Barbaso: "Europa? Fondamentale una politica comune e coordinata"
di Davide Canevari
Per un proverbio che afferma un principio, il più delle volte, ne esiste un altro che assicura il contrario. La saggezza popolare insegna, così, che l’unione fa la forza. Ma nello stesso tempo ammonisce sul fatto che chi fa da sé fa per tre e mette in guardia dai compagni di viaggio male assortiti (meglio soli che male accompagnati e poca brigata, vita beata). Quando si affronta il tema dell’energia nell’ottica dell’ampliamento dell’Unione europea, la tentazione di propendere per la seconda ipotesi è ricorrente, tra alcuni addetti ai lavori. Troppo diverse le economie “oltre cortina”, troppo lontana dalla nostra la sensibilità ambientale, troppo ampio il gap tecnologico perché si possa parlare di una vera integrazione, e di vere opportunità anche per i membri Ue della prima ora. Un quadro che, tuttavia, non sembra convincere Fabrizio Barbaso, Direttore generale aggiunto della Commissione europea per il settore energia. “Le cose sono molto cambiate rispetto a qualche anno fa – dichiara Barbaso – e l’Europa a 25 è in grado di cogliere meglio le opportunità di quanto non potesse fare l’Europa a 15”. Anche perché non si può certo dire che quell’Europa fosse davvero unita. Insomma, il più deve ancora essere fatto. E a questo punto è certamente meglio poter contare sull’apporto di 450 milioni di cittadini europei.


Dunque i Paesi di fresco ingresso nel quadro energetico europeo si sono già integrati con la realtà preesistente?
Se fotografiamo la situazione di questi ultimi mesi, obiettivamente non si notano particolari differenziazioni nelle politiche energetiche e nella sensibilità alle problematiche ambientali. Il fatto non deve stupire: la fase di preparazione all’ingresso, dopo la caduta del Muro, è durata una quindicina di anni. C’è stato, quindi, tutto il tempo per mettere in atto le giuste politiche di liberalizzazione. Spesso queste politiche sono state più coraggiose rispetto a quelle messe in atto dai 15, proprio perché si partiva da zero e le dottrine di mercato potevano essere messe in atto in un terreno vergine. Il vero problema è stato quello di convincere questi Paesi a chiudere gli impianti nucleari a tecnologia sovietica, ormai superata e comunque pericolosa. Dismettere quelle centrali significava, ovviamente, dover rinunciare a parte della capacità di generazione e trovare alternative che non avessero necessariamente i tempi lunghi di un nuovo impianto nucleare.

Un passaggio rivelatosi spinoso?
Abbastanza, dal momento che gli impegni di chiusura, presi e consacrati, andavano poi gestiti e verificati. Gli impianti più vetusti si trovavano, ad esempio, in Lituania, in Slovacchia e in Bulgaria. Ed è verso questi Paesi che l’Unione europea ha dovuto prestare maggiore attenzione.

Anche per altri sistemi di generazione, a partire dal carbone, gli impianti dell’Est non possono essere considerati ultramoderni. Questo avrebbe potuto essere fonte di rischio per le nazioni occidentali, ma anche di opportunità di investimento e miglioramento. Proviamo a bilanciare questi due aspetti.
Penso che per l’Europa dei 15 i Paesi di recente ingresso abbiano costituito un’opportunità più che un rischio. Lo dimostra un’analisi del flusso di investimenti. Negli ultimi 10-12 anni i dieci Paesi entrati nella Ue hanno assorbito circa 150 miliardi di euro di investimenti per i settori liberalizzati. Quindi telecomunicazioni, banche, assicurazioni, energia. Liberalizzazione e privatizzazione hanno costituito delle opportunità che non si sono ancora esaurite del tutto. Per quanto riguarda i rischi, direi che non sussistono più preoccupazioni particolari. Certo bisogna continuare a vigilare sul fatto che le regole ambientali e di sicurezza siano rispettate. Ma i maggiori timori sono ormai superati.

