Traffico, guida con risposte al problema dell'inquinamento
di Paolo Iora e Paolo Chiesa

Il livello di inquinamento dell’aria imputabile al traffico veicolare è un problema che col passare degli anni si è fatto sempre più preoccupante, specialmente in città che quotidianamente sono caratterizzate da livelli di traffico particolarmente elevati. Gli effetti di questo fenomeno si manifestano complessivamente lungo l’intero corso dell’anno, con punte allarmanti nei mesi invernali non già solo per il contributo aggiuntivo fornito dalle emissioni dovute al riscaldamento delle abitazioni, ma soprattutto per il verificarsi di condizioni atmosferiche favorevoli al ristagno dell’aria. Le ripercussioni negative sulla salute, in particolare sul sistema respiratorio, sono unanimemente riconosciute, tanto che da tempo vengono proposte soluzioni e attuati rimedi che sono spesso occasione di accese discussioni. Una possibile classificazione qualitativa tra i diversi provvedimenti possibili per contrastare l’inquinamento urbano dovuto ai trasporti si può effettuare distinguendo da un lato le misure di emergenza, a cui le amministrazioni comunali ci hanno abituato negli ultimi anni, e dall’altro le politiche di prevenzione. Tra queste ultime è importante il contributo proveniente dal miglioramento della tecnologia dell’abbattimento degli inquinanti direttamente sugli automezzi. Se l’incremento dei volumi di traffico (fenomeno tuttora in continua crescita, aggravato dal contingente aumento delle cilindrate dei veicoli e delle distanze medie percorse) non fosse infatti accompagnato da una contemporanea diminuzione delle emissioni specifiche per ciascun veicolo, il livello di inquinamento avrebbe certamente raggiunto proporzioni insostenibili.

IL "FLOP"
DELLE TARGHE ALTERNE

Fatta questa doverosa premessa, è a tutti noto che tra le misure di emergenza ormai abitualmente applicate in corrispondenza del superamento dei livelli di soglia, spiccano il provvedimento delle targhe alterne e i blocchi totali del traffico, detti anche “giornate a piedi”. Il fatto che si ricorra ormai sempre meno all’impiego delle targhe alterne è indice della loro comprovata scarsa efficacia. Si è constatato infatti che il flusso di automobili si riduce molto meno del 50 per cento, come vorrebbe la statistica dei grandi numeri, la quale però non tiene conto del fatto che una famiglia proprietaria di due vetture aventi targhe alterne può facilmente eludere il provvedimento. Riguardo i blocchi totali del traffico, è evidente che eliminano alla radice la causa dell’inquinamento, ma è altrettanto vero che hanno come punto debole quello di essere attuati nei giorni festivi, ossia quando il flusso di veicoli è più limitato. Per giunta l’ applicazione sporadica insinua qualche altro lecito dubbio riguardo la loro opportunità ed efficacia. Il provvedimento ha comunque il pregio di sensibilizzare i cittadini al problema dell’inquinamento, far loro conoscere i favori di una città senza traffico, apprezzare e talvolta riscoprire mezzi di trasporto, lasciati in naftalina come la bicicletta e l’andare a piedi. Al limite, fornisce per i più pigri un comodo pretesto per rimanersene in poltrona. È singolare però osservare che questi espedienti contengono una contraddizione di fondo in quanto, sebbene concepiti come soluzione da utilizzarsi nei casi di emergenza (sono provvedimenti straordinari), vengono viceversa sistematicamente impiegati come principale terapia per la cura dell’inquinamento cittadino. Si tratta quindi, per dirlo con una metafora, di voler guarire un’infezione acuta con un’aspirina, abbassando la febbre ma senza curare la ferita, causa del preoccupante innalzamento della temperatura. Diversamente le politiche di prevenzione mirano, almeno teoricamente, alla eliminazione delle cause del problema con lo scopo di fornire una soluzione completa e duratura. Al riguardo si possono identificare due scuole di pensiero che porterebbero virtualmente alla totale eliminazione dell’inquinamento da traffico urbano: l’uso massiccio dell’energia elettrica nei trasporti e l’impiego dell’idrogeno come combustibile per i veicoli. Anche se al momento entrambe giacciono nel limbo dei buoni propositi, o poco lontano, vale comunque la pena di analizzare con un minimo di dettaglio i loro tratti più significativi in modo da poter delineare un approssimativo bilancio costi-benefici.

