Clavarino: "Per il carbone il 2003 non sarà nero"


Dopo l'11 settembre 2001 le problematiche legate alla sicurezza degli approvvigionamenti energetici sono tornate in auge. Accanto al petrolio, da sempre annoverato tra le fonti a rischio, nella classifica degli "osservati speciali" ha fatto la sua comparsa anche il gas. A livello internazionale il 2003 si apre dunque con il proposito di studiare nuovi strumenti per rendere più equilibrato il mercato dei combustibili liquidi (attraverso l'adeguamento degli stock e un più stretto dialogo coi Paesi produttori) ma anche con l'istituzione di un comitato per la valutazione dei problemi inerenti il gas. E il carbone? A ben vedere la forza di questo combustibile solido potrebbe derivare proprio dalla debolezza delle altre due alternative. Soprattutto in questa fase il carbone sembra infatti avvantaggiarsi particolarmente dei "demeriti" di petrolio e gas; o meglio della politica energetica adottata in Italia nei confronti di queste due fonti.
Andrea Clavarino, presidente di Assocarboni e di Euriscoal, l'associazione dei produttori europei di settore, mette i numeri sul tavolo; e sono cifre che meritano attenzione.

Ci avevano parlato così bene del gas...
La questione non ha a che vedere con il gas, ma con l'eccessiva vulnerabilità del sistema Occidentale. Già oggi la nostra dipendenza dall'estero è molto elevata e in proiezione dovrebbe raggiungere le soglie dell'80 per cento entro i prossimi 20-30 anni, con un ruolo dominante proprio a carico del gas naturale. Se leggiamo questi dati sotto un' altra ottica, vuol dire affidare alla Russia e all'Algeria - non proprio le realtà più stabili del mondo - le "chiavi" del nostro futuro energetico.
Per questo la Commissione Europea sta cercando di siglare un patto di cooperazione con la Russia, che vada al di lˆ di un semplice rapporto fornitore-cliente come avviene attualmente. In questo con testo generale l'Italia ha una posizione ancora più sbilanciata; è la nazione più dipendente dall'estero tra i Paesi Ocse, con il 70 per cento del fabbisogno energetico coperto da gas e petrolio. Nel 2006, con le riconversioni in atto, il solo gas naturale dovrebbe assicurarsi uno share del 60 per cento tra le fonti utilizzate per la produzione di elettricità. Questo si traduce in una assoluta debolezza nei confronti delle variazioni che intervengono sui mercati delle materie prime.

Proviamo a dare qualche numero.
Un aumento di 10 dollari a barile del prezzo del greggio comporta in Italia una crescita del 38 per cento della bolletta energetica; gli stessi 10 dollari comportano un ritocco della bolletta di un privato o di un'azienda francese solamente pari al 3 per cento. Gli aumenti sarebbero contenuti al 6 per cento in Gran Bretagna, al 12 in Germania, al 18 in Spagna. Se confrontiamo le tariffe italiane del 1° bimestre 1996 con il IV° trimestre 2002, scopriamo un aumento della componente dovuta all'acquisto del carburante pari al 72 per cento, a fronte di una diminuzione del 25 per cento della tariffa base di pertinenza delle imprese elettriche.

Una soluzione potrebbe essere quella di incrementare le importazioni, magari proprio da quei Paesi partner europei che meno dipendono dalle fonti fossili. Se ne parla da tempo.
Per quanto riguarda le importazioni di energia elettrica in Italia l'indice di dipendenza dall'estero è al momento pari al 15 per cento. Ed è già il più alto d'Europa (dopo di noi si posiziona l'Olanda con l'11 per cento). La Francia non ha praticamente alcuna importazione, il Belgio si ferma al 5 per cento, la Spagna al 2, l'Inghilterra al 4, la Germania allo 0,10. Recentemente il GRTN ha comunque raffreddato gli entusiasmi di chi scommetteva su questa soluzione dichiarando che oltre questo livello è difficile poter andare, tanto più se non verranno realizzati nuovi elettrodotti. In ogni caso anche le grandi imprese straniere si sono fatte furbe e dunque ormai vendono il loro kWh a un differenziale di prezzo minimo rispetto a quello prodotto in Italia.

