L'Irak sul fronte del cambiamento
di Davide Canevari

La defenestrazione del regime di Saddam Hussein da parte di una coalizione guidata dagli Stati Uniti e dal Regno Unito costituisce un fatto di enorme peso geopolitico. Le ripercussioni di questo evento non solo su tutto lo scacchiere del Medio Oriente ma in genere sulle relazioni internazionali, sul ruolo delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea, già molto rilevanti nella fase che ha preceduto il conflitto, continueranno a farsi sentire anche nel medio termine.
I fattori di novità sono numerosi e di notevole spessore sia sul piano militare che su quello politico.
Sul piano militare si è osservato un nuovo modello di utilizzo della forza che gli specialisti del settore non hanno mancato di mettere in luce e che è schematizzabile in una fortissima sinergia tra le componenti terrestri e quelle aeree e nell’avvio delle operazioni senza una lunga fase preparatoria di bombardamenti aerei, secondo il modello che aveva caratterizzato l’avvio della guerra per la liberazione del Kuwait. Questa nuova strategia, anche di fronte ad un avversario, che non si è sfaldato al primo colpo, secondo le aspettative più ottimistiche, ha avuto un indubbio successo anche per i danni relativamente limitati che ha inferto alle infrastrutture civili e militari nonché al settore petrolifero.

Sul piano politico le fratture con il passato sono anch’esse molto vistose: l’intervento è infatti stato deciso non solo senza un mandato esplicito delle Nazioni Unite, che avevano trovato il consenso per minacciare gravi conseguenze per l’Irak nell’ipotesi di possesso di armi di distruzione di massa, ma che non si erano trovate d’accordo nella valutazione dei risultati delle ispezioni avviate sul territorio iracheno. La difficoltà a trovare un accordo nell’ambito delle Nazioni Unite non costituisce peraltro un elemento di novità nell’attuale assetto istituzionale di quella organizzazione che rende molto difficile l’adozione di risoluzioni

Ben più grave è stata la frattura tra Stati Uniti, Regno Unito ed un gruppo di nazioni della Nato, tra cui l’Italia, sia pure con atteggiamenti diversificati, ed un gruppo di paesi nettamente contrari all’azione militare come la Francia, la Germania e la Russia, nazioni che, a vario titolo, hanno sempre avuto profonde relazioni economiche e politiche con l’Irak.
Queste fratture certamente avranno un peso nel processo di ricostruzione dell’assetto economico e politico del nuovo Irak, così come la mancanza di una opposizione organizzata al regime iracheno che ha reso quanto meno più complesso il compito delle forze americane ed inglesi, che non hanno potuto contare, almeno nella prima fase del conflitto, sull’insurrezione della popolazione locale, anche se, in larga maggioranza, ostile al regime.

Emblematico in proposito appare l’esempio della città di Bassora dove gli abitanti, in prevalenza sciiti, memori del tragico epilogo della rivolta scoppiata al termine della guerra del Golfo, che fu abbandonata a se stessa dalle truppe della coalizione intervenute per liberare il Kuwait. hanno esitato a schierarsi con le truppe inglesi impegnate a vincere la dura resistenza dei fedeli di Saddam Hussein.
In questo, come in altri casi, la popolazione locale ha preferito attendere maggiore chiarezza sulla evoluzione del conflitto prima di prendere posizione esplicita, rendendo inattuabile lo scenario più ottimistico della guerra lampo e del collasso quasi automatico del regime.

Nonostante queste difficoltà le capacità militari della coalizione hanno comunque raggiunto il primo degli obiettivi prefissati, che consisteva nella caduta di un sistema politico con il quale le possibilità di dialogo venivano considerate ormai precluse.
Ed è ormai sul futuro di questo paese che è concentrata l’attenzione e l’iniziativa politica delle nazioni che hanno assunto la leadership dell’intervento e sulle quali pesa la non facile responsabilità di attuare le prime mosse del processo di ricostruzione che dovrebbe avvenire secondo regole del tutto nuove anche per assicurare l’ opinione pubblica del mondo arabo. La qualità e la direzione di questo processo sono fondamentali non solo sul piano interno ma anche sul piano internazionale, dove occorre ristabilire un rapporto costruttivo con le Nazioni Unite, come istituzione, e con i Paesi che fino allo scoppio delle ostilità hanno manifestato il loro profondo dissenso. Il futuro dell’Irak si intreccia strettamente con l’assetto delle relazioni internazionali non solo nell’ambito del Medio Oriente ma in ambito ancora più vasto che si estende all’intero mondo islamico.

Il ruolo dell’Irak, che vanta grandi tradizioni storiche e culturali, è andato progressivamente riducendosi a partire dal 1980, quando la lunga guerra con l’Iran portò ad un primo dimezzamento del reddito pro capite dal livello di 3700 $ del 1980 ai 2700 $ del 1990.
Questa spirale negativa è continuata con la disastrosa invasione del Kuwait che ha comportato, in presenza di una persistente sensibile crescita demografica,ad una ulteriore riduzione del livello di vita negli ultimi anni, per i quali non sono nemmeno disponibili statistiche in formato internazionale.

Nonostante un potenziale di riserve di greggio di oltre 110 miliardi di barili, paragonabile a quello dell’Arabia Saudita (oltre 260 miliardi di barili), il ruolo dell’Iraq come produttore e come membro dell’Opec, a partire dagli anni ’80, si è andato progressivamente riducendo. Dopo l’invasione del Kuwait, l’Irak è stato confinato al ruolo di venditore di greggio in cambio di prodotti essenziali, sotto il controllo delle Nazioni Unite secondo lo schema “Oil for Food”, mentre l’embargo sui beni industriali portava ad un deterioramento del settore petrolifero specie relativamente all’attività di ricerca e sviluppo di nuove risorse. Questo lungo periodo di declino non ha però compromesso le potenzialità del Paese, che rimangono molto ampie per una popolazione di oltre 23 milioni di abitanti. Un suo rientro sulla scena internazionale ne può fare, in una prospettiva di medio termine, un attore importante in campo politico.economico e petrolifero.

La umiliante condizione di sovranità limitata vissuta negli ultimi anni dovrebbe cessare con la costituzione di un nuovo governo eletto democraticamente al termine di una delicata fase di transizione che, tra l’altro, dovrebbe assicurare una qualche forma di equilibrio istituzionale tra le popolazioni curde del Nord, la minoranza sunnita, che finora aveva dominato il Paese e che vive, per lo più, nel centro e nell’area di Baghdad, e la popolazione sciita del sud.
La sfida è molto difficile ma gli interessi e la posizione strategica lasciano ipotizzare che anche l’impegno per la ricostruzione sarà adeguato.
D’altra parte, dopo gli eventi dell’11 settembre la percezione della precarietà degli equilibri geopolitici tradizionali è enormemente aumentata sino a capovolgere, specie nella visione degli Stati Uniti, la filosofia del mantenimento dello status quo come migliore risposta ai pericoli di destabilizzazione politica ed economica dell’area Medio-orientale.

Questo nuovo approccio, di cui l’Iraq potrebbe essere il primo esempio, apre scenari del tutto nuovi, che si andranno meglio delineando non appena il conflitto sarà definitivamente concluso e si preciserà meglio il ruolo dei vari attori coinvolti, a partire da quello delle Nazioni Unite evocato anche dal recente vertice dei ministri finanziari del G7.