De Vita: “Pronti a fare la nostra parte, nonostante tutto...”

di Marta Sacchi

Pasquale De Vita, presidente Unione Petrolifera
Negli ultimi dodici mesi molte cose sono accadute. I mercati petroliferi sono stati al centro di tensioni fortissime. L’incertezza regna ancora sovrana e in queste condizioni è difficile capire cosa potrà accadere. Come vedete il futuro dei mercati energetici?
L’ultimo anno è stato un periodo molto difficile per tutti. Sono emersi nuovi problemi che richiedono un nuovo approccio e nuove risposte. Solo con una visione chiara e condivisa dei problemi che ci attendono si potranno individuare linee d’azione efficaci che rispondano alle future necessità energetiche del Pianeta, che tenderanno ad aumentare e non certo a diminuire. Molto si è scritto sulle origini della situazione attuale e altrettanto si è fatto sui possibili rimedi. Tuttavia, non c’è ancora accordo sui tempi di uscita dalla crisi: c’è chi parla del prossimo autunno, chi invece della fine del 2010. Va tuttavia rilevato che i segnali che arrivano dalle principali variabili macroeconomiche non inducono all’ottimismo. Stando agli ultimi dati, nel 2009 la domanda di petrolio dovrebbe essere inferiore di 2-3 milioni barili/giorno rispetto al 2008, ossia più del doppio di quanto previsto solo dodici mesi fa.

Qualche timido segnale di ripresa si è visto in questo ultimo periodo...
Sì, con un barile a fine giugno tornato a sfiorare i 70 dollari, l’89 per cento in più dei valori di inizio anno. Più per motivi finanziari – però - che reali, data la persistente debolezza della domanda. Secondo l’Opec, ci vorranno infatti anni per tornare sui livelli di domanda del 2008. Ma ciò che colpisce di più e preoccupa è l’estrema volatilità delle quotazioni del petrolio e dei prodotti raffinati che stentano a trovare un loro punto di equilibrio che invece sarebbe utile e necessario per garantire gli investimenti di cui si ha urgente bisogno. Un’esigenza sentita sia dai Paesi consumatori che da quelli produttori, di cui si continua a parlare nei consessi internazionali, che può senz’altro essere auspicabile, ma che credo sia di difficile implementazione. Troppo diversi gli interessi in gioco.

Mi sembra di capire che ci sono ancora molti problemi da superare per rendere meno incerto il futuro. Cosa sarebbe necessario? Quali le priorità?
È innegabile che l’attuale congiuntura tenda a scoraggiare gli investimenti in nuova capacità, soprattutto in quei progetti che presentano costi di produzione elevati. L’industria petrolifera è consapevole della necessità di continuare ad investire nonostante tutto ed è pronta a farlo. Ciò per il semplice motivo che, a prescindere dalla situazione contingente di cui non bisogna diventare ostaggio, nei prossimi anni ci sarà bisogno di più petrolio e di più gas. Nel 2009, a livello mondiale, la spesa complessiva in esplorazione e produzione dovrebbe attestarsi intorno ai 400 miliardi di dollari, un valore che è circa il doppio di quanto investito nel 2005. Secondo una stima dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, infatti, per il solo mantenimento dell’attuale produzione di petrolio convenzionale e per coprire il declino dei campi maturi, entro il 2030 sarà necessario attivare nuova capacità per 45 milioni barili/giorno, ossia più di cinque volte la produzione dell’Arabia Saudita. Il problema non è però la disponibilità delle risorse, che ci sono e sono abbondanti.

