtualmente, e ciò costerebbe ben più di 20 euro/t di CO2, almeno nel settore termoelettrico.
Il miliardo che manderemo in fumo potrà giovare a noi italiani se sarà di stimolo a muovere per primi verso la “low carbon economy” incipiente, ammesso che ci crediamo (a questo punto, ci mancherebbe altro!) e a cogliere le migliori opportunità.
Tuttavia, l’ambizione italiana all’efficienza energetica cozza violentemente con l’attuale inefficienza del mercato energetico, elettrico in particolare: la liberalizzazione è iniziata poco più di un lustro fa, la Borsa elettrica ha avuto l’avvio un paio di anni or sono e la clientela domestica non ha ancora accesso al mercato. Insomma, il mercato è giovane e difettoso: la concorrenza è pressoché inesistente; l’incumbent regna incontrastato, anzi, col beneplacito degli altri operatori, che mangiano a tre ganasce (una meno dell’incumbent), basta guardare i bilanci societari; la domanda ha un ruolo minoritario, assolutamente ininfluente; il meccanismo di formazione del prezzo (System Marginal Price) è tutto a favore dei produttori e a danno dei consumatori; le politiche ambientali sono sostenute interamente dai consumatori e le compagnie, anzi, lucrano anche su di esse, e non penso solo alle famigerate “fonti assimilate” del CIP6, ma anche ai Certificati Verdi, che registrano prezzi esagerati. Come sostiene l’ottimo professor Bollino, peggio del monopolio pubblico c’è il monopolio privato. Anche quando è mascherato da oligopolio, aggiungerei.

"IN QUESTO MERCATINO DELLE PULCI
CHE È IL NOSTRO IPEX, ARRIVERÁ
L'EMISSION TRADING
COL SUO MILIARDO DI EURO
DA MANDARE IN FUMO"


In questo mercatino delle pulci che è il nostro IPEX, arriverà l’Emission Trading col suo miliardo da mandare in fumo. Possiamo aspettarci che l’esborso venga dalla gonfie tasche dei soggetti chiamati a ridurre le proprie emissioni? Assolutamente no. Questo vorrebbe la logica, ma nulla è più illogico di un mercato senza concorrenza e a domanda praticamente anelastica. Gli extra-costi saranno brutalmente ribaltati su chi compra l’elettricità. Qualcuno direbbe: giusto, chi consuma paga. Non mi convince. Secondo me il ragionamento corretto è: chi inquina paga, poi si dividono equamente i costi tra chi produce (inquinando) e chi consuma. Chiacchiere da salotto. Il meglio che potrà succedere è che il fumato miliardo sarà spalmato sulla produzione termoelettrica, che nel 2010 si aggirerà sui 270 TWh. Il che vorrebbe dire un aumento di prezzo dell’elettricità di circa 3,7 euro/MWh, corrispondente a qualche punto percentuale. Se ho detto “il meglio che potrà succedere”, è perché c’è di peggio, molto peggio. Tolgo ogni suspance e anticipo: l’aumento di prezzo dell’elettricità, sempre rispetto ad uno scenario di riferimento senza limiti alle emissioni, potrebbe arrivare a circa 15 euro/MWh, un 30% in più del minimo teorico nell’anno orizzonte. Wow! Perché? Lo spiego subito.

Col System Marginal Price, il prezzo dell’elettricità nelle diverse ore dell’anno ha un valore minimo dato dal costo marginale di produzione (sostanzialmente l’acquisto di combustibile) dei più costosi impianti in servizio, detti per l’appunto impianti “marginali”. Nel 2010, per l’85% delle ore dell’anno saranno “marginali” i cicli combinati a gas naturale (CCGT), che ad un prezzo del petrolio a 60 dollari/b, ovvero col gas naturale a 7,2 euro/GJ, avranno un costo marginale di circa 50 euro/MWh. Vale a dire che nel 2010, in questo scenario di quotazioni del greggio, il prezzo dell’elettricità sarà per l’85% dell’anno pari (auspicabilmente) o superiore (se continuerà l’assenza di concorrenza) a 50 euro/MWh. Ciò posto, l’arrivo dell’Emission Trading porterà i cosiddetti bidders, gli operatori del mercato elettrico che presentano le offerte di vendita, a caricare sulle loro offerte anche il prezzo di acquisto dei permessi di emissione. Ad esempio, se un ciclo combinato a gas naturale emette 0,39 tCO2/MWh e riceve permessi di emissione gratuiti per 0,34 tCO2/MWh, deve comprare diritti di emissione per 0,05 tCO2/MWh e pagare, a 20 euro/tCO2, circa 1 euro/MWh (0,05 per 20 uguale 1). Come minimo, tale ciclo combinato aumenta dunque la propria offerta di 1 euro/MWh.

