Carbone con grande ritorno di fiamma
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di Davide Canevari


Anche l’Europa delle buone intenzioni prima o poi deve passare alla cassa. E allora, fatti quattro conti, soprattutto in periodi di magra e di disimpegno più o meno massiccio dall’atomo, è un attimo cedere alle seduzioni del carbone, lasciando da parte (almeno in parte) i più ambiziosi progetti di economia mono colore (ovviamente green) da portare a esempio planetario. Lo scorso anno il Vecchio Continente ha infatti aumentato sensibilmente i consumi di carbone. Nel complesso la domanda interna è lievitata di 3,3 punti percentuali, mentre la produzione (considerando anche la costola dei Paesi euroasiatici) ha messo a segno un più 4 per cento, riallineandosi alle migliori performance del 2001.
C’è anche una coincidenza curiosa… e qualcuno dubita che si tratti di una semplice coincidenza. Tra le nazioni che più hanno attirato l’attenzione dei carbonai ci sono tre realtà solitamente citate come esempio virtuoso per come hanno saputo promuovere e supportare lo sviluppo – a tratti addirittura turbinoso – delle fonti rinnovabili: la Spagna, l’Italia e la Germania.

Sulla Spagna c’è davvero poco da dire. Nonostante la pesantissima crisi che sta vivendo in casa il settore estrattivo (meno 25 per cento i volumi di carbone Made in Spain immessi sul mercato lo scorso anno ed episodi di cronaca la cui eco ha avuto spazio anche sui mass media nazionali), i consumi nel 2011 sono cresciuti di uno stratosferico 50 per cento. Carbone a tutto gas, dunque!

Anche per l’Italia bastano – così come per la Spagna – poche righe e un solo dato. Nel primo quadrimestre 2012 – lo ha evidenziato la rubrica Dall’Osservatorio energia dell’AIEE pubblicata sullo scorso numero di Nuova Energia – in una situazione di pesante riduzione interna della domanda di energia e di elettricità, il ricorso alla fonte carbone ha segnalato un più 33 per cento. Per tutte le altre fonti fossili ha invece dominato il segno meno.

Per quanto riguarda la Germania la questione sembra essere un po’ più sottile e il ritorno al carbone dei tedeschi pare meno esplicito e immediato. Lo scorso anno, infatti, i consumi hanno messo a segno un timido più 1,2 per cento (arrivando a quota 77 milioni di tonnellate) e le estrazioni interne sono cresciute di soli due punti percentuali. Prima di tirare le somme occorre però aggiungere alcuni elementi. Bisogna, ad esempio, considerare che ancora a metà luglio il ministero per l’Economia tedesco ribadiva che “gli impianti alimentati a fonti fossili rimangono una opzione essenziale per la sicurezza energetica del Paese” e confermava la realizzazione di “17 nuove centrali di potenza entro il 2022”. Negli stessi giorni veniva dato risalto ad un documento della Deutsche Bank che sottolineava lo stato di forte sofferenza di molte utility tedesche nella gestione delle centrali a gas (lo stesso succede in Italia, c’è poco da meravigliarsi): “Entro la fine del 2015 – sottolineava la Deutsche Bank – rischiano seriamente la chiusura impianti a gas per complessivi 6,4 GW”.
Su quale fonte, a questo punto, è più probabile che punteranno le centrali promesse dal ministero? Nessuno lo ha scritto esplicitamente, ma a molti osservatori del settore la risposta sembra scontata: di oil neanche a parlarne, il gas è fuori mercato… non restano molte opzioni alternative.

Questo ritorno di fiamma per il carbone dell’Europa ha una semplice e immediata spiegazione: business is business. “Innegabili ragioni di carattere finanziario – hanno confermato molti osservatori – in un contesto nel quale il carbone importato dagli Stati Uniti è davvero conveniente e, in parallelo, i costi dei permessi di inquinamento previsti dall’EU Emissions Trading Scheme sono ulteriormente calati (meno 17 per cento l’ultimo anno)”.
La scelta dell’Europa non è per altro isolata. A livello mondiale si respira la stessa aria (senza alcun sarcasmo). I combustibili solidi di origine fossile segnano nel 2011 un più 5,4 per cento in termini di consumo (più 6,1 per cento le estrazioni).

Quanto alla Cina, le sue performance in perenne crescita non fanno notizia. Nel 2011 le miniere hanno lavorato a pieno ritmo (più 8,8 per cento la produzione domestica di carbone) mentre nel decennio 2001-2011 la domanda di carbone all’interno della Grande Muraglia è cresciuta del 132 per cento! L’Asia nel suo complesso si è messa in luce per una crescita – 2011 su 2010 – del 7,8 per cento in un solo anno. Hanno spinto sull’acceleratore anche il Centro e Sud America (più 13,3 per cento); stabile l’Africa.

Alt, dirà qualcuno a questo punto. All’appello mancano gli Stati Uniti, che stanno facendo l’esatto opposto. Nel 2011 i consumi interni di carbone hanno infatti raggiunto i livelli minimi dal 1973 a questa parte! Vuoi vedere che finalmente ci troviamo di fronte ad un Paese che non guarda al portafoglio e privilegia le ragioni ambientali?
Difficile crederlo. Anche la situazione a stelle e strisce sembra infatti figlia di considerazioni prettamente economiche. Si sa che il gas naturale negli USA – grazie soprattutto allo shale – sta viaggiando su prezzo di saldo ed è conveniente come in poche altre aree del Pianeta. Il carbone è dunque meno competitivo, ma – soprattutto – trova un remunerativo mercato di sbocco proprio nell’export e in particolare (guarda un po’) in Europa. Lo scorso anno, nonostante la contrazione dei consumi interni, la produzione delle miniere USA è così cresciuta dell’1,2 per cento e l’export verso il Vecchio Continente è aumentato del 49 per cento nei primi tre mesi del 2012. Perché consumare in casa quello che si può vendere con soddisfazione all’estero?

Fin qui l’analisi di breve periodo, ovvero sull’evoluzione degli ultimi dodici mesi. Se si allarga lo sguardo a un arco temporale più ampio spicca dirompente la crescita dei mercati asiatici. Nel 2001 l’area Asia-Pacifico pesava per meno del 50 per cento sulla produzione mondiale di carbone; oggi il suo valore specifico è salito al 68 per cento erodendo quota mercato a tutti gli altri e in particolare al Nord America il cui share passa dal 26 per cento del 2001 all’attuale 15 per cento.