Ma...
Ma la possibilità di accedere a quelle con i costi di estrazione più bassi in assoluto e qualità migliore, cioè quelle mediorientali. Una citazione a parte merita l’Iraq, che rappresenta una vera frontiera inesplorata dal punto di vista petrolifero. Oggi sembrano esserci tutti i presupposti per le compagnie occidentali di tornare ad operare in un Paese dove è concentrato circa il 10 per cento delle riserve conosciute. Lo sforzo che gli operatori sono chiamati a produrre deve fare i conti con le ormai strutturali difficoltà dei mercati energetici mondiali date dall’eccessiva concentrazione delle risorse in poche aree geografiche sempre più limitate; peso crescente delle National Oil Company (NOC); forti condizionamenti geopolitici; minore accesso diretto alle risorse per le International Oil Company (IOC); ruolo della finanza speculativa; sfida ambientale. La variabile ambientale, in particolare, sarà determinante nel definire i nuovi equilibri soprattutto nel settore della raffinazione, messo a dura prova dal drastico calo della domanda e delle lavorazioni seguito alla crisi economica.

E la raffinazione?
Dopo la ripresa degli ultimi anni, almeno nell’area europea, si trova nuovamente in una situazione di sofferenza che sta determinando un pericoloso eccesso di capacità che potrebbe amplificarsi, tanto da portare ad un nuovo e profondo processo di razionalizzazione. In quasi tutti i Paesi industriali la crisi ha colpito duramente l’industria dell’auto e di conseguenza anche i consumi di carburante che, tra l’altro, dovranno rispondere a standard ambientali sempre più severi. In Europa e negli Stati Uniti si stanno varando legislazioni che metteranno fuori mercato molte delle auto attualmente in circolazione, spingendo verso modelli sempre più efficienti e a basso consumo, con alimentazioni alternative. La cura proposta dall’amministrazione Obama, ad esempio, punta sulla progressiva introduzione di auto che dovrebbero consumare circa la metà di quelle attuali. Considerato che gli Stati Uniti assorbono oltre 9 milioni di barili/giorno di benzina (il 36 per cento dei consumi mondiali), le nuove auto dovrebbero permettere un risparmio di circa 4 milioni barili/giorno, l’equivalente di 7-8 raffinerie medio-grandi. La priorità è quella di creare le condizioni affinché l’industria petrolifera possa continuare a lavorare e rispondere alle esigenze future.

Nuovi attori si sono presentati sul mercato internazionale. Nuovi equilibri si profilano. Cosa ci dobbiamo aspettare?
L’aspetto geopolitico, perché di questo stiamo parlando, incide direttamente sul tema della sicurezza degli approvvigionamenti. Il fatto che oltre il 70 per cento delle riserve sia concentrato nei Paesi Opec, di cui circa il 20 per cento nella sola Arabia Saudita, rende la posizione dei Paesi consumatori molto delicata e difficile. Nei prossimi anni i Paesi Ocse vedranno aumentare il grado di dipendenza dai maggiori Paesi produttori ben oltre il 60 per cento, mentre quelli europei fino all’85 per cento. Nazioni importanti come la Cina, soprattutto da un punto di vista degli equilibri energetici, stanno cercando di mettersi al sicuro espandendo la loro influenza nel mondo e sfruttando il momento di debolezza degli Stati Uniti che non riescono più a garantire aiuti finanziari a tutti i Paesi in difficoltà. Negli ultimi cinque mesi Pechino ha firmato accordi valutari a sfondo energetico con sette Paesi per circa 95 miliardi di dollari, di cui più della metà con Russia, Kazakistan, Brasile e Venezuela. Prestiti in cambio di petrolio. La Russia non si limita più a parlare di Opec del gas, ma anche della possibilità di aderire all’Opec stessa insieme al Brasile, che si presenta come un nuovo Eldorado petrolifero.