Veniamo al problema dell’accettabilità sociale. È una questione solo italiana o di tutta la Vecchia Europa?
L’Italia ha una sensibilità più acuta rispetto al resto dell’Europa, anche per una spiccata priorità data agli interessi del singolo rispetto a quelli della collettività. In altri Paesi, pur essendo radicate le preoccupazioni per le questioni ambientali, ad un certo punto prevale l’interesse collettivo. Prendiamo la Francia: di fronte ad un programma per l’installazione di nuove centrali nucleari ci saranno comuni che si oppongono, ma anche altri che - valutati i vantaggi in termini economici e di creazione di posti di lavoro - avanzano la propria candidatura. Lo scenario di riferimento sarà quello di un primo dibattito, di una reazione equilibrata, e alla fine alcune proposte saranno respinte, ma altre accettate…

"PENSO CHE
PER L'EUROPA DEI 15
I PAESI
DI RECENTE INGRESSO
ABBIANO COSTITUITO UN'OPPORTUNITÀ
PIÙ CHE UN RISCHIO"


E come vivono il problema i Paesi dell’Est? Non c’è il rischio che le nazioni “più sensibili” trovino in questi Paesi delle “pattumiere” o comunque una facile soluzione ai loro problemi di installazione di nuovi impianti?
Per quanto riguarda quell’area dell’Europa, l’accettabilità sociale non ha ancora raggiunto i livelli tipici di alcuni Paesi occidentali, ma sta certamente crescendo. Quindi il rischio di creare in aree isolate dell’Est una “pattumiera” del resto d’Europa è ormai scongiurato. Le organizzazioni non governative più attente a questi aspetti si stanno radicando anche in quelle zone, stanno guadagnando visibilità e riducendo, di conseguenza, i rischi di abuso. L’attenzione alle istanze ambientali è ormai concreta e tangibile. Anche in quegli Stati dove non si è ancora costituito un partito dei Verdi, altre forze di governo si sono fatte interpreti di queste istanze. Mi sembra quindi che non ci sia più nessuno disposto a “subire”.

Veniamo alla politica energetica in Europa. Oggi la Ue non è certo una controparte unita nei confronti dei fornitori (a partire dalla Russia). Quali rischi e quali possibili soluzioni?
Quando è stata costituita, l’Europa si fondava su due pilastri energetici: l’Euratom per il nucleare e la Ceca per il carbone. Il primo accordo veniva incontro ad interessi principalmente francesi; il secondo a quelli tedeschi. Poi è seguito un periodo di latitanza della politica energetica, nel quale hanno prevalso le convenienze dei singoli Paesi. La situazione si è per certi versi aggravata negli anni Settanta, perché la reazione allo shock petrolifero è stata interpretata da ogni nazione come una questione di sicurezza interna. Solo di recente si è notata un’inversione di tendenza. Dallo scorso anno sta maturando la coscienza, nei più alti livelli politici, che un’azione in ordine sparso - condotta dai singoli - così come la difesa degli interessi nazionali, impedisce all’Europa di essere efficace nelle sfide globali, ossia nell’approvvigionamento del petrolio e del gas e nella lotta ai cambiamenti climatici (almeno su questo aspetto, va riconosciuto, la politica europea è stata più solida e coerente). L’Europa si è resa conto che le sue risorse energetiche interne stanno diminuendo, la dipendenza dall’estero è in crescita e con lei la vulnerabilità di tutto il Vecchio continente. Emerge, di pari passo, la necessità di affrontare insieme le sfide per rispondere a quelli che sono interessi di tutti.

Se anche la grande Germania si presenta sul mercato, lo fa con un potenziale di 85 milioni di consumatori, quando l’Europa ne ha 450…
È vero, presentarsi sul mercato delle materie prime e trattare con i grandi fornitori con la forza di un bacino di utenti così ampio dà indubbi vantaggi. Non è comunque solo una questione di numeri, nel rapporto tra cliente e fornitore. L’Europa deve capire che le decisioni di uno Stato membro incidono inevitabilmente anche sugli altri. Prendiamo l’Italia: ha recentemente deciso di puntare sul gas naturale. Se tutti gli altri Paesi d’Europa avessero preso la stessa strada, autonomamente, la situazione degli approvvigionamenti sarebbe divenuta ingestibile. Ecco perché e fondamentale una politica comune e coordinata.

