Re Rebaudengo: “Politica energetica? È tempo di cambiare logica”
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IL PRESIDENTE DI APER (ASSOCIAZIONE PRODUTTORI ENERGIA RINNOVABILE)


di Davide Canevari



Sono trascorsi giusto due anni (lo scorso maggio) dalla nomina del nuovo presidente di APER. Per altro, il momento che stanno vivendo le rinnovabili, e in particolare il fotovoltaico, non può certo essere definito tranquillo e privo di incomprensioni: merita dunque un adeguato approfondimento. Due buone ragioni, queste, per incontrare Agostino Re Rebaudengo.



Presidente, come giudica l’evoluzione delle FER in questo arco di tempo?
**Le FER si stanno avviando a grandi passi all’età adulta. Le politiche di sostegno, pur tra tanti stop and go, stanno dando i loro frutti e hanno permesso a diverse tecnologie rinnovabili di avvicinarsi al momento in cui non avranno più bisogno di incentivi.


Sulle rinnovabili non sono mancate le polemiche. Quale l’ha ferita di più? Gli incentivi troppo generosi, la cronaca giudiziaria, il fatto che abbiano creato posti di lavoro solo all’estero o cosa altro?
**Negli ultimi mesi per alcune testate sembra che gli incentivi alle rinnovabili siano stati uno dei più grandi errori del nostro Paese. Trovo questa cosa incredibile. Sebbene in qualche periodo i regimi di sostegno non siano stati del tutto cost reflective, in nessun caso si può parlare di soldi buttati. Hanno garantito la nascita di un settore che prima non c’era, con benefici netti per il nostro Paese sotto vari aspetti: dalla crescita del PIL e dell’occupazione al miglioramento della bilancia commerciale e dell’indipendenza energetica; dalla riduzione dei costi dell’energia elettrica all’ingrosso agli impatti ambientali e sanitari: meno inquinamento e meno malattie. Per questo non si giustificano anche solo le ipotesi di nuove tasse in proiezione futura - ricordo che le rinnovabili stanno già ingiustamente pagando la Robin Tax - né tanto meno con effetto retroattivo.

             
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ALL'AVANGUARDIA
Ha solo 54 anni e un esteso curriculum che sconsiglia
il tentativo di farne una veloce sintesi. Conoscendo il suo dinamismo, è prevedibile
che sarà - in futuro
abbondantemente integrato.
Per il momento, il profilo di Agostino Re Rebaudengo è assimilabile a quello orografico delle Langhe: vario, dolce ma con qualche tocco di sobria, elegante durezza. Torinese,
una laurea in Economia e commercio (a Torino), frequentazioni formative all’Ucla di Los Angeles e alla bostoniana Harvard. Forte attaccamento alle origini, mostra una dimensione mentale e professionale cosmopolita, a conferma che i due topoi non sono in contrapposizione, anzi si alimentano reciprocamente.
Può sembrare strano, ma
lo è solo in apparenza, che
le sue svariate attività imprenditoriali e manageriali - metalmeccanica, editoria, immobiliare - svolte e in fieri siano affiancate da una costante presenza nel mondo della cultura. Talvolta, parlandogli, è difficile capire quale delle due parti sia complementare all’altra o se una prevarichi l’altra.
Nel dubbio, sta di fatto che
Re Rebaudengo testimonia
la compatibilità tra l’essere un imprenditore di livello internazionale, il presidente dello Stabile di torino (dal '96
al 2007), il cofondatore e vicepresidente della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo - guidata dalla moglie Patrizia Sandretto - finalizzata alla diffusione della conoscenza dell’arte contemporanea nelle sue espressioni d’avanguardia.
In aggiunta, da due anni è presidente di APER.
un incarico che denota carattere, considerando che
il mondo delle rinnovabili richiede attitudine alla lotta
(per affermarsi e magari espandersi). Che sia un combattente non ci sono dubbi e non gli fa velo la dolcezza
dei modi con cui si porge.
Si ha la sensazione che alle polemiche spicciole preferisca la fermezza e la chiarezza delle posizioni (le sue si mostrano garbate ma rocciose). In giro da un continente all’altro, chi lo cerca senza trovarlo, redazioni comprese, si sentirebbe più tranquillo sapendolo nelle vicinanze alle prese con un giro sul campo di golf della Mandria di cui è socio. Se poi le rinnovabili lo appassionano come l’arte contemporanea, anche gli oltre 500 associati possono stare tranquilli. In fondo, anche le rinnovabili sono all’avanguardia…
g. a.

