Generazione-N, se ci sei batti un colpo

di Federico Santi


Nonostante le dichiarazioni e i primi sorprendenti sforzi economici, organizzativi e comunicativi (soprattutto comunicativi), il verbo nucleare sembra purtroppo sempre più transitivo, nel senso etimologico di transit: passa e se ne va, senza lasciare traccia. Sic transit gloria mundi.

Sarà l’allergia all’atomo di una parte politica (grillini e micro-insetti vari, ma non solo) che, vuoi o non vuoi, rappresenta una parte del popolo. Saranno i problemi strutturali perennemente irrisolti: strapotere di Regioni, Province, Comuni, Comunità Montane, Conferenze di servizi, chipiunehapiunemetta; strapotere di magistrature inelette; strapotere di stampa prezzolata e televisione brizzolata; strapotere…

Saranno le sindromi Nimby e Banana (Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything) che imperversano come virus mutanti; sarà che trovare di questi tempi 5 o 6 miliardini per una centrale termoelettrica non è uno scherzo; sarà che le regole del gioco qui da noi cambiano più veloci del gioco stesso ed è dal ‘500 che del doman non v’è certezza. Sarà che tutti si lagnano ma alla fin fine lo status quo tanto male non è, almeno per chi ce l’ha; sarà quel che sarà, ma gira voce che il nucleare non sarà, almeno così sussurra qualcuno.

Del resto, l’atomo - lo dice la parola - è indivisibile e una torta indivisibile qui in Penisola è sempre un po’ indigesta, specie se ha il gusto salato della quiche lorraine. Già, perché, al di là della oncologica perennemente nascitura Agenzia per la sicurezza nucleare, la bandiera atomica italiana è il tricolore francese. La colonizzazione d’oltralpe, benedetta dai nostri sacri governanti - chissà perché Air France no, EDF sì; mah… - è in stadio avanzato. Sviluppo Nucleare Italia è per il 50 per cento di proprietà Enel e per il 50 per cento di EDF, Ente di Stato francese, in barba ad ogni Direttiva Europea sulla liberalizzazione dei mercati energetici. Evviva la sussidiarietà.

Ma - mi si dirà - i francesi hanno la tecnologia! Il reattore franco-tedesco EPR (battezzato European Pressurized Reactor, come se Francia e Germania - o meglio Areva e Siemens - da sole fossero l’Europa) è sicuro, è maturo, è certificato, è in costruzione in Europa, è quello che ci vuole per un rapido rilancio del nucleare in Italia.
Sarà - risponderei - ma a me pare che i guai di Olkiluoto e di Flamanville, dove il leggendario EPR è in costruzione, dipendano proprio dall’impostazione del progetto franco-tedesco: mastodontico, come nella più classica tradizione della grandeur napoleonica. Sul tema avrei molto da dire - già l’AP1000 della Westinghouse sarebbe leggermente meno pachidermico, ad esempio - non ci indugio, ma non posso tacere che un conto è inserire l’EPR in una Nazione profondamente nucleare fin nel midollo come è la Francia; altro conto è portare l’elefante qui da noi, dove tutto è piccolo, agile, mutevole, flessibile, Mediterraneo.

È vero che negli atenei - i pochi rimasti, ahimè, a trattare di ingegneria nucleare - non si insegna Sociologia del Reattore (si dovrebbe), ma mi si permetta di dubitare: se in Finlandia (dico in Finlandia!) il tempo e i costi per la costruzione dell’EPR sono più che raddoppiati rispetto alle previsioni iniziali; se in Francia (dico in Francia!) è accaduto più o meno lo stesso; non sarà, mi chiedo, che l’obeso EPR è un oggettino poco adatto ai piccoli borghi del Paese d’o’ Sole?
Siamo una Nazione che - non dimentichiamolo - ha saputo costruire un’intera centrale nucleare a Montalto di Castro e poi l’ha incredibilmente chiusa prima che producesse un solo kilowattora (peraltro riconvertendola ad idrocarburi); fare un bis con l’EPR sarebbe davvero clamoroso e non dubito che, pur di dividerci l’atomo, ne saremmo capacissimi. Più si va avanti, più mi sembra che questa faccenda dell’EPR, costataci un occhio della testa (troppo, secondo me; ma questa è un’altra storia) e per la quale mi ero inizialmente entusiasmato come tanti colleghi, si stia rivelando l’ennesima storia all’italiana.

Dio non voglia, se la Nazione decidesse - magari dopo le elezioni - di abbandonare l’idea o anche solo di lasciarla lentamente scemare, chi pagherebbe i costi fin qui sostenuti? (Ho un sospetto: gli stessi che hanno già pagato Montalto…). E, soprattutto, chi potrebbe sanare la delusione e la sfiducia di industrie, aziende, professionisti, ricercatori, cittadini che hanno accolto con entusiasmo questo ventilato rinascimento nucleare e si stanno formando e organizzando per contribuire a realizzarlo?
Forse non sembra, ma c’è una maggioranza silenziosa che vede il programma nucleare, abbinato al programma di sviluppo delle fonti rinnovabili, dell’efficienza energetica, della carbon sequestration, della generazione distribuita e magari delle smart grid e dell’auto elettrica, come la prospettiva di un sistema elettrico finalmente moderno e sostenibile per il Paese.

Credo sia giunto il momento di quagliare: rendere esecutiva la creanda Agenzia per la sicurezza nucleare, scegliere i siti nucleari, definire ben chiari i criteri di composizione della supply-chain (senza paura di alzare la voce con gli esosi cugini francesi su questo argomento, avendo ben chiari in mente i ruoli di Materazzi e Zidane) e passare concretamente all’azione al più presto possibile. Tempus fugit, come ben sanno ad Olkiluoto (hanno iniziato nel 2005 e prevedono ora la fine nel 2013: 8 anni, sempre che non vi siano nuovi ritardi). Ciò ammesso, che quagliare sia ancora ritenuto possibile. In caso contrario, per favore smettiamola di farci del male raccontandoci frottole e chi ci ha illuso ci chieda perdono in ginocchio, sui ceci.
Se dobbiamo andare avanti, occorre un segnale forte e chiaro da parte di chi tira le fila; un segnale che confermi la direzione presa ed accresca il clima di fiducia e consenso intorno alla rinascita nucleare, senza il quale tornerebbero presto gli adesivi gialli col verbo nucleare fermamente intransitivo: Nucleare? No, grazie. Allora sì, sarebbero dolori.

PS: qualche idea per fluidificare il processo io ce l’avrei, ma non tolgo la suspance e rimando ai prossimi numeri. Tanto qui, a quanto pare, si va per le lunghe…