Un ottimo auspicio, che sembra però di difficile applicazione. Storicamente, in tema di energia, ogni Stato ha fatto di testa sua, con scelte spesso divergenti. Troviamo così la Francia, che è il Paese al mondo con la maggior percentuale di nucleare, confinante con un’Italia che da venti anni ha detto no a questa fonte; Stati ad alta prevalenza di carbone ed altri con una percentuale pressoché nulla. Difficile, con caratteristiche di base così diverse, pensare ad una politica unitaria …
In effetti questo è un motivo di debolezza. Per 50 anni gli Stati europei si sono mossi in ordine sparso. Ogni Paese aveva le proprie specificità: geografiche, di disponibilità interna delle fonti, di importanza del settore industriale e di quello agricolo, di tradizioni… E si è mosso di conseguenza. Ecco perché ci troviamo a coesistere con situazioni così differenti. È tuttavia arrivato il momento di confrontarsi con uno spirito più sereno. Per questo, come Ue intendiamo offrire una piattaforma di dialogo e di confronto.

A proposito di mix delle fonti, quali strategie suggerisce l’Europa?
Non c’è un mix prestabilito ottimale, una torta le cui fette sono già rigidamente ripartite. Diciamo che l’Unione europea ha identificato quelli che ritiene gli ingredienti indispensabili. Sto parlando, in primo luogo, di un crescente interesse per le fonti energetiche a bassa o nulla emissione di anidride carbonica.

Quindi anche il nucleare.
Sì. L’Europa deve trovarla volontà, il coraggio, l’obiettività per discutere di nucleare come fa per le altre fonti. Valutando i pro, i contro, le condizioni economiche, i rischi.

"L'EUROPA
DEVE TROVARE
LA VOLONTÀ, IL CORAGGIO
L'OBIETTIVITÀ
PER DISCUTERE DI NUCLEARE
COME FA PER LE ALTRE FONTI"

E quando lo farà?
In parte lo sta già facendo. L’Inghilterra ha inaugurato una fase di riflessione (Blair ha addirittura dichiarato che è indispensabile affrontare il problema nucleare); in Svezia rileviamo un’evoluzione dell’opinione pubblica; in Germania il tema è tornato al centro dell’attenzione - forse non apertamente come altrove - ma comunque è dibattuto, anche per le importanti implicazioni di tipo industriale e tecnologico. Non tutti i Ppaesi sono disposti ad ammetterlo, ma in Europa c’è voglia e bisogno di riaprire il dibattito sul nucleare.

C’è un altro aspetto che preoccupa gli esperti del settore, quello delle infrastrutture (rigassificatori e linee di trasmissione). Sembra sempre più sentita l’esigenza di un piano di coordinamento. Quali sono i criteri attuali e quali gli auspici per l’immediato futuro?
Sono perfettamente d’accordo con chi ritiene strategico questo aspetto. La questione delle reti e delle interconnessioni è indispensabile per creare una adeguata diversificazione delle fonti di approvvigionamento. Al riguardo sta per essere finalizzata una decisione del Parlamento del Consiglio europeo in merito al Trans European Networks – Energy. Si tratta di un monitoraggio delle reti ritenute prioritarie nell’Europa a 25. In parte sono già esistenti, altre sono da completare, altre ancora da realizzare ex novo. In tutto ne sono state identificate 42 che avranno accesso privilegiato ai finanziamenti, per esempio della Banca europea. Queste reti rispondono ad una strategia di coerenza globale e riguardano la sicurezza dell’Europa nel suo complesso, ma anche dei singoli Stati. Il documento finale dovrebbe essere pubblicato a dicembre.