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Gli altri due temi mi sembrano di minor interesse. Sulla cronaca giudiziaria non credo che il settore sia più contaminato di altri e i reportage giornalistici che ogni tanto appaiono riportano da anni le stesse vicende. La questione dei posti di lavoro, semplicemente non è vera: le energie rinnovabili sono più labour intensive delle fossili, cioè per ogni MWh prodotto richiedono un maggior numero di lavoratori. Se poi una parte della tecnologia è stata importata, ciò non ci deve distogliere dal fatto che sono state create imprese produttrici di energia che ora possono iniziare a fare investimenti diretti all’estero.


Ma nel concreto, quanta ricchezza ha prodotto in Italia lo sviluppo del fotovoltaico?
** A dispetto di alcuni luoghi comuni, parallelamente alla crescita in termini di potenza installata e numero di impianti realizzati, si è anche sviluppata in questi anni una filiera industriale nazionale. Dai dati pubblicati dall’Energy&Strategy Group durante la presentazione del Solar Energy Report 2013 lo scorso aprile, il volume d’affari dell’industria fotovoltaica ha registrato nel 2012 un fatturato pari a 6,2 miliardi di euro. Secondo queste analisi, il volume d’affari 2012 rimasto sul territorio nazionale è stato pari al 46 per cento, considerando anche le imprese estere con sede produttiva in Italia. Un risultato in forte crescita rispetto al 2011 quando tale quota era stata pari al 30 per cento.


Guardando ai singoli segmenti della filiera?
**Nelle due prima aree di business - silicio e wafer e celle e moduli - la quota mercato dei produttori italiani è effettivamente limitata: rispettivamente, al 2 e al 13 per cento. Ben più significativo il peso alla voce inverter: le aziende nazionali rappresentano il 35 per cento dell’intero fatturato, che sale al 64 per cento considerando anche le imprese estere con filiale produttiva nel nostro Paese.
Nel business degli altri componenti (cavi, quadri elettrici e strutture di supporto) il valore del Made in Italy si attesta attorno al 40 per cento del totale complessivo mentre per quanto riguarda l’area di business progettazione e installazione la quota parte di business che rimane in Italia è pari a circa l’80 per cento, in aumento di 6 punti rispetto al 2011.


Ripensando a quanto è successo negli scorsi anni, alle FER ha giovato la contrapposizione “diretta” con le altre fonti, in particolare quelle fossili? Non le sembra che a volte, per lo stesso settore presentarsi come “uno contro tutti” sia stato controproducente?
**Veramente gli attacchi sono arrivati soprattutto da parte dei produttori termoelettrici, che non si aspettavano un così rapido sviluppo delle rinnovabili. Dal nostro canto, come associazione cerchiamo costantemente di assumere posizioni responsabili che mettano in primo piano la stabilità del sistema e puntino ad un dialogo con le fonti fossili, che continueranno ancora per molto tempo ad avere un ruolo fondamentale.
Il problema credo ineludibile oggi è che, su previsioni probabilmente eccessivamente ottimistiche, in Italia sono stati realizzati troppi impianti turbogas o in genere a fonti fossili, non tenendo conto che gli obiettivi previsti al 2020 per la produzione di energia elettrica da FER sarebbero stati raggiunti e forse superati anzitempo. Per altro, proprio il fatto di averli raggiunti con anticipo non dovrebbe essere preso come attenuante rispetto agli ambiziosi obiettivi di medio termine europei. Vorrei aggiungere una ulteriore considerazione al riguardo. È vero che i consumi di energia elettrica - per la maggiore spinta all’efficienza e per la deindustrializzazione in atto - stanno diminuendo. Ma è anche vero che la nostra società potrebbe e dovrebbe essere più elettrica (a partire dai trasporti, ma anche in ambito domestico in sostituzione del gas), come già oggi succede nei Paesi del Nord Europa.


