Il problema principale? Che cosa fare, perché e per chi
di Ugo Farinelli

Mancano oggi alla ricerca energetica italiana più le domande che non le risposte: ovvero, c’è più offerta che non domanda di ricerca nel settore dell’energia. Certo gli stanziamenti sono modesti, come in molti altri campi della ricerca, anche rispetto a quanto si fa in altri Paesi dell’Unione europea. E dove i soldi ci sono, come nel caso delle ricerche di sistema elettrico finanziate con la bolletta, si frappongono lungaggini procedurali e idee poco chiare. Ricercatori bravi ce ne sono ancora, anche se in diminuzione dopo il lungo periodo di stasi, e in presenza di crisi esistenziali come quella dell’Enea, del Cnr e, per altri versi, del Cesi.

Ma ritengo che il problema principale sia che cosa fare, perché e per chi. Esiste un gruppo di esperti della International Energy Agency che discute i criteri di priorità per la ricerca energetica (o almeno per quella parte che è finanziata con fondi pubblici); analoghe iniziative si hanno a livello della Commissione europea. La teoria è molto semplice. I Paesi, o i gruppi di Paesi, stabiliscono delle strategie energetiche di lungo termine; le traducono in necessità di acquisizione di nuove conoscenze, di nuovi risultati e quindi in necessità di ricerca. A questo punto si vede che cosa ci si può aspettare dalla ricerca privata (eventualmente opportunamente stimolata, per esempio attraverso accordi di programma) e che cosa debba venire da quella pubblica. Quest’ultima a sua volta può essere svolta a livello di Paese, oppure attraverso collaborazioni internazionali: e questa scelta dipende dal livello di specializzazione dei problemi, dalle opportunità derivanti dall’esistenza di particolari competenze, dalle scelte di presenza effettuate dalle industrie. Tutto questo processo è immerso in un complesso di valutazioni di vario tipo: a cominciare da una valutazione a priori delle conseguenze economiche, sociali e ambientali delle nuove tecnologie da sviluppare per determinare che cosa ci si può aspettare, nel bene e nel male, dalla loro applicazione e diffusione (il “technology assessment”); proseguendo con le previsioni costi-benefici degli specifici programmi di ricerca rispetto ad altri con obiettivi analoghi, e terminando con una valutazione a posteriori dei risultati raggiunti dalle ricerche, non solo in termini scientifici o tecnologici, non solo in termini economici, ma anche sociali e ambientali.

"MANCANO SCELTE INDUSTRIALI
CHIARE E ORIENTATIVE
COME QUELLE DELL'INDUSTRIA
EOLICA IN DANIMARCA
E SPAGNA, FOTOVOLTAICA
IN GERMANIA E COSÌ VIA"

Quando ci troviamo in sede internazionale a confrontarci con gli altri Paesi, e sentiamo che cosa viene fatto in questo quadro per esempio nel Regno Unito, o in Olanda o in Danimarca, abbiamo qualche imbarazzo nel riferire la situazione italiana. Una situazione caratterizzata prima di tutto da una mancanza di una strategia energetica che non sia affermazione di obiettivi ovvi: la sicurezza degli approvvigionamenti, la protezione dell’ambiente e del clima, l’economicità dell’energia anche agli effetti della competitività sul mercato. Senza fare però cenno a come raggiungere questi risultati. In secondo luogo, mancano (con poche lodevoli eccezioni a livello di industria media o piccola) delle scelte industriali chiare e orientative, come quelle dell’industria eolica in Danimarca e in Spagna, fotovoltaica in Germania, delle biomasse in Finlandia e in Svezia e così via. Una spia di questa situazione è il timido approccio delle nostre industrie ai programmi di ricerca della Commissione europea, quando il meccanismo del cofinanziamento esige che esse partecipino alle spese vive e non solo scaricando una parte delle spese generali: sempre con le dovute eccezioni, l’interesse industriale sembra essere più l’accesso ai soldi che non i risultati che si ottengono. A differenza di altri Paesi, è molto raro che un’industria finanzi o cofinanzi un progetto di ricerca che non si svolge al suo interno.

Come abbiamo osservato altre volte, il sistema italiano sembra non cogliere spesso le opportunità che gli derivano da particolari situazioni, conoscenze ed esperienze per sviluppare delle tecnologie da esportare; in campo energetico è il caso per esempio della geotermia, della gassificazione del TAR, degli elettrodomestici ad alta efficienza, della diffusione del metano in autotrazione, e in parte almeno anche dell’idroelettrica. E infine, il processo di valutazione si limita generalmente all’analisi a priori di singoli progetti di ricerca e, raramente, all’analisi tecnico-scientifica dei risultati. I pochi esempi di valutazione comprensiva, a priori o a posteriori, degli impatti dello sviluppo tecnologico sono rimasti isolati (e questo non vale solo per il campo energetico).

Non è facile pensare come superare questa situazione. Alcune barriere sono di tipo culturale (quale la mancanza di un processo serio di valutazione), altre risalgono alla struttura stessa del nostro sistema produttivo. Il governo sembra intenzionato ad affrontare seriamente il problema energetico, anche se non ancora quello della ricerca energetica. Se possiamo avanzare una ipotesi basata sulle impressioni degli ultimi tempi, la priorità che sembra delinearsi è quella di puntare sull’aumento dell’efficienza energetica (in tutti i settori) piuttosto che su tecnologie innovative per la produzione e la trasformazione di energia.

Una scelta di questo tipo avrebbe un certo numero di motivi a suo favore: prima di tutto l’esperienza di avanguardia che l’Italia sta facendo con il suo sistema di Certificati Bianchi (i titoli di efficienza energetica istituiti dai decreti del luglio 2004), con un sistema aperto che favorisce lo sviluppo e l’introduzione di tecnologie innovative. In secondo luogo, l’importanza che ha in Italia il settore di produzione di mezzi strumentali, con forte presenza sul mercato internazionale. Infine, quel tanto che può ancora rimanere da un passato non tanto lon-tano di una certa propensione diffusa al risparmio, derivante da una lunga storia di prezzi alti dell’energia. Oltre alla individuazione di una priorità di questo genere (che dovrebbe apparire chiaramente come un elemento di strate-gia nazionale) occorrerebbe anche tradurla in elementi di un programma di ricerca, in meccanismi di incentivazione per la partecipazione delle strutture private, e nella messa in piedi di quel sistema di valutazione che è ancora mancante.