È PIÙ EFFICIENTE
IL TERMICO O
L'ELETTRICO?

Riguardo l’uso dell’energia elettrica va anzitutto precisato che il raggiungimento della totale elettrificazione per i trasporti ha in teoria possibilità di realizzarsi a prescindere dall’impiego di veicoli di proprietà personale: si potrebbe altresì ottenere con il potenziamento dei trasporti pubblici mossi elettricamente (per esempio metropolitana e tram, treni, passanti ferroviari) al punto di chiudere alle autovetture l’intera città. Si tratterebbe evidentemente di una soluzione drastica di cui è difficile prevedere il grado di accettabilità. Limitiamoci quindi ad analizzare più convenientemente lo scenario che prevede la sostituzione delle attuali vetture con una flotta di automobili elettriche. Tali veicoli, che al momento hanno solo applicazioni di nicchia, hanno cominciato a svilupparsi più o meno contemporaneamente ai motori a pistoni, mostrando fin dall’inizio di cedere il passo ai più affermati competitori rispetto ad alcuni aspetti sostanziali: la scarsa autonomia, il peso e l’ingombro delle batterie, i lunghi tempi necessari alla fase di ricarica, il costo elevato. Per quanto riguarda il combustibile, se ricavato dalla rete domestica il kWh ha un costo che mediamente si aggira intorno ai 13-15 c€. È utile confrontare tale valore con il costo degli idrocarburi impiegati comunemente nelle vetture. Ad esempio un litro di benzina acquistato alla pompa ci costa 1.35 €, vale a dire 1,8 €/kg (essendo la massa di un litro di benzina pari a circa 0,75 kg). Con un potere calorifico di 44 MJ/kg (equivalente a 12,22 kWh/kg) si ottengono 1,8:12,22 = 0.147 €/kWh cioè praticamente lo stesso costo del kWh elettrico domestico. Diverso nei due casi è però il modo in cui il viene sfruttato. Per procedere in questa analisi serve qualche ipotesi. Consideriamo una vettura a benzina il cui motore in condizioni di funzionamento urbano, in pianura, ha un rendimento del 20 per cento e compie 12 km/litro, ossia richiede mediamente circa 750 Wh per percorrere un chilometro. Ciò significa che fatto 100 il contenuto energetico del combustibile, 20 unità energetiche sono disponibili all’albero del motore, le restanti 80 irrimediabilmente perse. Sempre per ipotesi supponiamo che di queste 20, il 10 per cento (cioè 2) venga dissipato a veicolo fermo, ad un semaforo o in coda, consumando carburante senza far avanzare il veicolo; mentre del rimanente, 1/3 (quindi 6) serva per vincere la resistenza aerodinamica e la resistenza di rotolamento dei pneumatici e i restanti 2/3 (12) siano imputabili alle inerzie, quindi proporzionali alla massa del veicolo e in ultima istanza dissipati nei freni. È facile quindi determinare che delle 100 unità energetiche disponibili solo 6 sono efficacemente impiegate per fare avanzare l’automobile, opponendosi all’attrito dei pneumatici e alla resistenza aerodinamica. Ovvio che questa ripartizione, per quanto plausibile, è comunque arbitraria e dipende sostanzialmente dalle condizioni di traffico della città. Se consideriamo una vettura elettrica possiamo assumere che delle 100 unità energetiche prese dalla rete – assumendo rendimenti in cascata di 92 per cento, 95 per cento, 85 per cento rispettivamente per il carica-batterie, per la fase di scarica (nel caso delle più efficienti e costose batterie agli ioni di litio) e per il motore elettrico – ne rimangono circa 75 disponibili all’albero motore, da confrontarsi con le 20 di prima. In questo caso inoltre non è presente la dissipazione imputabile alle soste in coda o ai semafori, dato che a veicolo fermo il motore elettrico non eroga potenza. Ne consegue che, mantenendo inalterata rispetto a prima la proporzione tra energia dispersa per le inerzie nei confronti di quella per rotolamento e attrito aerodinamico (trascurando quindi in prima approssimazione la maggiore massa del veicolo elettrico dovuta alle batterie), e ipotizzando infine di recuperare efficacemente il 10 per cento dell’energia dai dispostivi di frenata rigenerativi, si verifica facilmente che delle 100 unità energetiche, in questo caso circa 30 effettivamente contribuiscono al moto del veicolo rispetto alle 6 del motore termico. La Figura dovrebbe rendere giustizia al contorto ragionamento. Cosa vuol dire tutto questo? Che nelle ipotesi considerate, un’auto elettrica riduce di circa 5 volte la spesa per l’acquisto dell’energia necessaria per muoversi in città. Tutto però con la pesante riserva che i conti vanno rivisti a favore del motore a combustione interna nel caso in cui sia presente una richiesta di calore per il riscaldamento dell’abitacolo. Nelle tradizionali automobili, la presenza di un ciclo termodinamico avente un rendimento di conversione non unitario (solitamente dell’ordine del 15-30%) rende infatti disponibile gratuitamente il calore necessario al riscaldamento dell’abitacolo. Nei veicoli elettrici questo calore va viceversa generato per effetto Joule utilizzando l’energia accumulata nella batteria, in quantità non trascurabile rispetto all’impegno richiesto per l’avanzamento del veicolo. Val la pena di sottolineare che le conclusioni raggiunte sono viste dalla prospettiva del cittadino-automobilista che paga circa lo stesso prezzo per il kWh domestico e per quello del combustibile della propria vettura.

