Curcio: "Ecco come sta cambiando il mondo dell'energia" |
di Davide Canevari
Di un ministero per l’Energia si è parlato molti anni fa, attorno al 1982, in piena crisi petrolifera, quando l’Italia temeva davvero di dover modificare radicalmente e in modo traumatico i propri stili di vita. Oggi l’intensità energetica rispetto al Pil è minore e quindi l’energia - pur confermandosi tema strategico - non è più condizionante come 27 anni or sono. Comunque, il fatto di aver creato un Dipartimento per l’energia rappresenta già un passo avanti rispetto al semplice concetto di Direzione generale. Significa che questo governo – pur non arrivando alla creazione di un ministero dedicato – sta dando maggiore importanza alla questione energia. Va anche rilevato che l’Italia, in questi ultimi tempi, sta partecipando in maniera più sistematica e propositiva ai summit internazionali su ambiente ed energia. A che punto è il processo di liberalizzazione del nostro Paese? Procede, ma molto lentamente. Quando fu avviato il meccanismo, con la vendita delle Genco, dissi che il bicchiere era mezzo pieno e mezzo vuoto. Sul mercato sono effettivamente comparsi nuovi operatori e il fenomeno si è ulteriormente allargato grazie alle rinnovabili. Tuttavia, se andiamo a considerare i prezzi dell’energia elettrica, il comportamento della Borsa, la stessa conduzione della rete, la tentazione di vedere quel bicchiere ancora mezzo vuoto è forte. Pensando a recenti fatti di cronaca che hanno riguardato realtà come a2a, Acea, Enia e Iride, verrebbe quasi da pensare che il modello delle multiutility non stia vivendo un periodo d’oro... Probabilmente abbiamo raggiunto un punto di saturazione. Anche i servizi pubblici locali non sono stati liberalizzati appieno, restano in mano alla politica. E se sono i Comuni a prendere le decisioni, non si può pretendere che queste vengano prese secondo logiche prettamente energetiche... Il sogno di una RWE in versione italiana si allontana sempre di più? Penso di sì. Piuttosto vedo un’altra interessante trasformazione. Le grandi realtà energetiche italiane – penso a Eni, Enel, ma anche alla stessa Edison – si vanno trasformando in aziende multiservizi. Magari senza mantenere le radici sul territorio, come fa invece una classica multiutility, ma per il resto a tutti gli effetti simili a queste ultime. Ecco un altro significativo cambiamento in atto, con possibili conseguenze positive anche per il singolo consumatore. E per quanto riguarda il gas? Qualcuno invoca una sorta di Terna anche per le reti gas. Servirebbe davvero? Nel gas la situazione delle liberalizzazioni è più complessa. Come hanno confermato recenti pronunciamenti dell’Antitrust, la presenza dell’incumbent è maggiore. Il gas è più strategico dell’energia (con il gas si può produrre il kWh, ma non vale il vice versa), il gas si deve importare; emergono dunque aspetti strategici e geopolitici. Alla luce di queste considerazioni, avere un operatore dominante ha certamente aspetti negativi, ma anche lati positivi, perché se c’è un solo soggetto che acquista, sui mercati internazionali ha certamente un maggiore peso contrattuale. Il gas è una fonte mondiale e occorre quindi avere un posizionamento di caratura internazionale per trattare questa materia prima. Come valuta le mosse delle aziende italiane sui mercati stranieri? In maniera abbastanza positiva. Il processo di internazionalizzazione è discreto. Pensiamo a quanto sta facendo l’Enel in Spagna e nell’Est europeo, all’Eni – che da sempre ha una visione sovranazionale – ma anche a Sorgenia nel fotovoltaico e ad Edison nel gas. A parte le recenti vicende di Fiat, non ci sono altri settori in cui il nostro Paese si è mosso sui mercati stranieri come ha fatto nel comparto energia. Pochi, negli anni passati, avrebbero potuto immaginare uno scenario di questo genere. È un sogno... immaginare una politica energetica dell’Europa che sia davvero comune? Sarebbe bello che ci fosse, ma ho il timore che sia una strada ancora difficile da percorrere. 27 Paesi sono un po’ troppi per pensare a una politica energetica davvero comune. Su alcuni aspetti l’Europa si è mossa in modo deciso, anche anticipando il dibattito internazionale. È il caso dei cambiamenti climatici o della Direttiva 20-20-20 (anche se poi resta da capire come e in che misura i singoli Stati la recepiranno). Allo stesso tempo, però, va rilevato che ci sono problemi sui quali la stessa Ue è stata del tutto carente. Penso, ad esempio, alla recente crisi del gas. Ad oggi non c’è ancora una Direttiva che imponga ai singoli Paesi l’obbligo di prevedere degli stoccaggi, per esempio in misura pari a 90 giorni di consumo. Ci sono quindi Stati che non hanno neppure uno stoccaggio attivo e che, alle prime avvisaglie di crisi tra Ucraina e Russia, sono dovuti ricorrere alle stufette elettriche. Quali nuove sfide ha posto l’allargamento ad Est dell’Unione europea? Non parlerei di una sfida, ma semplicemente di un allargamento del mercato che ha portato vantaggi e svantaggi. Nella prima categoria vedo, ad esempio, il fatto che molte condotte oggi viaggiano all’interno dell’Europa per la maggior parte del loro percorso; e questo fatto costituisce un miglioramento in termini di sicurezza. Tra gli svantaggi, il fatto che la debolezza energetica di alcuni Paesi di recente ingresso ci ha “costretti” a soccorrerli sia in termini di approvvigionamento gas che di interruzioni elettriche. Per il resto, l’ingresso dei nuovi membri non ha risolto nessuna delle criticità dei vecchi... In Italia manca probabilmente una cultura dell’energia. Per quali ragioni? E con quali possibili correttivi? Questo è un tasto che mi sta particolarmente a cuore. Occorre migliorare la conoscenza di tutti: i giornalisti, che poi si occupano