Magari fosse! A quel punto, l’aumento di prezzo sarebbe addirittura limitato a 1 euro/MWh e l’elettricità costerebbe, per l’85% dell’anno, 51 euro/MWh anziché 50. Per converso, un impianto a carbone, che ad un prezzo del combustibile di 70 dollari/t avrebbe un costo marginale intorno a 22 euro/MWh, vedrebbe aumentare questo costo di una quota molto maggiore: supponendo che emetta fisicamente 0,95 tCO2/MWh e riceva permessi di emissione gratuiti per 0,75 tCO2/MWh, dovrebbe acquistare 0,30 tCO2/MWh sul mercato dell’Emission Trading, pagando 6 euro/MWh. Il suo costo marginale salirebbe da 22 a 28 euro/MWh, ma resterebbe sempre ben al di sotto del costo marginale dei CCGT a gas naturale. L’Emission Trading avrebbe così il solo effetto di ridurre un po’ gli utili generati dagli impianti a carbone, internalizzandovi i costi delle emissioni.
Troppo bello per essere vero. Infatti, per prima cosa gli operatori tenderanno a trasferire sui cicli combinati a gas parte dei costi gravanti sui propri impianti a carbone, in modo da alzare il prezzo dell’elettricità e conservare gli utili. Per cui, l’aumento relativo ai cicli combinati non sarà solo di 1 euro/MWh, ma di almeno 3 o 4 euro/MWh, come già detto sopra a proposito dei costi medi di sistema (un miliardo di euro diviso 270 TWh). Ma il peggio ha un altro nome: “costo-opportunità”. Capire è facile. Ogni impianto ha ricevuto dal PNA un certo quantitativo gratuito di permessi di emissione.

Questi permessi hanno un potenziale valore economico, ad esempio di 20 euro/tCO2, per cui un impianto potrebbe decidere di non produrre elettricità e vendere i relativi permessi di emissione sul mercato dell’Emission Trading. Cosa fa decidere i produttori se tener fermi gli impianti e vendere le quote di emissione o consumare le quote gratuite di emissione e vendere elettricità? Ovviamente, il profitto: gli operatori faranno ciò che risulterà loro più conveniente. Ma, e questo è il punto, anche qualora i bidders decidessero di produrre elettricità consumando quote, non è escluso che considerino tali quote come un “costo-opportunità” e includano nella loro offerta economica anche il valore di tali quote.
Ad esempio, il CCGT di prima potrebbe offrire ad un prezzo dato dalla somma del costo marginale di produzione vero e proprio (50 euro/MWh) più il valore economico dell’intero ammontare delle quote di emissione (non solo di quelle che deve comprare, ma anche di quelle che deve consumare per produrre e che quindi non può vendere: 0,39 tCO2/MWh anziché 0,05 tCO2/MWh). Allora l’offerta di tale impianto sarebbe non già di 51 euro/MWh, bensì di 58 euro/MWh (20 euro/t per 0,039 t/MWh). L’aumento del costo marginale sarebbe non più di 1 euro/MWh, né di 3 o 4 euro/MWh, bensì addirittura di 8 euro/MWh, ossia il 16% sopra il minimo.