I CONTI CAMBIANO
PER IL SISTEMA PAESE

Diverso è il punto di vista del sistema Paese, dato che il kWh elettrico è generato dal parco di generazione termoelettrica, con rendimento medio del 40,6 per cento e trasportato con perdite del 6,4 per cento sulle linee elettriche: questo significa che in termini energetici ogni kWh utilizzato a livello domestico ne richiede circa 2,6 di energia primaria o ugualmente si può dire che viene prodotto con un rendimento medio complessivo di circa il 38 per cento. Ne consegue che se dal punto di vista del bilancio energetico del veicolo l’auto elettrica risulta ben 5 volte più efficiente di un veicolo tradizionale, un’analisi well-to-wheel la rende invece superiore di sole due volte. La cosa si può facilmente verificare moltiplicando i valori riferiti al veicolo elettrico della Figura 1 per 0,38 e poi riconfrontandoli con il caso del veicolo tradizionale sempre nella stessa figura. Se quindi – con tutte le limitazioni del caso – da un punto di vista dell’efficienza di conversione e degli oneri legati alla spesa del combustibile i veicoli elettrici risultano preferibili, è evidente che esistono altri aspetti determinanti che ne hanno ostacolato e continuano ad ostacolarne la diffusione. Verrebbe facile infatti fare dell’ironia sul dimensionamento del sistema di batterie di accumulo corrispondente, dal punto di vista del contenuto energetico, ad un serbatoio da 30-40 litri di benzina: con la tecnologia attualmente a disposizione, tale soluzione sarebbe insostenibile in termini di costi, peso e ingombro. È vero d’altra parte che nel contesto della mobilità cittadina può bastare molto meno, tanto che 100 km di autosufficienza possono in linea di massima risultare adeguati. Coerentemente con il ciclo urbano considerato nel confronto precedente si può verificare che l’auto elettrica viaggia a circa 165 Wh/km, il che richiederebbe una capacità di accumulo di circa 16,5 kWh. Tale valore convenientemente aumentato del 20 per cento – per cautelarsi rispetto a valori eccessivi della profondità di scarica (deleteri per la durata delle batterie) e all’eventualità di un considerevole consumo di ausiliari – porta ad una capacità di accumulo complessiva di circa 20 kWh. Ciò si traduce, nel caso delle già citate batterie agli ioni di litio, in una previsione di costo di 3-4.000 € (inferiore a quello attuale ma certamente raggiungibile in caso di una certa diffusione della tecnologia), un peso di circa 150 kg ed un ingombro di circa 100 litri. Numeri a prima vista non certo impressionanti ma che lo possono diventare in una seconda analisi se si considera che:
• la fase di ricarica, da effettuarsi nottetempo con durate di circa 5-7 ore, seppure non particolarmente gravosa per chi possiede un garage, diventa un problema di difficile soluzione in città ad altissima densità urbana dove un box per l’auto è un lusso di cui molti non possono disporre;
• è ragionevole considerare per le batterie una vita utile pari a circa 1.000 cicli di ricarica, che comporta invariabilmente, nel caso di un uso quotidiano della vettura, la sostituzione delle stesse dopo circa 3-4 anni;
• l’impossibilità di escursioni con gittata superiore ai 50 km vincola l’utilizzo della vettura strettamente all’ambito urbano e richiede quindi il possesso di una seconda automobile di stampo tradizionale per compiere tragitti di chilometraggio superiore.
Ecco quindi qualche buona ragione per privilegiare i tradizionali motori, cosa che avviene regolarmente nella pratica. Si noti incidentalmente che alcuni degli aspetti negativi potrebbero essere tranquillamente superati senza rivoluzioni tecnologiche. Ad esempio, attraverso una maggiore diffusione del car-sharing. Questa pratica consente di noleggiare un’automobile ogni volta che serve, scegliendola sulla base delle esigenze di utilizzo: si potrebbero quindi creare flotte di vetture elettriche assegnate agli spostamenti urbani e destinare i veicoli tradizionali agli spostamenti di lunga tratta.

