Verso Copenhagen in un "clima" incerto

di G. B. Zorzoli


Le chiacchiere non fan farina, recita un arguto proverbio toscano, che i reggitori della cosa pubblica sembrano ignorare quando parlano di lotta ai cambiamenti climatici. Eppure l’anno di grazia 2009 doveva essere quello della svolta.
Iniziato a gennaio con l’insediamento a Washington di Barack Obama che della green revolution aveva fatto uno degli assi portanti del proprio programma di governo, si dovrebbe concludere a dicembre a Copenhagen con la COP15, la quindicesima United Nations Climate Change Conference, nelle intenzioni destinata a disegnare gli impegni da assumere nel 2012, al termine dell’arco temporale di valenza del protocollo di Kyoto.
Il condizionale, purtroppo, è d’obbligo, visto che il responsabile americano dei negoziati sul clima, Todd Stern, preferisce addirittura non condensare nella formula post-Kyoto gli impegni che si dovrebbero assumere a Copenhagen, perché The Europeans have a particulary warm affection for Kyoto but we don’t.
Frase ipocrita di stampo vittoriano, pronunciata per non essere costretto ad ammettere che la maggioranza dei legislatori americani (e dei loro elettori) non è disposta ad accettare vincoli in materia che siano imposti da accordi internazionali.
Non ha di queste remore Joe Manchin, governatore democratico del West Virginia, Stato carbonifero per eccellenza, che si è scagliato con una virulenza finora appannaggio solo di esponenti repubblicani contro la proposta di un meccanismo di cap-and-trade per le emissioni di anidride carbonica.
Al di là delle dichiarazioni più o meno folcloristiche, resta il dato incontrovertibile di uno stallo di fatto degli sforzi dell’amministrazione Obama volti a fare approvare una legislazione che traduca in pratica una strategia energetica avente un duplice effetto: da un lato, efficace contrasto ai cambiamenti climatici, dall’altro motore di sviluppo dell’economia e dell’occupazione.

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