Tanti numeri, ma il concetto è chiaro: se il mercato lo permetterà, i bidders tenderanno a recuperare non solo i costi effettivamente sostenuti per l’acquisto di permessi di emissione, ma anche i costi-opportunità derivanti dalla mancata vendita delle quote gratuite. E se il prezzo dei permessi di emissione dovesse salire a 40 euro/tCO2, allora, col meccanismo anzidetto, l’impatto sul prezzo dell’elettricità salirebbe a oltre 15 euro/MWh.
Impossibile? Niente affatto: la sanzione per mancato rispetto delle quote assegnate varrà, nel periodo 2008-2012, addirittura 100 euro/tCO2, dunque ben al di sopra del livello suddetto. Ma c’è di più. Il PNA, stranamente, assume che nel 2010 saranno usciti di scena tutti i vecchi impianti a olio/gas e pertanto non assegna ad essi alcun permesso gratuito di emissione.
Ma oggi, a 4 anni di distanza, tali impianti sono vivi e vegeti, faccio gli esempi di Montalto di Castro (3.600 MW), Rossano Calabro, Porto Tolle, San Filippo del Mela. Funzionano perfettamente e inoltre, per una buona metà dell’anno, con quello che costano fanno il prezzo. E che prezzo! Farli uscire di scena in tempi brevi è molto difficile, sia perché ci sono vincoli di rete, sia perché sono impianti di grandi dimensioni e ammodernarli costa non poco, sia perché per ammodernarli serve il consenso delle comunità locali, oltre che le autorizzazioni delle autorità preposte. E poi, mi chiedo, siamo sicuri che gli operatori elettrici vogliano farli uscire di scena? Non è, invece, che tanto faranno da tenerli in vita il più possibile per gonfiare i prezzi? Nonostante queste considerazioni, il PNA non attribuisce alcun permesso gratuito a queste unità produttive ad olio combustibile. E allora esse saranno costrette a comprare permessi di emissione per l’intero quantitativo rilasciato in atmosfera, che nel caso di olio BTZ si aggira su 0,7 tCO2/MWh; moltiplicato per 20 euro/t, significa 14 euro/MWh, mentre per 40 euro/t equivale a… (mi rifiuto di scriverlo).

"LA COLPA NON È DELL'EMISSION
TRADING, È NOSTRA:
NON SAPPIAMO INTRAPRENDERE AZIONI REGOLATORIE
CHE RENDANO IL MERCATO
DEGNO DI QUESTO NOME"

Eccoci qua, siamo tornati a circa 15 euro/MWh: di riffa (costo opportunità) o di raffa (olio combustibile) l’impressione è che l’Emission Trading ci costerà circa 15 euro/MWh, altro che gli 1,6 euro/MWh pagati l’anno scorso. Ma la colpa non è dell’Emission Trading: è nostra. Non sappiamo intraprendere azioni regolatorie che rendano il mercato degno di questo nome e consentano di accogliere l’Emission Trading con le cautele dovute. Per inciso, se il prezzo dell’elettricità salirà di 15 euro/MWh (ovvero aumenterà del 30% rispetto allo scenario di riferimento) a beneficiarne saranno anche gli impianti CIP6, a fonti rinnovabili e assimilate, e quelli a Certificati Verdi: si parla, con tecnicismo da manuale, di windfall profit per le fonti rinnovabili. Così Emission Trading e CIP6/Certificati Verdi si andranno a sovrapporre, a tutte spese del solito consumatore. La soluzione? C’è. Consta di due azioni congiunte di regolazione del mercato, mirate ad impedire la remunerazione del costo-opportunità.
La prima è una modifica del PNA 2008-2012 che imponga un “benchmark unico” indistinto per tecnologia e combustibile, col quale distribuire i diritti di emissione gratuiti tra gli impianti. Tale benchmark è dato, anno dopo anno, dal semplice rapporto tra l’obiettivo di emissione (ad esempio 100 MtCO2) e la produzione termoelettrica (ad esempio 270 TWh: si ha un benchmark di 0,37 tCO2/MWh, guarda caso nell’ordine del fattore di emissione dei CCGT a gas naturale). Così facendo, si riduce la pressione sui CCGT, gli impianti che faranno il prezzo, i quali saranno scoraggiati dal gonfiare le offerte col costo-opportunità per il rischio di non riuscire a vendere tutta la produzione.
Si introduce anche un principio di equità: chi inquina paga. Infatti, l’incumbent si oppone con tutte le sue forze all’adozione del benchmark unico, perché penalizzerebbe il carbone, fulcro della sua strategia industriale e gallina dalle uova d’oro. A tal proposito, è bene sottolineare che il differenziale di prezzo tra gas e carbone è e sarà tale per cui il benchmark unico non può incidere minimamente sulle decisioni di investimento in nuovi impianti a carbone. Caro incumbent, non preoccuparti: continuerai a fare utili al carbonio a prescindere dall’Emission Trading.