IDROGENO: UN'ALTERNATIVA
ANCORA OGGI IMPEGNATIVA

Non che l’idrogeno dia risultati al momento più confortanti. Tanto per cominciare esso presenta, per via delle sue proprietà fisiche, delle serie difficoltà nell’immagazzinamento a bordo del veicolo che lo utilizza. Sono infatti possibili due alternative entrambe impegnative: idrogeno gassoso a pressioni elevate (ad esempio 200 bar, come si fa per il metano) e idrogeno liquido a temperature criogeniche. Per avere la stessa quantità di energia stoccata, rispetto alla benzina, il volume del serbatoio va però moltiplicato nel primo caso per 16,6 volte; nel secondo per 3,6 rendendo la via dell’idrogeno gassoso realisticamente impraticabile, a meno di spingere la pressurizzazione a valori molto elevati (600-700 bar). Si è visto poi che nei veicoli elettrici la scarsa capacità di stoccaggio è parzialmente compensata dal migliore rendimento di conversione in energia meccanica. Ebbene, tale discorso non è applicabile all’idrogeno nel caso venga bruciato in un motore a combustione interna di rendimento paragonabile a quelli che impiegano benzina o gasolio; in alternativa sono allo studio vetture dotate di celle a combustibile che a loro volta alimentano un motore elettrico, nel qual caso si potrebbe raggiungere un rendimento di conversione del 40 per cento. La tecnologia delle celle a combustibile tuttavia non è al momento competitiva in termini di vita utile e costi, mentre lo sarebbe quella del motore alternativo, con costi paragonabili a quelli dei motori tradizionali. Vantaggioso rispetto all’auto elettrica è il fatto che non esistono limitazioni riguardanti le richieste di energia cogenerata, poiché sia il motore a combustione interna alimentato ad idrogeno sia - potenzialmente - le celle a combustibile rendono disponibile il calore necessario a riscaldare l’abitacolo. Riguardo i costi del combustibile, un autorevole studio (Ennio Macchi, “Dall’economia del petrolio a quella dell’idrogeno”, settembre 2003, Milano), predice prezzi alla pompa - sia nel caso di idrogeno liquido che gassoso - circa doppi rispetto agli attuali prezzi al consumo (al netto delle imposte) di benzina e gasolio, fatto che renderebbe percorribile la via dell’idrogeno nel settore trasporti (specie se ciò portasse a una riduzione dei consumi dei veicoli) eventualmente con l’ausilio di un qualche sostegno incentivante. Certamente giustificabile alla luce del beneficio che la comunità trarrebbe dall’assenza di inquinamento locale. Tale risultato è però riferito ad una condizione di funzionamento a regime che prevede la produzione centralizzata di idrogeno in grandi impianti, al momento inesistenti, e una rete di distribuzione adeguata alle richieste di un parco veicolare alimentato per il 20 per cento da idrogeno. Ipotesi che per essere tradotta in fatti necessita dei dovuti investimenti e tempi di realizzazione.

