Con l’arroganza e la stupidità non si salva la Terra
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di Chicco Testa | Presidente Assoelettrica



Di questi tempi, anzi, diciamo pure da qualche anno a questa parte, commentare positivamente quanto sostenuto da un esponente politico tedesco non è cosa comune. Abbiamo, chi più chi meno, preso tutti l’abitudine di prendere quel che si dice a Berlino con le pinze del focolaio: roba che scotta, dubbia, che potrebbe nascondere secondi e terzi fini. Insomma: ci vogliono fregare; anzi: i tedeschi ci hanno già fregato. Non entro nel merito della questione, densa di tecnicismi, come il meccanismo del loro export enorme e sottocosto, finanziato con capitali tedeschi che di fatto rientrano sotto forma di spread.
Mi limito a fare una sola considerazione: certo i tedeschi hanno il vizio di tentare (e spessissimo di riuscire) a far pagare i costi delle loro politiche a tutti i paesi dell’Unione, a prescindere dalle politiche che ciascuno di essi ha legittimamente deciso di mettere in campo; certo i tedeschi sanno difendere molto bene gli interessi della loro economia e della loro industria (vedasi la questione dei limiti alle emissioni delle autovetture: loro che costruiscono transatlantici contro noi e francesi che facciamo quasi solo utilitarie).


Atteggiamento criticabile, certamente e quanto si vuole. Ma è mai possibile che noi non si sappia fare altrettanto? Che si debba aspettare il tedeschissimo Günther Oettinger, commissario europeo all’Energia, per sentir dire che fissare al 40 per cento la riduzione delle emissioni medie di CO2 europee al 2030 è una sciocchezza? Mentre noi, italianissimi e affaccendati ormai solo nelle alchimie elettorali ed istituzionali, invece di pensare all’occupazione e alla rinascita di una nostra industria, non soltanto non diciamo nulla, non una protesta, nemmeno un lamento, ma addirittura peroriamo la causa di un inasprimento dei limiti e chiediamo a gran voce (attraverso il ministro dell’Ambiente Andrea Orlando) che sia fissato anche un target per la crescita ulteriore delle rinnovabili.


C’è un che di follia, in tutto questo. Ci si lamenta, a giusto titolo, che la piccola e la media industria italiana, vero cuore pulsante dell’economia nazionale, nella quale lavorano tre quarti di quei fortunati che nel nostro Paese un lavoro ancora ce l’hanno, rischia di perdere competitività perché il costo dell’energia è per queste imprese troppo elevato. E lo è eccome: vuoi per il mix di generazione squilibrato sul gas, il cui costo, attraverso contratti di fornitura di lungo periodo, è ben più alto di quello della lignite e del carbone usato dai tedeschi e del nucleare dei francesi; vuoi per i cosiddetti oneri di sistema, nell’ambito dei quali gli incentivi alle rinnovabili, e soprattutto al fotovoltaico, hanno un peso considerevole (un quarto del totale delle bollette).
Questo stabilito, la soluzione migliore quale mai sarà? Ma certamente quella di fissare un nuovo target per le rinnovabili, che si tradurrà in una nuova crescita delle rinnovabili elettriche (sui trasporti e sul condizionamento poco o nulla è stato fatto in Italia come nel resto d’Europa), ciò che comporterà nuove forme di incentivazione, che genereranno nuovi costi che qualcuno vorrebbe magari infilare di nuovo nelle bollette. Lo sviluppo delle rinnovabili è sacrosanto, ma dentro le regole del mercato. Allora una cosa facile e semplice, lineare e chiarissima, va detta subito: qualsiasi nuovo intervento di incentivazione delle rinnovabili non deve in nessun caso e in nessun modo incidere mai più sul costo finale dell’energia elettrica.


Ma come si fa, dice qualche sapientone, a raggiungere il target di riduzione delle emissioni di CO2 al 2030 senza un ulteriore sviluppo delle rinnovabili? La risposta è semplicissima: ad essere sbagliato è proprio l’obiettivo del 40 per cento di riduzione della CO2. Non stiamo parlando delle polveri fini che asfissiano le città, stiamo parlando di un fenomeno che si determina su scala planetaria. Come forse sfugge a qualcuno, la concentrazione della CO2 in atmosfera non è in alcun modo correlata al luogo in cui viene emessa.
Ora, considerato che l’Unione europea è oggi responsabile del 10,6 per cento delle emissioni globali di gas climalteranti e che questa quota si ridurrà al 4,5 per cento entro il 2030, ci si deve spiegare perché l’Europa debba dannarsi l’anima, chiudendo fabbriche e imbottendo di oneri le bollette dei cittadini e delle imprese, per ottenere il favoloso risultato di concorrere ad una riduzione assolutamente insignificante delle concentrazioni di CO2. Questo problema può essere affrontato soltanto su scala globale. Ecco che Günther Oettinger ha perfettamente ragione: “Pensare che con questo 4,5 per cento delle emissioni globali si possa salvare il mondo - ha detto il commissario Ue - non è realistico, ma è soltanto arrogante e stupido”.