Il deficit petrolifero Usa: vincoli e condizionamenti per la politica estera

di Vittorio D'Ermo

Il 2003 si concluderà con un nuovo aumento delle importazioni di petrolio degli Stati Uniti che si stanno attestando sul livello record di 10 milioni di barili/giorno. Questo fenomeno, che appare offuscato dalle notizie su altri aspetti della politica energetica americana e, in particolare, dalle iniziative per lo sviluppo di nuove fonti alternative al petrolio che questo Paese detiene, ha un enorme rilievo economico e strategico.
La situazione di pericolosa dipendenza dalle vicende del mercato petrolifero internazionale è invece costantemente richiamata nel descrivere la situazione italiana, mentre altri nazioni potrebbero guardare a questo problema da posizioni più tranquillizzanti.
In effetti, rispetto all’Italia, dove il petrolio è impiegato per soddisfare la domanda del settore trasporti ma anche di una parte sostanziale di quello termoelettrico e di segmenti ancora importanti dell’industria e degli usi civili, negli Stati Uniti il petrolio è utilizzato per ben due terzi dal settore trasporti mentre il terzo rimanente va a industria e riscaldamento.
Quest’uso fortemente specializzato non è però sufficiente a rendere meno pressante il problema della sicurezza dell’approvvigionamento, in relazione alla forte rigidità della domanda del settore trasporti ed alle limitate le possibilità di diversificazione rispetto, ad esempio, al settore termoelettrico già alimentato da carbone, nucleare e gas naturale.
L’altra dimensione che rende molto acuto il problema della dipendenza petrolifera americana è rappresentata dalle grandezze in gioco: nel 2003 la domanda petrolifera americana sarà pari a circa 20 milioni di b/g ovvero il 30% del totale mondiale pari, a sua volta, a 80 milioni di b/g.
Rispetto a questa domanda che, nell’arco degli ultimi cinquanta anni, con l’eccezione dei momenti più drammatici delle crisi petrolifere, non ha mai cessato di crescere, la produzione interna si è andata rivelando sempre meno adeguata.
Nel lontano 1949 la produzione Usa era di oltre cinque milioni di b/g che sarebbero poi progressivamente aumentati sino al massimo storico di 11,3 milioni di b/g raggiunti nel 1970.
Da quel momento ha inizio la fase della stabilizzazione seguita da un lento declino sino agli attuali 8 milioni di b/g circa, livello assolutamente confrontabile con quello dell’Arabia Saudita, il maggiore produttore Opec, e con quello della Russia.
Questo risultato, che ha smentito clamorosamente molti studi che avevano previsto un declino più rapido in relazione ad una valutazione pessimistica del potenziale del Paese e ad una sottovalutazione degli sviluppi delle tecnologie di prospezione e di coltivazione, non ha potuto però arrestare l’aumento delle importazioni.Dopo una fase storica che ha coinciso con quella del grande sviluppo dell’industria petrolifera e che ha visto gli Usa collocarsi tra i maggiori esportatori, la situazione, dagli anni ’50, si è invertita con il passaggio alla condizione di importatore netto. Così già nel periodo 1950–1973 le importazioni di petrolio degli Usa sono passate da 0,5 a 6 milioni di b/g.
Il flusso ha interessato dapprima le aree più vicine agli Stati Uniti, in particolare Canada, Messico ed America Latina, e poi, in modo sempre più massiccio, i Paesi del Medio Oriente.
Da un punto di vista geopolitico la crescita vertiginosa delle importazioni da quest’area ha avuto un ruolo di primo piano nel facilitare, nel 1973, l’esplosione della prima grande crisi petrolifera.
Ed è proprio per effetto del complesso delle azioni di politica energetica messe a punto per rispondere alle sfide della prima e della seconda crisi, che le importazioni nette di petrolio degli Stati Uniti mostrarono una netta inversione di tendenza portandosi a 4,2 milioni di b/g nel 1985. Non a caso alcuni dei presidenti di quell’epoca avevano parlato della necessità di una maggiore autonomia energetica definita come l’equivalente morale di una guerra.
Il crollo dei prezzi del petrolio del 1986 ha però comportato un drastico cambiamento di approccio e di visione strategica con la crescente fiducia nella capacità delle forze di mercato di risolvere i problemi energetici. Inizia così un nuovo ciclo di aumento delle importazioni nette di petrolio sino agli attuali 10 milioni di b/g.
Questa cifra non poteva però rimanere inosservata sia sul piano della bilancia commerciale (oltre 100 miliardi di dollari) sia su quello delle relazioni con i Paesi di origine di questo flusso.
Le amministrazioni sono ben coscienti del fatto che il prezzo del petrolio incide direttamente sui costi di produzione delle imprese e sui bilanci delle famiglie americane senza la “rete di protezione” della pesante fiscalità vigente in Europa che, paradossalmente, attenua l’impatto della volatilità dei prezzi del greggio. D’altra parte, la continuità del flusso di petrolio è essenziale per il funzionamento del sistema economico. L’attenzione a questi problemi, che non ha mancato di manifestarsi concretamente nel corso degli ultimi cinquanta anni, è di nuovo andata aumentando anche in relazione alle indicazioni degli studi sulle prospettive energetiche degli Stati Uniti elaborati dalla stessa amministrazione e da centri di studio indipendenti con grande ricchezza di approcci metodologici ma con risultati abbastanza convergenti.