E le rinnovabili?
Siamo aperti sostenitori delle rinnovabili e dell'economia dell'idrogeno. Ma siamo anche convinti che basare solo su questo le nostre aspettative sarebbe illusorio. D'altra parte in Europa, ma anche nel resto del mondo, l'Italia può già vantare una posizione di assoluto livello per la diffusione delle fonti rinnovabili, considerando ovviamente a nche il grande idroelettrico.

Insomma, non ci resta che il carbone...
Almeno per le conversioni in atto deve essere una soluzione presa in considerazione, se non si vuole rendere ancora più squilibrato il mix attuale. Si tratta di una scelta, a nostro avviso, necessaria da un punto di vista economico e politico, che può essere comunque considerata ambientalmente compatibile. Ci sono nazioni con una coscienza ecologica superiore alla nostra, come la Danimarca, l'Olanda, la Germania dove il carbone è molto più diffuso e dove proprio negli ultimi mesi si parla di un rilancio di questa fonte.

Qual è il vostro obiettivo, e quali conseguenze avrebbe sul bilancio ambientale dell'Italia?
Se potessimo arrivare a un 25 per cento di share (e sarebbe comunque la metà degli Stati Uniti e dell'Olanda, e meno della Gran Bretagna) avremmo subito un beneficio sulla bolletta di quasi 2,1 miliardi di euro l'anno. L'offerta della materia prima è abbondante e garantita da oltre 100 Paesi. Da questo punto di vista è l'unico combustibile vera mente democratico mentre per il petrolio c'è un cartello e il gas ragiona in termini di oligopoli. Di fatto il mercato italiano è in mano a due sole società: la Gasprom e la Sonatrac. Guardando ai prossimi anni, se una delle due decidesse, da un giorno con l'altro, di chiudere il rubinetto, quasi il 20 per cento del nostro fabbisogno energetico verrebbe ad essere privo di copertura. Per l'Italia la situazione è ancora più grave, data la sua scarsa capacità in termini di rigassificazione.

O gasdotti o niente?
Purtroppo sì, anche se si sta cercando di porvi rimedio. L'alternativa al gasdotto, ovvero liquefare il gas nel porto di partenza per poi rigassificarlo in quello di destinazione, è molto gettonata in altri Paesi, pur essendo più costosa, proprio perché svincola dall'infrastruttura fissa del gasdotto. Da noi, purtroppo, questa capacità è ridotta al 6 per cento del fabbisogno totale di gas quando la Grecia arriva al 100 per cento, la Spagna all'88 per cento, la Francia al 50 per cento, il Portogallo al 60 per cento (quando verranno ultimati i programmi di costruzione attualmente in atto), il Belgio al 39 per cento.

A questo punto dove arriverà plausibilmente il carbone?
Sono convinto che per il 2007 ci si possa effettivamente avvicinare alla soglia del 25 per cento. La riconversione di un impianto richiede circa 3 anni e le centrali potenzialmente interessate da questo processo non mancano. Basti pensare all'Enel di Civitavecchia.

Resta pur sempre aperta la questione ambientale.
Anche in questo caso occorre fare dei distinguo e superare la visone emozionale del carbone come materiale sporco e inquinante. Gli elementi in gioco sono molti.

Partiamo dall'anidride carbonica.
L'utilizzo di carbone in Italia incide sulle emissioni globali solamente per lo 0,1 per cento. Si può stimare, per sommi capi, che a parità di kWh prodotti le emissioni di CO2 di una centrale a carbone siano doppie rispetto a quelle di un impianto a gas. Ciò significa che una ipotetica riconversione di tutto il parco a carbone a gas produrrebbe a livello mondiale un beneficio dell'ordine dello 0,05 per cento.

Il discorso vale anche se si considera l'intero ciclo vitale, dal pozzo al camino?
Vale a maggior ragione. Di recente l'Istituto di ricerca sull'energia di Monaco ha valutato la catena di tre filiere energetiche: gas naturale estratto e importato dalla Russia, carbone di importazione e carbone "povero" estratto in Germania e bruciato in una centrale in loco. Ebbene, le emissioni finali in termini di CO2 hanno mostrato variazioni solo marginali. E questo tenendo conto che per il gas è stato considerato un impianto con efficienza pari al 56 per cento, che in Italia non è certo lo standard. Alla fine, quindi, lungo tutto il ciclo vitale le differenze sono minori di quanto segnali la rilevazione al camino. Inoltre quando si parla di impatto ambientale non bisogna mai trascurare i possibili effetti di un incidente durante il trasporto. Dei rischi delle petroliere si sa, le navi gassiere possono esplodere. Se una nave che trasporta carbone va a fondo non ci sono di fatto conseguenze.