E il Vecchio Continente?
In questo quadro l’Europa, che molto dipende dal gas russo, appare un po’ come l’anello debole stante la sua incapacità di porsi quale interlocutore unico sui temi energetici, preso atto che ogni Paese tende a proteggere i propri interessi particolari. L’idea di pensare ad un nuovo modello di sviluppo energetico post-crisi rappresenta dunque la vera sfida non solo per i governi, ma anche per l’industria petrolifera. Nei prossimi anni servirà più petrolio semplicemente perché l’economia ne avrà bisogno per andare avanti, ma sarà altresì necessario sviluppare le nuove fonti in modo da avere meno bisogno di quelle fossili così come fu per il carbone quando venne scoperto il petrolio. Per questo le compagnie petrolifere stanno investendo centinaia di miliardi di dollari in tutte le direzioni, anche nelle fonti rinnovabili che tra tutte presentano i tassi di sviluppo maggiori. Ma per quanti sforzi si possano fare in questa direzione, al 2030 le fonti rinnovabili, compreso l’idroelettrico, potranno però arrivare a soddisfare il 14 per cento del fabbisogno totale e i biocarburanti solo il 4 per cento delle necessità nei trasporti. È pertanto necessario lavorare affinché si possa favorire uno sviluppo ordinato dell’economia che poggi su nuove e trasparenti regole di funzionamento dei mercati. Un processo che dovrebbe coinvolgere anche quelle compagnie nazionali espressione dei Paesi produttori spesso fuori dalle regole di mercato.

Passiamo al mercato italiano. Qual è la situazione al momento?
Per quanto riguarda l’Italia, va detto che la situazione appare seria e richiede interventi mirati non più differibili. Nel 2008 il Pil ha mostrato una contrazione dell’1 per cento, mentre per il 2009 le ultime stime del Fondo monetario internazionale indicano un meno 5 per cento. La disoccupazione mostra preoccupanti segnali di aumento e la Banca d’Italia stima che nel 2010 potrebbe arrivare al 10 per cento. I consumi di petrolio, sempre nel 2008, hanno mostrato un calo di oltre il 4 per cento. In questi primi mesi del 2009 la flessione si è ulteriormente accentuata non solo per l’ormai fisiologico calo dell’olio combustibile, ma anche per quello dei carburanti, compreso il gasolio che non riesce più a compensare le perdite della benzina. Lo stesso vale per i consumi di gas ed energia elettrica che sono tra gli indicatori che forse meglio fotografano la reale situazione delle famiglie. L’Italia, pur con tutte le sue contraddizioni, rimane tuttavia uno dei mercati più importanti e appetibili a livello europeo, vivace e aperto, come prova l’arrivo di nuovi operatori industriali. È ormai un dato di fatto che una delle nostre principali debolezze sia l’elevato grado di dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento energetico, che nel 2008 si è leggermente ridotto solo per la contrazione dei consumi. Le risorse nazionali, petrolio e gas, non sono adeguatamente sfruttate mentre potrebbero contribuire a ridurre sensibilmente la spesa per l’approvvigionamento energetico, in una misura stimata intorno ai 45 miliardi di euro (con un barile a 50 dollari). E va sottolineato come l’impegno delle aziende in questo senso non sia mai venuto meno. Nel 2008 gli investimenti nelle attività di esplorazione e produzione sono stati pari a 880 milioni di euro, il 22 per cento in più rispetto al 2007, e hanno rappresentato la punta massima degli ultimi 8 anni. Spesso questa mole di risorse non trova però sbocco per i mille ostacoli di natura legislativa e autorizzativa che incontra qualsiasi intervento industriale nel nostro Paese.

Da un punto di vista legislativo?
Non si può non registrare un certo accanimento verso il settore, cui si attinge per le più svariate esigenze. Come nel caso della Robin Tax del 2008, una tassa discutibile allora e a maggior ragione oggi, che è stata ulteriormente inasprita. Come settore abbiamo fatto presente tutte le nostre perplessità, soprattutto riguardo ai compiti di vigilanza e controllo attribuiti all’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas che, a nostro avviso, si configurano come un vero e proprio controllo di prezzi che non sono regolati come luce e gas, ma liberi dal 1994. In questo momento servirebbero invece misure in grado di liberare risorse utili per il Paese. Da un punto di vista ambientale, passi in avanti sono stati fatti per accelerare i lavori delle Commissioni competenti per il rilascio delle autorizzazioni VIA, indispensabili per realizzare le modifiche impiantistiche delle raffinerie per la produzione di carburanti senza zolfo, in attuazione della normativa comunitaria in materia. Non altrettanto si può dire nel caso della Commissione AIA e dell’applicazione del Codice ambientale in materia di bonifiche, dove non si registrano passi avanti nell’attuazione della normativa vigente sulla base dell’analisi di rischio.

