Questi porti italiani non vanno in porto
di Paola Sesti

Si parla di porti e se ne parla a Milano. Perché? Perché la Pianura Padana ha seri problemi di collegamento con l’estero e rischia di rimanere una realtà europea periferica: è quanto emerso nella mattinata di lavori sul porto, “nodo critico per l’efficienza della catena logistica mare-terra”, svoltasi presso l’auditorium Assolombarda di Via Pantano.
“Le difficoltà - afferma Giorgio Musso, presidente del gruppo Tarros - sono dovute al fattore alpino e alla gestione dei valichi, al prevalere della piccola e media impresa, alla carenza di infrastrutture e alla congestione delle poche esistenti. A ciò si aggiunga la crisi della grande industria, che tradizionalmente promuove soluzioni logistiche innovative e su larga scala”.
Lo scorso anno il 40% delle merci prodotte in Pianura Padana destinate all’estero sono state dirottate su porti olandesi. Il che colloca Milano e l’industria padana a oltre 1000 km dal mare, equiparandola a realtà come Mosca o Kiev. In dieci anni il traffico portuale italiano è aumentato del 400% passando da 2.200.000 TEU (Twenty feet unit, l’unità di misura dei container) del 1993 agli 8.100.000 TEU del 2002. L’ampliamento dei traffici, in sé positivo, ha inevitabilmente provocato spiacevoli effetti a “collo di bottiglia” che rischiano di bloccare la crescita del nostro sistema portuale.
Il problema principale dei porti italiani consiste nella mancanza di inserimento in una catena logistica efficiente. Ciò significa che il porto deve smettere di essere considerato un “nodo”, per entrare a pieno titolo a far parte di una “rete”. È necessario consentire un rapido accesso alle strutture portuali, sviluppandone le potenzialità e garantendo un sicuro collegamento col retroterra. Il Nord Ovest (Liguria, Piemonte e Lombardia) si deve proporre quale Polo Logistico del Sud Europa, se vuole continuare a essere competitivo sul mercato globale. La situazione marittima italiana è nota: il Tirreno dispone di spazi a mare estremamente ridotti e di un retroterra prevalentemente montuoso; nonostante ciò smaltisce circa l’80% delle merci destinate alla Pianura Padana. L’Adriatico presenta una situazione inversa: dispone di spazi maggiori, ma essendo decisamente fuori dalle principali rotte commerciali riceve solo il 20% delle importazioni. Il quadro nord europeo è decisamente migliore, ma non sarebbe corretto pensare che sia sempre stato così. Belgio, Olanda, Germania hanno caratteristiche climatiche e morfologiche tali per cui è stato necessario un lungo lavoro di adattamento per superare le criticità - fiumi a basso fondale, clima severo con frequenti nebbie e elevati flussi di maree - e far sì che l’efficienza portuale divenisse quella che noi oggi conosciamo.

In Italia non è possibile costruire nuovi porti e è altrettanto impossibile eliminare l’ostacolo costituito dalla catena appenninica. Per questo è opportuno potenziare e razionalizzare ciò che già c’è, avvicinando in termini economici il mare all’industria. Il che significa, per esempio, ampliare il tratto ferroviario appenninico (Pontremolese, III Valico, Tirreno-Brennero). E superare gli ostacoli burocratici e ambientali che, prima ancora di quelli economici, paralizzano lo sviluppo dei porti. La questione coinvolge anche – comprensibilmente - le Ferrovie dello Stato. Negli ultimi anni – secondo il direttore Divisioni cargo di Trenitalia Giancarlo Laguzzi - ovunque si è fatto qualcosa dal punto di vista infrastrutturale e gestionale, tranne che nell’ultimo miglio ferroviario, ossia dalla banchina al retroporto. Lì ci sono ancora i binari di venti anni fa e le manovre nella maggior parte dei casi possono essere effettuate solo dalla Ferport, con i costi che un monopolista può permettersi di applicare (in media 50 euro a singolo carro). L’ultimo miglio è il più importante, è il tratto fondamentale che permette di garantire tempi e regolarità delle consegne.

Un’operazione normale nel resto del mondo diventa nel nostro Paese vittima di complesse procedure autorizzative che rendono impossibili programmi di dragaggio a lungo termine. Per ciò che riguarda i riempimenti, un porto si considera saturo quando oltrepassa i 200 TEU/anno per metro quadro di banchina; La Spezia e Salerno hanno largamente superato questa soglia, ma essendo piccole realtà risultano ancora più vulnerabili a localismi e burocrazia, che paralizzano anche i più modesti adeguamenti infrastrutturali. In Europa, Spagna e Portogallo hanno attuato efficaci interventi in ambito portuale collocandosi in una posizione migliore rispetto alla realtà italiana – si pensi ad esempio al porto di Barcellona realizzato nel rispetto dell’ambiente, delle realtà locali in parallelo con la crescita di altre attività nautiche. Lo spunto al cambiamento dovrebbe giungere da qui, senza guardare le condizioni del Nord Europa, distanti anni luce da quelle dei nostri porti.
La causa dell’immobilismo italiano va ricercata all’interno delle singole realtà locali; problemi burocratici e soprattutto politico-conflittuali fanno sì che ogni scelta subisca rallentamenti. A ciò si aggiungono i comitati di quartiere – i Comitati del No – capaci di bloccare interi progetti già approvati. E il paradosso ambientale è servito: si ha un bel parlare di sviluppo ecocompatibile, ma assolutamente non sotto la mia finestra! L’impatto ambientale di una grande infrastruttura come un porto va valutato mettendo sul piatto della bilancia i costi dell’immobilismo: minore trasporto marittimo comporta maggiore quantità di veicoli sulle strade, maggiori consumi e inquinamento, maggiori incidenti: in sintesi una perdita di competitività del sistema Italia.