Ad esempio, l’ultimo documento annuale elaborato dalla Energy Information Administration, prevede, in tutti e tre gli scenari al 2025 considerati, un ruolo ancora determinante per il petrolio, pur in presenza di un significativo aumento del ricorso alle altre fonti sia tradizionali sia nuove.
Rispetto ad una domanda petrolifera, che salirebbe al 2025 verso i 27 milioni di b/g, la produzione interna, in funzione degli scenari adottati, potrebbe fornire 8 milioni di b/g ovvero scendere verso i 7 milioni di b/g. Il rimanente fabbisogno dovrebbe quindi essere soddisfatto con importazioni. Queste ultime dovrebbero aumentare al 2005 sino a oltre 20 milioni di b/g nello scenario di prezzi più bassi, ovvero 19 milioni di b/g nello scenario di prezzi più alti.
Anche assumendo che queste cifre rappresentino solamente dei riferimenti di massima e ipotizzando che i livelli di domanda effettiva siano più bassi, esse evidenziano comunque un problema di natura non solo economica ma anche geopolitica, specie dopo il crollo del sistema sovietico e l’aumentato ruolo degli Stati Uniti. Con particolare riferimento al settore petrolifero l’azione geopolitica americana si è andata articolando, storicamente, in una serie di comportamenti che sono andati dal supporto, più o meno diretto alle compagnie impegnate in aree critiche, alla instaurazione di rapporti politici privilegiati con i più importanti fornitori di greggio.
Si pensi allo sviluppo della presenza americana nell’Iran di Reza Palhevi, alla successiva crescente influenza maturata in Arabia Saudita, soprattutto a partire dagli anni 70, alla politica di sostegno all’Irak in funzione anti-Iran, divenuto, con l’avvento di Komeini, una repubblica islamica ostile verso gli Stati Uniti e, successivamente, al primo intervento contro l’Irak, dopo l’invasione del Kuwait. Da quel momento l’iniziativa politica verso le aree ritenute cruciali per l’approvvigionamento petrolifero degli Stati Uniti si è fatta sempre più pressante.
“Energy security must be a priority of U.S. trade and foreign policy” recita il National Energy Policy Report elaborato dal National Energy Policy Development Group e presentato al presidente Bush nel maggio 2001 come base per la sua politica energetica.
Dopo alcuni mesi, questa dichiarazione assumeva un connotato ancor più stringente a seguito dell’attentato dell’11 settembre 2001 con la tragica conferma della capacità offensiva del terrorismo islamico. Questa data segna un’ulteriore svolta nel comportamento degli Usa, che teorizzano la necessità di una politica di intervento contro gli Stati che sostengono direttamente o indirettamente il terrorismo. Tale politica arriva ad interessare Paesi di enorme rilevanza sul piano petrolifero come l’Irak e l’Arabia Saudita.
Sicurezza energetica e lotta al terrorismo divengono, infatti, due elementi strettamente collegati che portano alla revisione di alleanze che sembravano consolidate e alla ricerca di nuovi punti di riferimento.
Il logoramento dei rapporti con l’Arabia Saudita considerata, in qualche modo, collegata al terrorismo islamico, è senz’altro uno dei motivi che hanno spinto l’amministrazione Bush ad intervenire in Irak con lo scopo di debellare un possibile alleato del fondamentalismo e di instaurare, in un Paese con riserve di idrocarburi paragonabili a quelle dell’Arabia Saudita, un nuovo governo non ostile all’Occidente. I risultati di questa politica, che ha portato ad una grave frattura in ambito Onu e Nato, si stanno rivelando però quanto mai incerti. L’Arabia Saudita ha avvertito la diffidenza americana e si è mossa alla ricerca di nuove alleanze che è sfociata molto recentemente in un accordo di collaborazione con la Russia, il primo produttore di petrolio del mondo.
Allo stesso tempo il terrorismo islamico sta assumendo nuove drammatiche iniziative anche sul suolo saudita in contrasto con l’ipotesi di una diffusa complicità con la classe dirigente di questo Paese. Tutto ciò apre una sinistra prospettiva sul futuro del regno che custodisce i Luoghi Santi dell’Islam e che, al contempo, rappresenta l’ago della bilancia del mercato petrolifero mondiale.
Mentre la situazione in Arabia Saudita si va facendo ancora più complessa, il processo di pacificazione e di trasformazione dell’Irak si va dimostrando molto più difficile di quanto ipotizzato, troppo affrettatamente, dopo il successo militare contro il regime di Saddam Hussein.
I continui attentati che si registrano in tutto il Paese, tra cui quello di Nassirya contro il contingente militare italiano, certamente una delle migliori espressioni di un atteggiamento cooperativo e di impegno per la ricostruzione del Paese, rappresentano una drammatica dimostrazione della difficoltà di costruire un nuovo assetto politico ed economico dopo un intervento che non ha avuto il pieno consenso della comunità internazionale e che è stato accolto con diffidenza dalla popolazione locale. La sempre più forte resistenza che le forze americane incontrano sta peraltro portando ad un’opportuna revisione della strategia fin qui adottata e ad un’accelerazione della costituzione di un governo locale.
Fino a quando il processo di ricostruzione della società e dell’economia irachena non sarà avviato su solide basi, la prospettiva di una maggiore sicurezza e stabilità degli approvvigionamenti petroliferi degli Stati Uniti e, in ultima analisi, del sistema petrolifero mondiale tenderà ad allontanarsi più che ad avvicinarsi.