Katrina, l'ultima guerra del golfo

a cura di Drilling

Eravamo abituati a vedere i prezzi del petrolio schizzare in alto in occasione di conflitti armati nell’area del Golfo Persico o di eventi politici che potevano mettere in pericolo i rifornimenti di petrolio dalla più importante area di produzione mondiale. Ricordiamo l’embargo del 1974, l’inizio della guerra Iran-Iraq, l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, la guerra contro l’Iraq per liberare il Kuwait, e l’ultima guerra anglo-americana contro l’Iraq.

Eventi in altre aree geografiche (West Africa, Russia, Sud America), anche se drammatici, sono sempre stati considerati fatti regionali di breve durata. Il loro impatto sui prezzi del petrolio è sempre stato limitato nella dimensione e nel tempo.
L’uragano di New Orleans, invece, sembra causare gli stessi effetti delle grandi crisi petrolifere del 1974 e del 1979.

Si è trattato di una gravissima crisi locale che ha avuto un enorme impatto sul mercato americano. Ha toccato infatti il sistema di produzione off-shore del Golfo del Messico e i rifornimenti del Mid Continent, che partono, via pipelines, dai terminali del Golfo. Ha inoltre paralizzato per giorni il sistema di raffinazione dell’area.
Nel complesso gli Usa hanno perduto quasi 70 milioni di barili di approvvigionamento di prodotti petroliferi. A livello mondiale si tratta di meno di 1 giorno di consumo. Con un livello delle scorte operative che si aggira sui 50/60 giorni, una perdita di produzione inferiore a 1 giorno non avrebbe dovuto procurare alcun effetto significativo. Eppure, ha spinto i prezzi oltre i 70 $/barile.

Al di là degli effetti drammatici per la vita di milioni di esseri umani e l’emozione suscitata a livello mondiale per l’esistenza di aree di terzo mondo all’interno della più grande potenza mondiale, le conseguenze di natura petrolifera provocate da Katrina sono state inferiori a quelle di altri uragani del passato.
Lo scorso anno l’uragano Ivan, abbattutosi sempre nell’area del Golfo del Messico, aveva fatto perdere al sistema Usa 96 milioni di barili, ma non aveva causato gli stessi effetti sul sistema petrolifero mondiale. La differenza è stata nell’impatto sul sistema di raffinazione e non già su quello di produzione del greggio.
Si evidenzia ancora una volta quale sia il punto di debolezza drammatica del sistema energetico e petrolifero a livello mondiale.

C’è un dato che accomuna questa crisi con quella del 1979, in occasione della guerra Iran-Iraq. Anche allora la perdita di produzione fisica di petrolio fu insignificante. Di fatto, tutte le esportazioni dal Golfo Persico continuarono a ritmi sostenuti senza alcuna interruzione. Eppure, i prezzi schizzarono alle stelle come mai prima. Furono raggiunti livelli vicini a 40 $/barile (pari a circa 80 $/bbl in valore attuale).
Fu la crisi che diede ai Paesi consumatori la consapevolezza della fragilità del sistema energetico e petrolifero e che portò alla creazione della Iea (Agenzia Internazionale dell’Energia).

Fino ad allora la gestione del mercato petrolifero era stata assolutamente artigianale e totalmente in mano alle compagnie petrolifere. Non c’era alcuna trasparenza nel sistema dei prezzi e non si aveva alcun sistema di monitoraggio dei flussi fisici del petrolio.
Fu la paura a spingere tutti i governi occidentali ad aumentare i livelli delle scorte, spingendo la domanda di petrolio greggio a livelli inaspettati e forzando i Paesi produttori ad uno sforzo produttivo immane. Il rialzo dei prezzi fu la conseguenza di questa mancanza di ogni sistema informativo. Con la creazione della Iea, crisi di questa natura non si sono mai più ripetute.

Purtroppo negli anni ‘80, la creazione dei mercati futures del petrolio ci ha dato l’illusione che ormai tutto fosse sotto il controllo dei mercati finanziari e che nessun rischio ormai potesse compromettere la sicurezza e l’economicità degli approvvigionamenti petroliferi. Non si è più parlato delle realtà produttive e degli investimenti necessari per mantenere il sistema efficiente. In un mondo dominato dal monetarismo, la produzione è stata vista come una variabile minore del processo finanziario.
Oggi sembra che New Orleans stia finalmente aprendo le orecchie a tutti coloro che hanno finora ignorato quel campanello di allarme che da tempo ci avverte di una grave crisi incombente nel mondo petrolifero..
Si comincia a parlare di strozzature logistiche dei sistemi di raffinazione e di limitata spare capacity dell’Opec. La Commissione europea ha annunciato una sessione dedicata al problema energetico.