Come interpreta l’Unione europea i crescenti segnali di protezionismo e la voglia di tornare ai “campioni nazionali”? La concentrazione ha battuto definitivamente la liberalizzazione? E i singoli Stati hanno ripreso il sopravvento sull’idea di Europa?
Le preoccupazioni non mancano, poiché il concetto di “campioni nazionali” è chiaramente incompatibile con il principio di un mercato europeo integrato e liberalizzato. Il processo di liberalizzazione ha portato alla comparsa sul mercato di nuovi soggetti; in un secondo tempo ha favorito l’aggregazione, le fusioni, la creazione di soggetti di maggiori dimensioni. È accaduto un po’ in tutti i settori. Purtroppo nel caso dell’energia si è assistito a una certa distorsione, poiché l’aggregazione ha avuto essenzialmente un carattere nazionale. Questo, come già detto, si scontra con il principio del mercato unico. Un principio che, come Unione Europea, vorremmo far rispettare.

Cosa ne pensa di un’Autorità unica dell’energia, o comunque di un coordinamento più forte rispetto ad oggi?
Certo, occorre che i regolatori nazionali armonizzino competenze e prerogative, integrino nelle loro decisioni la dimensione europea, favoriscano gli scambi transfrontalieri. Un regolatore europeo, come suggerisce la Commissione nel suo Libro Verde dell’8 marzo 2006, garantirebbe un coordinamento ottimale per il funzionamento del mercato integrato. Ma si possono fare progressi immediati anche tramite una maggiore cooperazione e più scambi, in un clima di totale trasparenza.

Energia e trasporti, fin dall’inizio, sono stati considerati dall’Europa due aspetti strettamente connessi. Quanto è importante intervenire sulla mobilità nell’ottica del risparmio energetico e dell’uso razionale delle risorse?
È decisamente molto importante. Questo settore è uno dei più grandi consumatori di energia e responsabile di emissioni inquinanti. Anche perché ancora oggi nella Ue il 98 per cento dei carburanti consumati è fornito dal petrolio. Il problema è ancora più sensibile nelle città, dove vive l’80 per cento degli europei e si concentra la maggior parte dell’inquinamento. Il futuro piano di azione per l’efficienza energetica (sarà presentato a fine settembre) affronterà questo problema e tratteggerà una serie di misure capaci di ottenere risultati significativi. In parallelo si deve procedere alla diffusione dei nuovi combustibili: gas naturale, biocarburanti e più tardi l’idrogeno.

Altro aspetto molto discusso, quello della ricerca europea nel settore elettrico/energetico. Sembra che il Vecchio Continente sia sempre all’ombra degli Usa...
No, non siamo all’ombra degli Stati Uniti. Quando si tratti di programmi ambiziosi, epocali, come quello per l’idrogeno e le celle a combustibile, è naturale che ci coordiniamo con i maggiori partner internazionali. Ma l’Europa sta prendendo coscienza dell’importanza della ricerca e sviluppo di nuove tecnologie. In tanti settori, come l’eolico e il solare, abbiamo la leadership ed esportiamo ovunque. Il 7° Programma quadro ricerca disporrà dei fondi necessari per metterci alla pari con gli Usa e il Giappone, e avanzare in tutti i campi prioritari, in particolare l’efficienza e le rinnovabili. Ci saranno anche fondi per “l’energia intelligente” a partire dal programma competitività e innovazione.

A Bruxelles come vedono l’Italia dell’energia?
Da un lato è apprezzata più di quanto si possa pensare. E questo per i passi in avanti che ha saputo compiere in termini di liberalizzazione; in certi casi i risultati ottenuti sono stati superiori rispetto alle attese. Però non tutte le Direttive europee sono rispettate, ed esistono quindi ampi margini di miglioramento. Quello che preoccupa di più è il costo del kWh, molto più elevato rispetto agli altri Paesi vicini. Evidentemente in Italia ci sono costi che vanno armonizzati rispetto alla media europea…

E l’Italia come hub del gas per l’Europa?
L’Unione europea non ha mai studiato nel dettaglio questo aspetto dell’Italia. Credo che sia importante vedere come si svilupperanno le reti di connessione con gli altri Paesi. Se tutti i progetti annunciati saranno poi realizzati, è chiaro che l’Italia si troverà ad avere un capacità di importazione superiore rispetto ai consumi e dovrà inevitabilmente diventare, a sua volta, un esportatore.