Con quali conseguenze?
Ciò permetterebbe di sbloccare le attività di bonifica in Italia, unitamente a programmi e interventi di riconversione industriale e di sviluppo economico e produttivo che avrebbero significative ricadute anche a livello occupazionale. Vanno inoltre visti positivamente i correttivi introdotti su alcuni aspetti del Pacchetto 20-20-20 varato dalla Commissione europea. Tra questi, la decisione di prevedere assegnazioni gratuite ai settori manifatturieri se esposti al rischio di delocalizzazione a causa dei costi della CO2 (carbon leakage). I criteri stabiliti confermano che il settore della raffinazione rientra tra quelli cui assegnare gratuitamente le quote di CO2.

E per quanto riguarda, invece, i biocarburanti?
Ribadiamo la nostra convinzione che l’obiettivo del 10 per cento al 2020 sia irrealistico se basato sull’attuale disponibilità di materia prima di origine agricola. In questo senso è perciò importante e positiva l’introduzione della clausola di revisione prevista al 2014 che dovrà verificare l’effettiva possibilità di poter rispettare gli obiettivi. Nel 2008 l’obbligo del 2 per cento è stato pienamente rispettato dalle compagnie, con l’immissione al consumo di oltre 700.000 tonnellate di prodotto. Bisogna però tenere conto delle difficoltà tecniche e operative prevedibili con l’aumento delle concentrazioni di biocarburanti, nonché dei problemi relativi alla concorrenza degli oli vegetali con il mercato alimentare. Il settore petrolifero ha proposto di mantenere l’obbligo del 3 per cento previsto per il 2009 almeno fino a quando non saranno sviluppate le cosiddette produzioni di seconda/terza generazione e saranno messe a punto le specifiche tecniche in grado di soddisfare le esigenze prestazionali degli autoveicoli.

Il calo dei consumi, delle esportazioni, le nuove politiche europee in materia di clima. Tutti elementi che incidono sulle strategie delle imprese. Come?
Uno degli aspetti più critici da affrontare è forse quello della raffinazione, che oggi si trova a fare i conti appunto con minori consumi, riduzione delle esportazioni e oneri industriali crescenti. La difficile situazione internazionale e le prospettive interne porteranno inevitabilmente ad una progressiva erosione del vantaggio competitivo su cui oggi può contare il nostro sistema di raffinazione in virtù degli investimenti fatti negli ultimi anni. Voglio infatti ricordare che nel periodo 1997-2008 sono stati investiti oltre 15 miliardi di euro, di cui oltre il 60 per cento per adeguamenti a carattere ambientale. Nel 2008 la spesa è aumentata del 9 per cento e oltre 6 miliardi di euro sono previsti per il 2009-2012. Investimenti che hanno permesso di anticipare molte delle scadenze comunitarie sulla qualità dei carburanti. Stando ai risultati di uno studio commissionato lo scorso anno al Rie di Bologna, per rispettare l’obiettivo della riduzione dei consumi previsto dal Pacchetto 20-20-20 europeo, le lavorazioni dovrebbero ridursi di almeno 20 milioni di tonnellate. Per mantenere inalterata la capacità di utilizzo degli impianti, la quantità complessiva esportata non dovrebbe soltanto raddoppiare, ma anche riposizionarsi proprio verso quei Paesi extra-Ue dove saranno concentrati gran parte degli investimenti in nuova raffinazione. Data la difficoltà di riallocare i flussi in relazione alle condizioni di mercato e la decisa frenata delle esportazioni, si avrebbe un significativo aumento del coefficiente di rischio con una probabile riduzione dei margini e un effetto spiazzamento sugli investimenti. Il costo che tali politiche avrebbero sul solo settore downstream è stato stimato in 1,2 miliardi di euro l’anno fino al 2020. È pertanto difficile pensare che ci saranno ancora margini remunerativi per gli operatori se non si attuerà un severo piano di riposizionamento del settore, orientato dalla diversa composizione del barile. Molto dipenderà dalla futura dinamica dei prezzi del petrolio e dei prodotti raffinati.