Secondo lei il disimpegno dell’Italia (e in parte dell’Europa) dal nucleare può essere considerato una vittoria per le rinnovabili?
**Non è una vittoria per le rinnovabili, ma per la sicurezza del nostro Paese. Poi è evidente che, se all’indomani del referendum del 1987, l’unica alternativa erano le fonti fossili, oggi fortunatamente non è più così. Si possono spegnere i reattori nucleari e produrre finalmente energia che non abbia controindicazioni ed esternalità negative socializzate.


Non è che alla fine a guadagnarci più di tutti è stato il carbone e che, forse, era meglio ragionare in una logica di sistema - rinnovabili più nucleare - più che di contrapposizione?
**Forse, se ci fossimo trovati in una situazione di deficit di capacità produttiva. Ma con l’attuale livello di overcapacity al 50-60 per cento, la costruzione di impianti nucleari sarebbe stata una follia. Certo, probabilmente non sarebbero state le rinnovabili a rimetterci di più, visto che l’Europa ha da tempo indicato chiari obiettivi di sviluppo. Tuttavia qualsiasi posizione sul nucleare non può essere dettata da valutazioni opportunistiche, ma dalla sicurezza dei cittadini. Se in tanti Paesi si stanno intraprendendo politiche di decommissioning, vuol dire che forse in Italia per una volta ci abbiamo visto giusto.


Ogni governo - e negli ultimi anni non sono certo mancati gli avvicendamenti - ha voluto dire la sua sui Conti Energia e ha legiferato in proposito, con forti discontinuità e un andamento a fisarmonica. Quanto ha pesato sull’evoluzione delle rinnovabili e cosa ci si può legittimamente attendere per il breve e medio periodo?
**La mancanza di una stabilità normativa non ha permesso una crescita del settore più graduale ed equilibrata, che sicuramente sarebbe stata più desiderabile. Inutile però guardare indietro. Ora bisogna pensare a non dilapidare il patrimonio faticosamente costruito e accompagnare progressivamente le imprese avviate verso il mercato con meccanismi di sostegno non monetari come ad esempio l’implementazione - finalmente - dei sistemi efficienti d’utenza.


Come valuta il rapporto tra le FER e il Titolo V della Costituzione?
**Le FER sono per definizione generazione distribuita ed è bene che le autorizzazioni ai singoli impianti continuino anche in futuro ad essere concesse dagli enti territoriali. È evidente però che per valorizzare al meglio l’integrazione delle rinnovabili nella rete elettrica nazionale occorrono investimenti importanti che non possono essere ostaggio di singoli territori, ma devono avvenire in base all’interesse generale. Dunque siamo d’accordo con una riforma del Titolo V che sottragga le opere strategiche per il Paese agli interessi particolari.


Per certi versi la Sindrome Nimby sembra essersi ritorta contro le stesse FER, in particolare per quanto riguarda le biomasse. Perché il territorio teme tanto questa fonte?
**Succede perché la gente non si fida più della classe dirigente di questo Paese che ha effettivamente commesso diversi errori negli ultimi anni. Di conseguenza, anche progetti sostenibili dal punto di vista ambientale, come lo sono la totalità degli impianti a biomasse, finiscono per essere visti come potenziali “inceneritori” dove potrebbe finirci dentro di tutto. Ma chiunque abbia seguito la progettazione di un impianto bioenergetico sa che ciò non è possibile. Come imprenditori dobbiamo riuscire a comunicarlo meglio e a rassicurare i cittadini, ma anche la classe politica deve aiutarci, decidendo per i decenni a venire e non in base alla durata del proprio incarico, in balia dell’altra sindrome sempre più diffusa: Non Nel Mio Mandato.