LA "TERZA VIA"
DELLA TRAZIONE IBRIDA

Si può concludere quindi che per l’auto elettrica, pur essendo disponibili le infrastrutture in grado di fornire energia a costi competitivi, esistono pesanti limiti legati all’accumulo sia in termini di autonomia sia di costi; mentre per l’idrogeno, oltre alle criticità legate all’accumulo, sono soprattutto la mancanza delle infrastrutture necessarie alla sua distribuzione e gli aspetti legati alla sua produzione su larga scala a proiettarne un suo eventuale massiccio utilizzo assai in avanti nel tempo. Sembra quindi che gli idrocarburi liquidi dal punto di vista sia della capacità di accumulo di energia sia della semplicità e rapidità di rifornimento non abbiano rivali come vettori energetici nell’ambito della trazione: difficile quindi aspettarsi che possano essere soppiantati da idrogeno o elettricità nel breve periodo. Tuttavia, poiché come osservava Keynes, “nel lungo periodo saremo tutti morti” forse è il caso di valutare se qualche soluzione sia disponibile già da subito.

ESISTE
UN'INTERESSANTE ALTERNATIVA,
CHE COSTITUIREBBE "L'UOVO D'OGGI"
NELL'ATTESA (FIDUCIOSA)
DELLA "GALLINA DI DOMANI"

