Nucleare: come riaprire il dibattito a 16 anni dal referendum |
di Enrico Cerrai
Sono tra coloro che ha vissuto tutta la storia del nucleare nel nostro Paese, compreso il lungo periodo di abbandono e la recente parziale ripresa di interesse. Almeno da un anno a questa parte, infatti, in ambienti industriali, politici e accademici, il termine "energia nucleare" si è fatto sentire nuovamente, peraltro senza suscitare manifestazioni di violenta ripulsa. Dalle colonne di questo stesso periodico si sono espressi con commenti, considerazioni, notizie e dati statistici, esperti improntati alla massima obiettività.
Per giungere a un dibattito pubblico efficace occorre, però, percorrere ancora un lungo cammino. È necessario disporre di un gruppo di esperti autorevole e credibile in grado di presentare il problema in tutti i suoi aspetti scientifici, tecnici e politico-sociali. È anche indispensabile accedere a un auditorio che sia il più ampio e composito possibile e soprattutto che sia disposto ad accogliere – e anche a criticare – i vari argomenti del dibattito, senza pregiudizi ideologici. In altre parole, bisogna rivolgersi a tutti, e per far ciò è opportuno ripartire da quando l’intera popolazione italiana fu coinvolta sul problema dell’energia nucleare; al 1987, quando fu celebrato il referendum popolare che portò all’uscita dell’Italia dal nucleare.
Le generazioni che oggi stanno uscendo dalle università, tutti i giovani che stanno entrando nel mondo del lavoro, allora frequentavano i primi anni della scuola dell’obbligo. Stando alle apparenze, i loro padri decisero per loro di precludere al Paese di disporre autonomamente di una fonte energetica che in Europa fornisce più del 38 per cento dell’energia elettrica consumata e che, paradossalmente, contribuisce per la massima parte a sanare il deficit energetico di cui soffriamo come sistema Paese. Dico “stando alle apparenze” perché non fu una decisione popolare contro il nucleare. Contrariamente a ciò che è stato tramandato, il referendum – fissato dal governo Goria l’8 novembre 1987 - non poneva una domanda pro o contro il nucleare. Tecnicamente si trattava di esprimersi sulla abrogazione (o meno) di alcuni comma di due leggi connesse alla produzione di energia elettrica.
La prima legge – la numero 856 del 18 dicembre 1973 – aveva modificato lo statuto dell’Enel, rendendo lecita la costituzione di società con enti stranieri e l’assunzione di partecipazioni che avessero per oggetto l’esportazione o l’importazione di energia elettrica; la realizzazione o l’esercizio di impianti nucleari; la progettazione, la costruzione, l’esercizio delle relative reti di trasporto. I cittadini furono chiamati a decidere solo in merito alla realizzazione o all’esercizio di impianti nucleari in compartecipazione con società straniere. L’abrogazione, di fatto, avrebbe dovuto significare solo un divieto per l’Enel di assumere iniziative in campo internazionale.
Riguardo la seconda legge – la numero 8 del 10 gennaio 1983 – il quesito referendario chiamava gli italiani ad esprimersi su due questioni: continuare a consentire (ovvero vietare) all’Enel di erogare, mediante apposite convenzioni tra le parti, contributi a favore dei Comuni e delle Regioni sedi di centrali elettriche alimentate con combustibili diversi dagli idrocarburi (il che non significa solo termonucleare) e continuare (o meno) a consentire al Cipe di essere responsabile della determinazione delle aree suscettibili di insediamenti di centrali, nei casi in cui non fossero state prese decisioni nei termini stabiliti per legge, nelle sedi competenti.
Nelle intenzioni dei promotori la vittoria dei sì avrebbe dunque introdotto maggiori ostacoli alla realizzazione di nuovi impianti di produzione nucleare, senza tuttavia comportare un automatico disimpegno e tanto meno lo spegnimento delle centrali allora in esercizio.
