Serena: "L'Italia può dare di più nell'estrazione di gas e petrolio" |
di Davide Canevari
In effetti, lo sviluppo dei campi in Basilicata ha permesso di migliorare i risultati negli ultimi cinque anni. Dai 29,5 milioni di barili prodotti nel 2001 l’Italia è arrivata – lo scorso anno – a 44,3 milioni. Questo permette di coprire il 7 per cento della domanda interna complessiva (era il 5,2 nel 2001). Se allarghiamo lo sguardo a un periodo maggiore di tempo, va sottolineata la mole di attività delle Compagnie petro-lifere negli ultimi 50 anni. C’è stato molto lavoro, ma ci sono stati anche ottimi risultati. Il know how è maturato e si è sviluppata una imprenditoria industriale. Buoni segnali, ma si poteva fare di più? Più che altro si poteva accelerare lo sfruttamento dei pozzi già noti, come nel caso della Basilicata. Ci sono voluti tempi troppo elevati per passare dai primi ritrovamenti alla produzione. Purtroppo per trovare un accordo economico – tra le compagnie petrolifere presenti in zona e le amministrazioni locali – sono stati necessari degli anni! Nel frattempo molti stranieri – e alcuni italiani - hanno gettato la spugna e hanno abbandonato il campo. Il discorso è quello di sempre, e vale per i pozzi come per le centrali. Se si vuole realizzare qualcosa di nuovo e di concreto servono tempi certi e più brevi di quelli attuali. Cosa c’è da attendersi concretamente nei prossimi anni? Partiamo dalle riserve accertate. Queste assommano per il gas a 165 miliardi di metri cubi e per il petrolio a 724 milioni di barili; al tasso attuale di produ-zione l’indice di vita è pari a 14 anni circa per il gas e a 20 anni per il petrolio. Se si considerano le riserve potenziali (che sono state valutate preliminarmente, ma per le quali non è ancora certo se sia conveniente o possibile lo sfruttamento) potremmo arrivare a 200 miliardi di metri cubi di gas e fino a un massimo di 2.700 milioni di barili per il petrolio. L’Italia, lo confermo, resta un Paese con un potenziale interessante. Naturalmente per “ripartire” occorre investire in operazioni di accertamento. E i soldi ci sono? Risorse a disposizione – anche se non enormi – ci sarebbero… Davvero le compagnie petrolifere internazionali, che in questi anni sono rimaste alla finestra nelle aree più promettenti del Pianeta limitando gli investimenti in ricerca, possono interessarsi all’Italia? A conferma delle potenzialità reali del nostro Paese ricordo che la britannica Northern Petroleum ha ottenuto in via preliminare otto nuovi permessi di ricerca petrolifera in Italia. Si tratta di sei permessi offshore, quattro dei quali nel canale di Sicilia, due nell’Adriatico Meridionale e altri due sulla terraferma, in Pianura Padana: Longastrino, vicino Bologna, e Gattinara in provincia di Novara. La compagnia ora dovrà avviare studi di impatto ambientale per il via libero definitivo delle operazioni. Direi che le maggiori possibilità ci sono, in particolare per le compagnie di piccole dimensioni. L’importante è che l'accettabilità sociale non diventi un limite invalicabile e che il quadro normativo e delle regole sia più chiaro di quello attuale. Cosa propone, a questo punto, Assomineraria? Per il gas la possibilità di invertire il trend negativo esiste ed è concreta. Volendo si potrebbero raddoppiare i volumi attuali. Basterebbe avere un po’ più di coraggio nel facilitare lo sviluppo di giacimenti già scoperti e nell’incentivare un’esplorazione che langue ormai da troppi anni. Ad esempio, ci sono 34 miliardi di metri cubi di gas già scoperti nel Nord dell’Adriatico, il cui sviluppo è bloccato dal 1995 per i timori di impatto ambientale, legati in particolare alla subsidenza. Anche per il petrolio la produzione attuale potrebbe essere notevolmente superiore a quella attuale, senza alcuni ostacoli di tipo amministra-tivo che hanno dilazionato, per esempio, lo sviluppo dei giacimenti di Tempa Rossa in Basilicata. Quali vantaggi derivano dallo sfruttamento delle risorse nazionali? Un primo vantaggio evidente ha a che fare con la bolletta petrolifera. Lo scorso anno la nostra fattura energetica ha registrato un risparmio di 3,7 miliardi di euro. E per la nostra bilancia commerciale non è un risultato da poco. Ma non è solo una scelta strategica. Estrarre gas in Italia conviene. Certo, il costo puro del metro cubo, all’origine, è inferiore in Medio Oriente. Ma la produzione domestica consente di ridurre tutta una serie di costi, a partire da quelli legati ai trasporti (via tubo o tramite terminali di Gnl). Su un mercato molto ricettivo come il nostro, sia in termini di prezzo sia di quantità, la scelta di estrarre gas è ancora remunerativa. Da quali zone dell’Italia potrebbero arrivare sorprese positive? Le aree che al momento sembrano più interessanti sono il basso Adriatico e la Sicilia. Certo, ormai ci troviamo in “zo-ne di frontiera” come l’Appennino pe-ninsulare e la Catena siciliana con profondità di oltre 6.000 metri. Oppure le aree dello Jonio ad alto battente d’ac-qua (oltre 1.000 metri di profondità). Le compagnie petrolifere sono pronte a far la loro parte, ma è necessario ga-rantire condizioni favorevoli di operatività e investimenti; soprattutto relativamente ai tempi di ritorno. Questione rigassificatori. Quanto inciderà sui progetti futuri la scelta di investire (più o meno) sulla produzione nazionale di gas? Si tratta di due elementi abbastanza svincolati tra loro. La produzione nazionale, anche in una ipotesi di nuova espansione, resterà comunque marginale, diciamo al di sotto del 10 per cento e tale da non incidere, quindi, sulla domanda nazionale. È una risposta alle richieste del mercato, incide positivamente – come detto – sulla nostra bilancia dei pagamenti, è un elemento di maggiore flessibilità. Ma i volumi non sono tali da condizionare le scelte di approvvigionamento dall’estero. Resta quindi più che valida e necessaria la decisione di creare alternative al tubo. I rigassificatori servono e vanno costruiti. Ci stanno lavorando in Francia, Spagna, Inghilterra. Non vedo perché l’Italia dovrebbe costituire un’eccezione. |