Ha ancora senso parlare di grid parity?
**Credo di sì, anche se forse non nell’accezione più classica del termine che pone come condizione la competitività delle fonti nell’accesso alla rete elettrica. Infatti, grazie alla generazione distribuita, la parità può essere raggiunta in altri modi, sfruttando il vantaggio di alcune rinnovabili rispetto alle fossili di poter essere prodotte ovunque, senza vincoli di dimensioni o per la sicurezza dei cittadini. Se poi nel calcolo mettiamo i costi ambientali e della salute rispetto alla generazione delle fossili e conteggiamo anche gli incentivi che le stesse fonti fossili ricevono, già oggi siamo al traguardo.


L’attenzione (anche a livello mediatico) adesso sembra spostarsi decisamente sulle rinnovabili termiche. E rischia così di crearsi una nuova contrapposizione, questa volta con le FER elettriche. Non sarebbe stato più efficace partire sin dall’inizio con un sistema di incentivazione comune ad entrambe?
**Può darsi. Probabilmente si è iniziato dalle rinnovabili elettriche perché era più facile sfruttare le infrastrutture già esistenti. Ma non ci può essere contrapposizione tra termiche ed elettriche: entrambe contribuiscono a raggiungere gli obiettivi europei e dovranno sempre di più essere prodotte congiuntamente, con moderni ed efficienti impianti di cogenerazione, così come previsto anche dal Decreto 6 luglio 2012.


Un suo commento sulla questione dei dazi cinesi: per come è strutturata la filiera del FV in Italia, questa decisione può essere vista più come un rischio o una opportunità?
**A nostro avviso prevalgono decisamente i rischi. I dazi - proprio ora che gli incentivi si stanno esaurendo - allontanerebbero il settore da quella grid parity che per la maggior parte degli operatori, come detto, appare ormai a portata di mano. Preoccupano, inoltre, i tempi e i modi di applicazione: la Commissione deciderà il loro ammontare definitivo, se saranno ritenuti necessari, solo alla conclusione dell’indagine prevista per dicembre. Riteniamo quindi che qualsiasi decisione debba avere effetto solamente a partire da quella data.


Queste incertezze applicative hanno già avuto degli effetti?
**Sì, quello di bloccare i finanziamenti di molti progetti con conseguenze molto pesanti per gli operatori. Non va dimenticato poi come la filiera del fotovoltaico sia rappresentata da tanti anelli: dai produttori di energia agli installatori, dai fornitori di altre componenti agli studi di progettazione. L’intenzione di proteggere la produzione europea mette in difficoltà molti imprenditori nazionali del fotovoltaico e, alla fine dell’indagine, il risultato potrà generare alla molteplicità delle aziende danni che risultano ben superiori ai benefici acquisiti da una parte minoritaria di esse.

             
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Two years have just gone by since Agostino Re Rebaudengo's appointment as Chair of APER, the association of renewable energy producers. Nuova Energia interviews him right when the renewable sector is facing hard times and sharp comments on the issue are made almost everyday.
“In the last few months, some newspapers' headlines seemed to suggest that incentivizing renewable energy has been one of the biggest mistakes our Country has ever made. I think this is unbelievable. Though at times allowance schemes have not been that cost-reflective I think they cannot just consider them a waste of money in any case. Incentives have created a sector that wasn't there before, with huge benefits for our country in a variety of respects”.
Another recurring and thorny issue: the impact of photovoltaics on job creation. is that true that Italy still lacks an industrial supply chain and most of the money spent to purchase systems and technologies ends up on foreign markets?
Re Rebaudengo has a clearcut view on the matter: “As a matter of fact last year italy managed to retain 46% (equal to 6.2 billlion Euros) of the global business volume generated by the PV sector within domestic boundaries, including foreign companies with production facilities in Italy: this is a significant increase as compared to 2011 figures, when that share amounted to 30%”.
As regards the still topical issue of customs duties on imports from China, he is not that optimistic: “To my view, risks definitely prevail over opportunities in that regard”.