Resta una apparente contraddizione. Considerando il numero di convegni, di Fiere di settore, di articoli pubblicati dai mass media sul tema, le opportunità per accedere alle informazioni sono al top. Eppure nella pratica la cultura di cui parlavamo in precedenza è tutto tranne che radicata. Dove è l’anello debole se c’è tanta comunicazione ma poca cultura? Quasi tutte le informazioni alle quali si ha accesso sono di carattere molto specifico o limitate a un particolare aspetto. Mancano, invece, molti concetti di base. Magari si dice tutto sul fotovoltaico, ma si trascurano i grandi numeri dell’energia: l’andamento dei consumi a livello mondiale, le diverse fonti, le aree di approvvigionamento, il bilancio energetico, gli usi finali. Su molti di questi temi c’è il vuoto assoluto. Per questo, come AIEE, stiamo portando avanti una campagna perché venga fatta un’indagine sugli usi finali dell’energia nel nostro Paese. In questo momento non sappiamo se, dove, come e quanto sono in atto dei cambiamenti. Andiamo avanti senza avere informazioni che sarebbero basilari per qualsiasi seria programmazione futura. In altre parole siamo come dei non vedenti che cercano la strada per andare a casa. È credibile un ritorno del nucleare in Italia?
Per questo non ci si può limitare a parlarsi tra addetti ai lavori. Il governo dovrebbe partire subito con campagne mirate di informazione e formazione per sfatare l’idea che, legati al nucleare, ci siano ostacoli o problemi non superabili, come l'esperienza estera insegna. Come superare la sindrome Nimby, quando si trasforma in un no a prescindere? Il problema è molto sentito nel nostro Paese e sta coinvolgendo anche le energie verdi. Recentemente ho partecipato ad alcuni processi di accettazione e spesso ho visto che le imprese non hanno effettuato una corretta e completa informazione; non hanno usato tutti gli strumenti potenzialmente a loro disposizione. Anche sul tema della compensazione, che spesso in questi casi entra in gioco, ho delle remore. Questo approccio può sempre lasciare nel cittadino il dubbio che “se un’azienda è disposta a pagare pur di fare, c’è effettivamente un danno previsto”. L’ideale sarebbe riuscire a far accettare un impianto per ciò che realmente è e per quello che può fare per il Paese. Ma qui entra in gioco un altro problema. Nell’Italia dei campanili non c’è la convinzione dell’esistenza di un bene comune, superiore al proprio orticello ma più l'idea di tutelare i propri individuali interessi. Prima il nostro Paese era sbilanciato sull’olio combustibile. Adesso ha virato – forse eccessivamente – sul gas. Siamo davvero condannati a non avere un mix equilibrato? Nei primi mesi del 2009 stiamo rilevando – come detto – qualche cambiamento. E non si tratta di cambiamenti pilotati o costretti. Magari nei prossimi anni avremo bisogno di meno gas poiché la domanda di kWh non crescerà con i tassi che erano stati previsti negli anni scorsi. Ci sarà un’ulteriore sviluppo delle rinnovabili e potranno entrare in funzione alcune nuove centrali a carbone. E alla fine di questo processo ci troveremo in una situazione un po’ più equilibrata rispetto ad oggi soprattutto per il mix di fonti per la generazione elettrica. Sul tema del risparmio energetico cosa si è fatto e cosa si potrà fare? Nel corso degli ultimi due anni qualcosa di significativo si è fatto. Abbiamo anche effettuato uno studio sull’attuale apparato legislativo ed è risultato che il quadro di riferimento è discreto. Certo, molto ancora deve essere fatto. Occorrerebbe confermare gli impegni attuali su un orizzonte temporale più esteso ed effettuare un’analisi dei dati esistenti per capire se davvero stiamo diventando una nazione più virtuosa o, invece, se la riduzione dei consumi in atto è solo “merito” della crisi. E poi, come sempre, non bastano le misure, serve anche l’informazione. Cosa ha rappresentato e rappresenta per lei l’esperienza AIEE? È stata un’esperienza estremamente importante, e sono molto soddisfatto del lavoro svolto in questi anni e di risultati che abbiamo ottenuto. Ho anche potuto allargare la mia conoscenza dall’ambito prettamente petrolifero - avendo compiuto la mia esperienza lavorativa all’interno di un grande gruppo dell’oil&gas - alle più ampie tematiche dell’economia delle diverse fonti energetiche. E ciò mi ha reso più motivato nell'affrontare i grandi problemi dell'energia del nostro Paese. |