In Italia purtroppo non si va al di là delle trasmissioni televisive e della interminabile discussione sull’abbattimento delle accise sulla benzina. Manca la consapevolezza che alcune scelte del passato ci hanno indebolito pesantemente. In particolare, andrebbe fatta una riflessione approfondita, dopo tanti anni, su ciò che ha comportato la privatizzazione dell’Eni.
Non c’è alcun dubbio che la gestione di questo processo è stata estremamente positiva. L’Eni è oggi una delle maggiori compagnie petrolifere del mondo, che porta ogni anno agli azionisti (compreso il Tesoro) utili notevoli. Ovviamente, una volta privatizzato, l’Eni ha perseguito una politica funzionale agli interessi degli azionisti, la massimizzazione degli utili e del valore delle azioni. Ha pertanto ridimensionato (anche sotto la spinta delle varie autorità nazionali) la sua attività in Italia, in particolare nel sistema di raffinazione e distribuzione petrolifera.
È difficile sostenere che i consumatori italiani oggi sono più protetti che nel passato dal fatto che non esiste più un operatore nazionale prevalente come era l’Eni. Si è visto come la concorrenza nella distribuzione dei prodotti petroliferi riguarda una frazione marginale del prezzo, che non fornisce ai consumatori quei benefici che qualcuno poteva immaginare.

Per un altro verso, il sistema petrolifero italiano è divenuto molto più fragile di prima. Gli operatori si muovono in un’ottica di breve periodo, finalizzata alla massimizzazione degli utili. La capacità di raffinazione si è drammaticamente ridotta fino a coprire parzialmente il fabbisogno di prodotti petroliferi nazionale. L’Italia resta fortemente deficitaria di gasolio, che deve importare massicciamente dalla Russia e dal Golfo Persico. Ciò mentre continua una trasformazione del parco auto verso i motori diesel.
La sua capacità di esportare benzine di alta qualità verso gli Usa, contribuendo positivamente al risultato delle compagnie e alla bilancia dei pagamenti, si è ridotta ulteriormente. Tutto questo avviene mentre a livello mondiale si apre una crisi senza precedenti per la mancanza di capacità di raffinazione e una concorrenza feroce per l’accaparramento delle benzine e del gasolio di qualità.
Una Italia dove i costi di approvvigionamento energetico sono fra i più alti del mondo, come farà fronte in futuro a questa concorrenza? Per evitare che le benzine prodotte nelle nostre raffinerie costiere siano esportate verso i più redditizi mercati americani o nord europei, dovremo pagarle ai prezzi di quei mercati. O pensiamo di introdurre limiti alla libera esportazione dei prodotti petroliferi?

È un paradosso. Il Paese che aveva una capacita di raffinazione doppia rispetto al suo fabbisogno e un operatore nazionale che controllava la metà della rete di distribuzione, rischia ora di trovarsi a competere con Paesi che non hanno mai avuto un’industria qualificata ma sono finanziariamente più forti.
Occorrerebbe una ripensamento profondo delle strategie energetiche, non solo per quando riguarda il mix energetico nel suo complesso (petrolio, gas, carbone, nucleare, fonti alternative), ma anche per quanto riguarda la gestione della fonte più tradizionale. Il petrolio, infatti, nei prossimi venti anni non sarà né garantito né a basso costo: senza una strategia industriale e senza operatori all’altezza della situazione rischiamo di avere delle gravi crisi di approvvigionamento.
L’Eni, come si diceva prima, è una grande realtà di questo Paese, ma ha bisogno di una revisione della sua strategia nazionale e internazionale. Il Tesoro, suo azionista di riferimento, non può esimersi dal giocare un ruolo in questa partita.
Completato il processo di riduzione dei costi e di dismissioni di attività ritenute non strategiche, l’Eni deve potenziarsi pensando al prossimo futuro. I suoi piani strategici oggi sono concentrati nella ricerca e la produzione di idrocarburi nel mondo. Viceversa mancano piani di investimento nel down-stream petrolifero a livello internazionale. Alla lunga ciò produrrà un indebolimento della compagnia e l’impossibilità di perseguire i suoi obiettivi strategici.

I Paesi produttori pretendono sempre più una presenza integrata delle compagnie petrolifere nelle loro realtà. Possono accettare che, pur producendo ed esportando il petrolio nel mondo, debbano essere privi di una sufficiente capacità di produzione interna dei suoi derivati? È quindi evidente che nell’affidare le concessioni minerarie daranno sempre più la precedenza alle compagnie capaci di fornire interventi integrati in tutto il ciclo del petrolio.
Oggi l’Eni sembra carente in questa direzione. Eppure questo è un passo decisivo nel garantire quella sicurezza degli approvvigionamenti di cui il Paese ha e avrà sempre più bisogno.

Dovremmo evitare di estremizzare posizioni ideologiche su libero mercato e autonomia delle compagnie nazionali, che portano a rinunciare all’utilizzo dei necessari strumenti di intervento pubblico. Guardiamo che cosa fanno la Francia o il Regno Unito a supporto delle loro società che hanno un ruolo strategico. O che cosa è successo negli Usa, quando i cinesi hanno tentato di comprare la Unocal.
L’Italia è stata fra i Paesi che si sono offerti di aiutare gli Usa nell’affrontare la crisi di New Orleans, inviando aiuti e mettendo a disposizione le scorte petrolifere. Si è trattato di un gesto apprezzabile. Sarebbe però fondamentale che si capisse a fondo il significato dell’evento e del perché l’impatto sui mercati mondiali è stato così drammatico. E si cominciasse a proteggere il nostro futuro.