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Tutti sottolineano le opportunità della green economy. Visto che purtroppo siamo abituati alle bolle, cosa bisogna fare in concreto per evitare che questa non sia solo un’illusione?
**La green economy non è affatto una bolla, ma diventerà sempre di più una scelta obbligata. Tra qualche anno non se ne parlerà più semplicemente perché tutta l’economia dovrà essere green e rispettare canoni di tutela e sostenibilità dell’ambiente.


Ci descrive il polso degli associati APER sull’attuale situazione di mercato dei produttori di energia elettrica da rinnovabili?
**C’è molta preoccupazione per gli effetti della nuova disciplina degli sbilanciamenti e per i distacchi degli impianti nelle aree meridionali dove, complice la crisi economica, le congestioni di rete hanno ricominciato a manifestarsi con frequenza crescente. Per quanto riguarda i nuovi investimenti, la situazione è molto interlocutoria. Le imprese stanno sperimentando i nuovi regimi incentivanti con molta cautela e ci stanno segnalando diversi nodi da sciogliere: dalla facoltà di escussione da parte del GSE delle fidejussioni anche senza colpa dell’imprenditore alla insoddisfacente allocazione dei contingenti, troppo limitati per i piccoli impianti e troppo abbondanti per i grandi. Per non parlare del fatto che con aste e registri si sono riusciti ad allungare ulteriormente i già “interminabili” tempi di messa in esercizio degli impianti.


Sempre in tema associativo, malgrado alcuni tentativi di coordinamento non crede che le voci delle rinnovabili siano ancora troppo numerose e frammentate?
**Certamente. Proprio per questo motivo APER sta sempre di più assumendo un ruolo di polo aggregatore delle rinnovabili elettriche.


Le consegno in mano una bacchetta magica, con il vincolo di poterla usare una sola volta. Come la utilizzerebbe?
**Abbasserei i costi tecnologici di tutte le rinnovabili per renderle da subito competitive. Non avremmo più bisogno degli incentivi e ce la giocheremmo sul mercato con le energie fossili (che nel frattempo dovrebbero rinunciare anche ai loro incentivi). È una sfida che non vediamo l’ora di affrontare!


Ma visto che la bacchetta non esiste…
** Quello che mi preoccupa davvero è che anche l’azione dell’attuale Governo - per carità il migliore tra quelli possibili - continua a concentrarsi sull’ipotesi di trovare nuove risorse per mantenere l’equilibrio di bilancio e non sul risparmio dei costi di funzionamento della macchina pubblica, con un obiettivo di riduzione del 10 per cento annuo nei prossimi tre anni e con investimenti, poi misurati nell’efficacia, finalizzati a raggiungere un aumento della produttività della funzione pubblica.
Altra cosa indispensabile credo che sia una moratoria di almeno tre anni sull’applicazione dell’Articolo 18 dello statuto dei lavoratori. In altre parole, non possiamo pensare di poter lavorare in mercati con altissima volatilità, utilizzando il lavoro in modo fisso e come risorsa inamovibile una volta che è stata assunta. Questo sistema penalizza prima di tutto chi non ha un’occupazione, ma poi anche i lavoratori stessi. Pur idealmente garantiti “a tempo indeterminato” se un’azienda è costretta a chiudere non avendo la adeguata flessibilità operativa, alla fine nell’attuale contesto finiscono comunque tutti per perdere il lavoro.