E poi col benchmark unico si spinge il sistema a comportamenti virtuosi, che consentono di ottenere la riduzione fisica delle emissioni per diversi milioni di tonnellate di CO2 all’anno (da 3 a 7, a seconda delle ipotesi di scenario) nonché un risparmietto di sistema di una cinquantina di milioni di euro/anno. Il benchmark unico darebbe infine una indicazione molto chiara e precisa per la valutazione degli investimenti in nuovi impianti, in assenza della quale il periodo post-Kyoto appare molto incerto e con esso ogni possibile strategia energetica di lungo periodo. L’altra fondamentale azione regolatoria da adottare favorisce invece lo sviluppo della concorrenza e soprattutto evita che il perverso meccanismo di formazione del prezzo dell’elettricità (quel mare di miele in cui sguazzano i produttori a spese dei consumatori) amplifichi i rischi economici dell’Emission Trading per la competitività del Paese. Bisogna passare dal System Marginal Price (ti pago al prezzo dell’offerta più costosa accettata dal mercato) al Pay-as-Bid (ti pago esattamente quanto mi hai offerto, se la tua offerta è accettata dal mercato). È ora di diventare grandi. Serviva un importante ciclo di investimenti e il System Marginal Price applicato in un mercato senza concorrenza lo ha stimolato attraverso incredibili margini di profitto per gli operatori. Ora gli investimenti in centrali produttive sono stati fatti, il ciclo di boom volge al termine ed è questo il momento per fare sul serio, non solo con le ambizioni ambientali, ma anche con le ambizioni di serietà del mercato.

Si deve dare un secondo colpo d’ascia al mercato elettrico, ultimando (cum grano salis, per carità) le privatizzazioni, non solo dei “campioni nazionali” (mah…) ma anche delle utility; locali, nonché passando da quella trappola per il topo-consumatore che è il System Marginal Price al meccanismo di formazione del prezzo nei mercati adulti del Pay-as-Bid. Non è da escludere che un domani, quando il mercato elettrico italiano avrà scapolato la fase adolescenziale, si possa nuovamente riconsiderare un System Marginal Price o affini: il meccanismo in sé non è malvagio in un mercato razionale, concorrenziale, avanzato. Ma siamo ancora lontani ed è l’ora del Pay-as-Bid. Dunque ecco come due riforme (benchmarking unico e Pay-as-Bid) semplici ma importantissime, possono contenere entro limiti ragionevoli il tributo economico dell’Italia elettrica alla causa dei cambiamenti climatici.

"ED ECCO COME L'EMISSION TRADING
PUÒ COSTITUIRE L'OPPORTUNITÁ
DI RAZIONALIZZARE L'INTERO SETTORE ELETTRICO ITALIANO,
RENDENDOLO SOSTENIBILE
ANCHE PER L'AMBIENTE ECONOMICO"

Ed ecco come l’Emission Trading può costituire l’opportunità di razionalizzare l’intero settore elettrico italiano, rendendolo sostenibile non solo per l’ambiente naturale globale, ma anche per l’ambiente economico nazionale. Tuttavia, vedo nero. Nerissimo. Nerofumo. I campioni nazionali (gli italiani, ma anche gli stranieri operanti in Italia) e le grandi utility “locali” rappresentano poteri fortissimi. Si opporranno strenuamente ad entrambi i tentativi di riforma, ammesso che i Governi abbiano la forza e la voglia di proporli, a tutela dell’interesse generale. I monopolisti ibridi (pubblico/privati) e i loro nemici/amici sono animali famelici. E purtroppo, in questo caso, dove c’è fumo c’è anche arrosto. Avevo voglia di intitolare questo primo Energumeno dell’anno “Fumata nera per il PNA 2008-2012”, dato che dallo scappamento ministeriale è venuto fuori un provvedimento un poco fuligginoso. Poi mi sono rattristato, osservando il fumoso futuro dei consumatori mentre gli operatori del mercato elettrico gioiosi se ne vanno canticchiando sui tetti: “Cam caminin, cam caminin, spazzacamin, allegro e felice pensieri non ho…” (Robert B. Sherman, “Chim Chim Cheere”, soundtrack del film Mary Poppins, Walt Disney, 1964).