Il carbone non è poi così nero come sembra, allora?
Per certi versi il problema può essere circoscritto all'aspetto visivo: nelle vicinanze di un impianto i panni stesi, da molti portati ad esempio di un'aria irrespirabile, diventavano neri più durante le fasi di stoccaggio della materia prima che non di utilizzo. Oggi tutte le fasi di trasporto, stoccaggio e alimentazione degli impianti avvengono al coperto; molti degli impatti si sono quindi ridotti. Certo, da questo punto di vista il gas è avvantaggiato: viaggia nei gasdotti e nessuno lo vede... Al di là di queste considerazioni emozionali va detto che oggi le centrali italiane hanno raggiunto un livello di efficienza pari al 39 per cento rispetto alla media europea del 35 per cento. Per il 2020 si stima che l'Unione europea possa arrivare alle soglie del 40 per cento e ciò dimostra che siamo molto vicini all'obiettivo, con parecchi anni di anticipo. Già oggi, 8 delle 11 centrali a carbone (in termini di potenza installata l'84 per cento del totale) sono certificate Emas. Per la fine del 2003 gli interventi di ambientalizzazione permetteranno di ridurre i livelli di emissione, rispetto ai valori del 1997 dell'80 per cento (per quanto riguarda gli SO2), dal 60 per cento (per gli NOx), del 75 per cento (per le polveri). Addirittura il recupero delle ceneri dovrebbe raggiungere il 100 per cento.

La gente, però, continua a non vedere di buon occhio questa fonte.
E' vero fino a un certo punto. Gli ultimi sondaggi che abbiamo condotto presso le popolazioni che vivono attigue a una centrale a carbone hanno dimostrato che ben pochi ne vorrebbero la chiusura, dopo aver "convissuto" con una realtà meno brutta di quanto sembrava in un primo momento. Il problema energetico è complesso e dunque è complessa la risposta: non ne esiste una sola e non si può cercare di rispondere con una sola fonte. Il carbone non pretende di essere "la" risposta ma deve certamente essere "una" delle risposte.

Il 2003, dunque, sarà l'anno del carbone?
Sì, a livello europeo sto notando un'attenzione crescente. Molti stanno rivalutando questa fonte e le stanno restituendo la dignità che le spetta. Le tecnologie per ridurre al minimo gli impatti ambientali ci sono, basta applicarle. E' chiaro che non bisogna prendere come esempio quelle nazioni, come la Cina, che per motivi di costo si accontentano di una efficienza del 22 per cento anche accettando innegabili maggiori impatti ambientali. Dunque ci sono tutte le condizioni per dare nuovo spazio a questo combustibile fossile. Le valutazioni economiche che abbiamo fatto fino a qui si riferivano a miglioramenti tecnologici "brown field", ovvero alla riconversione di impianti già esistenti. Basta solo volerlo. Più difficile - e anche più costoso - è concepire un impianto da zero. In questo caso l'investimento può essere quantizzato in 800 mila euro per MW rispetto ai 400 mila di una centrale a ciclo combinato. Per il momento, dunque, stiamo lavorando sulla riconversione con un solo progetto importante "green field", l'impianto di Cairo Montenotte vicino a Savona, che prevede la riconversione di un sito industriale e avrà una potenza di 400+400 MW. L'approvazione del progetto è prevista per la fine del 2003.

Il sistema portuale italiano è pronto ad accogliere un ipotetico aumento della domanda di carbone?
Ci sono porti abilitati ad accogliere navi da 150 mila tonnellate. Ciò significa che una trentina, massimo cinquanta navi all'anno (con tempi di scarico non superiori ai quattro giorni) potrebbe supportare tutta la domanda aggiuntiva in un'ipotesi di riequilibrio delle fonti. Non bisogna dunque prefigurarsi uno scenario che veda le rotte navali "intasate" dai trasporti di carbone.