Esiste in realtà un’interessante alternativa che, pur non risolvendo completamente il problema dell’inquinamento, ne può certamente ridimensionare le proporzioni; costituirebbe cioè “l’uovo d’oggi” nell’attesa (fiduciosa) della “gallina di domani”. Da qualche anno è infatti in produzione da parte di due diverse case automobilistiche – ed è quindi acquistabile con la stessa facilità di un altro generico modello di autovettura – un veicolo a propulsione ibrida alimentato a benzina che utilizza componenti tecnologicamente maturi e quindi disponibili a prezzi concorrenziali. L’idea è concettualmente piuttosto semplice e consiste nell’abbinare un motore a combustione interna (motore primo) ad un motore elettrico alimentato da batterie alloggiate sul veicolo. Il vantaggio che ne deriva è che, a fronte di un aumento del peso complessivo, il motore elettrico è in grado di assistere o al limite sostituire quello termico in situazioni, come il funzionamento ai carichi ridotti, in cui il rendimento del motore primo risulta particolarmente modesto; a questo si aggiunge la possibilità di recuperare energia nelle decelerazioni del veicolo. Dal momento che l’energia necessaria al movimento può essere indifferentemente fornita dal motore termico o da quello elettrico, il sistema di controllo di cui è dotato il veicolo è in grado di stabilire la modalità di funzionamento più efficiente a seconda delle situazioni di guida. Se in normali condizioni di marcia è il motore primo a fornire la potenza necessaria al moto della vettura, nel caso di traffico intenso, caratterizzato da frequenti avvii e condizioni di marcia a basso carico, la potenza proviene dal motore elettrico alimentato dalle batterie, con il motore termico chiamato a lavorare a potenza costante solo per la loro ricarica. I vantaggi di questa soluzione applicata al contesto urbano sono notevoli da diversi punti di vista:
• è risaputo che il motore ad accensione comandata garantisce emissioni considerevolmente più basse di NOX rispetto agli ormai popolari motori diesel che, lavorando con elevati valori di eccesso d’aria, impediscono il loro abbattimento in catalizzatori trivalenti come invece avviene nel caso di propulsori a benzina. Il beneficio riguarda inoltre le emissioni di particolato fine, virtualmente nulle in un motore a benzina ma che necessitano, per essere rimosse nei veicoli alimentati a gasolio, di un filtro anti-particolato che ha un incidenza non trascurabile sul costo complessivo della vettura;
• è lecito considerare una sensibile riduzione anche per gli altri inquinanti in virtù del maggiore rendimento di conversione, anche se sarebbe semplicistico e inesatto valutare tale diminuzione in modo esattamente proporzionale alla frazione di combustibile non consumato (come è noto infatti, la quota prevalente di inquinanti viene emessa nei primi minuti di funzionamento del motore, quando le basse temperature operative non garantiscono l’efficacia dei dispositivi preposti all’abbattimento dei composti tossici);
• l’assistenza offerta dal motore elettrico consente un funzionamento più regolare di quello termico, con i conseguenti vantaggi in termini di consumi ed emissioni. Questa superiorità è particolarmente evidente in ambito urbano dove il traffico determina generalmente un funzionamento del propulsore a carichi ridotti e assai variabili, condizioni che concorrono a elevare emissioni e consumi nei veicoli tradizionali. Percorrenze di 12-13 chilometri/litro sul ciclo di guida urbano sono tipici dei veicoli a propulsione tradizionale, contro i circa 20 km/litro raggiungibili da una vettura a trazione ibrida;
• il peso e l’ingombro delle batterie non costituiscono un aspetto critico dal momento che su di esse non grava l’intera autonomia della vettura (sono sufficienti circa 70 kg ). La vettura è infatti munita di un serbatoio per lo stoccaggio della benzina il cui rifornimento avviene con la stessa modalità delle comuni automobili.
Il prezzo di listino della più popolare vettura ibrida (Toyota Prius) si attesta in Italia intorno a 25.000 euro, da confrontarsi con i circa 20.000 euro di un modello tradizionale a benzina con prestazioni simili, rispetto al quale è tuttavia legittimo attendersi un risparmio sulle spese per il carburante. Nel caso ipotetico di un automobilista che percorra 80 km/giorno in ambito urbano o suburbano per recarsi sul luogo di lavoro (per circa 200 giorni all’anno), la vettura ibrida (percorrendo 20 km con un litro di benzina) permette un risparmio annuo di circa 530 litri di carburante rispetto ad una vettura a benzina di pari prestazioni (che viaggia però a 12 km/litro), con un risparmio di circa 720 euro. È immediato verificare che si ottiene la stessa spesa complessiva (investimento + combustibile) per le due vetture, ipotizzando una vita utile di circa 7 anni, valore elevato ma assolutamente non inverosimile. Ancora più vantaggioso risulta il confronto con un veicolo a gasolio, che pur presentando consumi inferiori e prezzo del carburante più basso rispetto ad uno a benzina, risulta gravato da un maggior costo di acquisto (assunto pari a 23.000 euro). Nelle ipotesi precedenti la vettura a trazione ibrida consegue un risparmio annuo di circa 500 euro sul carburante rispetto a una diesel, consentendo di recuperare la differenza sul prezzo di acquisto in circa 4 anni. I risultati fin qui ottenuti portano inevitabilmente a concludere che la soluzione dei veicoli ibridi, ormai tecnologicamente matura ed economicamente competitiva, è in grado di fornire una parziale ma importante risposta nel breve termine ai problemi di inquinamento delle grandi città; questo nell’attesa che una soluzione risolutiva - basata sull’energia elettrica, l’idrogeno o su qualsiasi altro mezzo - divenga praticabile. Sconforta invece osservare che i veicoli ibridi abbiano, almeno in Europa, una penetrazione ancora molto marginale. Viene allora naturale chiedersi per quale ragione non esistano attualmente sostegni economici volti a favorire la diffusione di questa tecnologia, laddove una politica incentivante (aspetto non certo estraneo alla cultura del nostro Paese) sarebbe pienamente giustificata e sostenibile qualora il contributo concesso fosse commisurato ai costi sociali evitati derivanti dal miglioramento della qualità dell’aria. Ugualmente, è singolare notare che tra le numerose case automobilistiche che operano sul mercato italiano, siano soltanto due ad aver sviluppato e a rendere disponibile i modelli ibridi, i quali peraltro risultano inspiegabilmente assai poco reclamizzati. Si tratta di aspetti, questi ultimi richiamati, che ostacolano la diffusione di una tecnologia che merita indubbiamente una maggiore considerazione.