I primi soffi di primavera spingono il petrolio sopra i 50 dollari al barile

di Drilling


In un precedente articolo dello scorso autunno avevamo analizzato che, sulla base dei processi in corso, il prezzo del petrolio sarebbe stato guidato da due precisi fattori:

le condizioni climatiche da novembre a marzo;
le draconiane leggi ambientali nsui combustibili negli Usa da marzo in poi.

Finora tutto sembra rispettare rigorosamente questo schema. Un inverno vero, dopo oltre dieci anni, ha fatto da sostegno ai prezzi del petrolio, nonostante la grave crisi economica e la stasi dei consumi del settore petrolchimico.
Se si analizzano le statistiche della domanda di prodotti petroliferi si vede un crollo di valori, specialmente per i prodotti strettamente collegati alla produzione industriale, come la virgin nafta per il settore petrolchimico. In Estremo Oriente, Cina, Corea, Giappone questo crollo ha determinato una trasformazione nella composizione dei flussi di approvvigionamento. I greggi di alta qualità ricchi di frazioni leggere, come la virgin nafta, sono stati constantemente rifiutati dai raffinatori e hanno subito un calo nelle loro quotazioni relative. Fenomeni similari, anche se meno accentuati, sono avvenuti in Europa e in Usa. Abbastanza, in un momento di crisi generale, per abbassare il prezzo intorno ai 20 dollari/barile, come molti operatori temevano.
E invece un vero inverno con temperature rigide, sulle due sponde del Bacino Atlantico, ha funzionato come una gru che ha agganciato i prezzi, tenendoli sospesi al di sopra dei 40 dollari/barile. Come si vede dal Grafico 1, il prezzo del gasolio in Europa è stato condizionato in modo chiaro e diretto dall’evoluzione delle temperature.

Su questo elemento di base si è giocata la stabilità del mercato nei mesi passati. Ovviamente, sul risultato ottenuto c’è un evidente tentativo da parte di molti soggetti di attribuirsene la paternità, in particolare da parte dei Paesi Opec. Da anni questa organizzazione assiste impotente al susseguirsi di sviluppi del mercato, di cui non solo non ha alcun controllo o possibilità di governo, ma spesso neanche la piena comprensione delle dinamiche che generano i prezzi. Questa volta, al loro annuncio di tagli di produzione è sembrato corrispondesse una tenuta, se non un rialzo dei prezzi.
Come fare a non peccare di vanità e attribuirsene il merito? Tuttavia un esame attento degli elementi di mercato (una sorta di DNA) mostra che ancora una volta l’Opec non è il “papà” del rialzo dei prezzi.

Dai Grafici 2 e 3 si vede come la correlazione fra produzione Opec ed evoluzione del prezzo del Brent è di tipo lineare diretto. Ovvero, ad ogni aumento o riduzione di produzione corrisponde, come effetto, esattamente il rialzo o la diminuzione del prezzo. Proprio il contrario di quanto vorrebbero i principi dell’economia.
Parallelamente, si vede su cosa i Paesi Opec abbiano ancora controllo e capacità di intervento. Il Grafico 3 fa capire la correlazione fra la produzione Opec e il differenziale di prezzo fra il Brent e il greggio pesante dell’Arabia Saudita (Arabian Heavy). Qui la correlazione è chiara: se l’Opec aumenta la produzione, il prezzo relativo dei greggi Opec (di qualità medio pesante) perde valore rispetto al Brent e viceversa, quando l’Opec riduce la produzione questo prezzo relativo sale.
Messa quindi da parte ogni illusione che si sia ristabilita una qualsiasi forma di controllo o di intervento da parte dei Paesi Opec sull’evoluzione del prezzo del petrolio, torniamo all’analisi dei fenomeni reali che hanno cominciato, con l’arrivo delle prime rondini di primavera, a spingere i prezzi verso l’alto.

Metterei subito l’accento su un dato statistico. Per una serie di ragioni (crisi economica, rallentamento delle lavorazioni della petrolchimica, produzioni di petrolio costanti), il mercato è sufficientemente rifornito di materia prima, esattamente come in passato. L’andamento delle scorte di greggio negli Usa (unico Paese di cui si conoscano i dati statistici in tempi piuttosto ravvicinati) indica che il greggio è addirittura al disopra dei livelli degli anni precedenti. Ovvero, che i Paesi produttori lo forniscono e che i raffinatori lo comprano, in attesa della campagna estiva per la produzione di benzine. Ciò che manca, e di cui si comincia a sentire l’effetto sul mercato, è la benzina pulita di alta qualità.

Gli stoccaggi di benzina sono al di sotto di quelli dei due anni precedenti e, quindi, nonostante tutte le chiacchiere sulle attese di drammatiche riduzioni nei consumi, si vede che la produzione non è sufficiente a coprire la domanda corrente di prodotto. Continuano quindi le importazioni massicce dall’Europa di componenti di alta qualità del blending delle benzine (viste le limitazioni del sistema di raffinazione americano a fronte delle severe norme ambientali), trasformando un problema locale del mercato americano nel fattore globale trainante il sistema petrolifero mondiale.
Su questo elemento si giocherà l’andamento dei prezzi durante la prossima estate.
Le istituzioni finanziare sopravvissute lo sanno bene e sono già rientrate nella mischia, con più prudenza del passato e molto più in silenzio. Ma sono lì e hanno ripreso le loro attività speculative, contribuendo al rialzo del prezzo e tentando di rimettere un po’ di margini nei loro conti economici.
Dopo una diminuzione del volume di affari della finanza nel cosiddetto mercato petrolifero internazionale (quello di carta, finanziario), verificatosi fra ottobre e dicembre 2008, si può chiaramente vedere dal Grafico 6 che c’è una ripresa delle attività a partire da gennaio/febbraio di quest’anno. Le ragioni sono evidenti. Si scommette su una stagione delle benzine tirata e difficile. E si tenta una grande speculazione.
Nessuno può farci nulla. Nonostante quanto è successo e le dichiarazioni di volontà politica, siamo ancora in piena giungla. Eppure sarebbe molto facile spazzar via gli speculatori puri da questo mercato. Basterebbe introdurre alcune limitazioni sulla dimensione minima delle transazioni (almeno pari alla dimensione di un carico fisico di olio) e rendere possibile la trasformazione del titolo finanziario in acquisto di un carico fisico. Ovviamente, si tratta di materia complessa, ma se veramente si volesse creare stabilità nel mercato petrolifero si potrebbe imboccare subito la strada giusta.
Invece dobbiamo accontentarci dei proclami di paternità dei Paesi Opec sul rialzo dei prezzi e di tante dichiarazioni politiche sempre di “carta” come il mercato di cui si parla.