La rete carburanti. Tema di cui si parla da anni ma che, nonostante i numerosi e ripetuti interventi, si presenta ancora pletorica e costosa. C’è un modo per uscire da questo circolo vizioso?
Va anzitutto detto come da un punto di vista regolamentare la nostra rete di distribuzione sia ormai giunta ad un punto di completa apertura, con l’eliminazione di qualsiasi vincolo alla realizzazione di un nuovo impianto. Ciò è testimoniato dal numero dei punti vendita che in questi ultimi anni, a dispetto degli sforzi fatti nel passato, è tornato a crescere, così come la presenza delle cosiddette pompe bianche e della GDO, la cui quota di mercato negli ultimi tre anni è praticamente raddoppiata. È indubbio che restiamo indietro rispetto agli altri Paesi europei dal punto di vista strutturale in termini di erogato, servizi non-oil e modalità self-service. Corriamo perciò il rischio di trovarci tra qualche anno con una rete ancora meno efficiente di oggi, sia in termini di redditività che di servizio offerto. Lo sforzo dovrebbe essere indirizzato verso la ricerca di una maggiore flessibilità operativa e gestionale, introducendo nuovi gradi di libertà nei rapporti contrattuali oggi molto limitati. Come settore abbiamo più volte cercato di proporre soluzioni ai problemi aperti. Stessi tentativi sono stati fatti dalle aziende, ma i risultati sperati non sono arrivati. Bisognerebbe forse trovare formule innovative in grado di accompagnare e favorire un reale processo di riqualificazione e razionalizzazione della rete. Oggi la situazione è però più difficile rispetto al passato, considerato il contestuale calo dei consumi e l’aumento del numero dei punti vendita. Nonostante ciò, il divario con l’Europa si va riducendo e sono sempre di più gli impianti che presentano prezzi inferiori alla media europea.

Sempre a proposito di prezzi: le polemiche tendono a ripresentarsi periodicamente. Come rispondete alle accuse, soprattutto delle associazioni dei consumatori?
Da questo punto di vista non posso che ribadire l’assoluta correttezza di comportamento delle aziende, sia nelle fasi di aumento che di discesa. Del resto basta guardare i numeri, cosa che non fanno in molti. Dai picchi di luglio ai minimi di fine dicembre, ad esempio, il prezzo interno (al netto delle tasse) è diminuito anche più delle corrispondenti quotazioni dei prodotti raffinati rilevati dal Platts, che sono il vero riferimento cui guardare. Analogo discorso vale per quanto accaduto dai minimi di dicembre ad oggi, un lasso di tempo in cui le quotazioni internazionali della benzina sono praticamente raddoppiate. Una realtà oggettiva che si tende ad ignorare sistematicamente, in particolare da parte delle associazioni dei consumatori sulla cui attività va forse avanzato qualche dubbio, in quanto privilegiano azioni di comunicazione non corrette, ingenerando false aspettative nei consumatori. Ricordiamoci che sono associazioni finanziate anche con soldi pubblici e che perciò dovrebbero svolgere un ruolo più obiettivo e trasparente. Ma al di là delle affermazioni demagogiche, non ho mai visto uno studio o una ricerca vera su questi temi. Li invitiamo ad un confronto basato sul merito delle cose. Un tentativo di sederci intorno ad un tavolo lo abbiamo già fatto, ma ci siamo sempre scontrati con un atteggiamento misto di chiusura e scetticismo.

Quale può essere il messaggio finale?
Mi sento di dire che in questo momento di estrema incertezza appare difficile essere ottimisti per il futuro del settore. Le aziende che rappresentiamo sono pronte a fare la loro parte, ma devono essere messe nelle condizioni di operare in un quadro di regole chiare e certe. Le risorse ci sono e le competenze anche. Vorremmo però un clima più sereno intorno a noi. Spesso abbiamo l’impressione di un atteggiamento prevenuto che rifiuta l’analisi oggettiva dei fenomeni e privilegia la ricerca del facile consenso.