Invece, fin dall’inizio, la questione fu sintetizzata in un quesito molto più semplice anche se fuorviante: "nucleare sì", "nucleare no". In pratica una sentenza senza appello di condanna o di assoluzione. Già a dicembre, lo scenario appariva chiaro con una drastica presa di posizione da parte del Parlamento, che lasciava intuire (forse qualcosa di più) la scelta politica di abbandonare le tecnologie nucleari di fissione. L’antivigilia di Natale, il Cipe decideva la sospensione dei lavori di costruzione della nuova centrale di Trino (un impianto con due unità da 1.000 MW nominali) e decretava la non riapertura della centrale di Borgo Sabatino (Latina), ‘accesa’ il 1° gennaio del 1964, ma ferma dal novembre 1986. Negli stessi giorni si stava facendo strada l’ipotesi di convertire Montalto di Castro, già in avanzato stato di realizzazione, in una centrale a gas naturale. Pochi giorni prima, il 17 dicembre, la Camera dei deputati aveva già richiesto un impegno formale al governo “a non includere la costruzione di nuove centrali nucleari a fissione nelle previsioni del programma di investimenti da effettuare nei cinque anni successivi”. Il Piano unificato nucleare, con il quale l’Italia si accingeva a incrementare il peso della produzione elettronucleare, per avvicinarsi ai principali concorrenti europei, venne di fatto abbandonato proprio in quei giorni. Gli eventi di quelle settimane furono anche il frutto di una inadeguata diffusione delle informazioni e di un insufficiente coinvolgimento – su basi tecniche e scientifiche - dell’opinione pubblica e quella esperienza deve fare oggi scuola in vista di una qualsiasi ripresa del dibattito sul nucleare.
Ricordo, ad esempio, che dal 24 al 27 febbraio 1987 si svolse a Roma la Conferenza nazionale dell’energia, preceduta da una capillare indagine condotta sui cittadini. I risultati di quella ponderosa inchiesta furono raccolti in cinque volumi che, da allora, praticamente non furono mai resi pubblici, circolando solo tra coloro che li avevano scritti e tra tecnici e ricercatori "costretti" a parlarsi tra di loro. A cosa era servito, dunque, quello sforzo? Perché lo stesso Parlamento, che aveva lodevolmente promosso quell’inchiesta per “disporre con urgenza di un notevole e affidabile concentrato di scienza, tecnica ed economia”, non aveva poi manifestato alcun interesse per i risultati che quel lavoro aveva prodotto? La centrale di Latina fu liquidata con la motivazione che la sua tecnologia era ormai obsoleta e l’impianto presentava analogie con quello di Chernobyl; fu portata di fronte all’attenzione pubblica come superata e pericolosa, citando a riprova i bulloni arrugginiti della fine degli Anni Sessanta. Quegli stessi bulloni che in Italia crearono tanto scalpore, in analoghe centrali a gas/grafite inglesi o del Galles (oltre una dozzina) furono descritti da un articolo pubblicato sul Financial Times del 24 settembre 1969 come “un esempio di comportamento tecnologico anomalo, che aveva messo momentaneamente in crisi quella classe di reattori”. Tutto qui, senza drammi e senza accuse di attentati alla sicurezza e alla salute pubblica. Semplicemente si decise di studiare le modifiche tecniche per recuperare – con gli stessi impianti – la potenza perduta per via dell’abbassamento della temperatura. Pochi in Italia fecero ad esempio notare che la centrale inglese di Bradwell, gemella di quella di Latina, nei giorni del referendum era ancora in regolare servizio. Insomma, le decisioni vennero prese in maniera umorale, comunque episodica e poco organica, lontano da sedi con adeguate e comprovate competenze tecniche, ma anche economiche. Per Latina, ad esempio, anche Enel (in quanto proprietario ed esercente), Enea (responsabile della sicurezza e della protezione), ministero dell’Industria e del commercio (che esercitava sorveglianza sui due enti) avrebbero dovuto poter dire la loro. E, invece, si preferì trasformare in maniera spicciola quell’impianto in vittima sacrificale caricandolo di responsabilità non sue quali il pericolo e, come già detto, le "affinità" con Chernobyl.
A sedici anni di distanza, prima di riprendere un serio dibattito sul nucleare e sulle politiche energetiche del nostro Paese, vale la pena studiarsi a fondo quelle pagine di cronaca. Per non commettere gli stessi errori e per non travisare ancora una volta i veri problemi sul tappeto riducendo il dibattito a un semplicistico "nucleare sì", "nucleare no", che sarebbe già morto ancora prima di iniziare.
|