Due crisi senza soluzioni magiche

di Ugo Farinelli


Non c’è dubbio che la sola affermazione politicamente corretta è quella – ormai sentita cento volte – che “la crisi energetica costituisce una opportunità per uscire dalla crisi economica…”. Ma c’è dentro un senso di déjà-vu che mi induce a fare qualche considerazione e a richiamare alla memoria qualche evento del passato.
Investire in fonti energetiche rinnovabili crea occupazione e reddito ed è anti-recessivo, ci son pochi dubbi su questo: ma lo stesso si può dire per quasi qualunque investimento pubblico.

Negli Stati Uniti del Dopoguerra, l’affacciarsi di una possibile recessione nell’economia dovuta alla strozzatura della produzione militare, ha portato a una rinnovata colossale spesa nella ricerca e nello sviluppo di nuove armi, giustificato dalla guerra fredda. In realtà, le spese per gli armamenti e per la ricerca militare erano anche utilizzate come polmone di compensazione per l’economia, iniettando finanziamenti che rivitalizzavano industrie, settori e aree geografiche a seconda delle necessità militari, certo, ma anche in funzione di spinte politiche che corrispondevano alle fluttuazioni nell’occupazione e nel reddito. Uno strumento di economia pianificata in un contesto di totale liberalizzazione: ma, non per nulla, il settore militare era tenuto completamente separato da quello civile, non doveva esserci nessuna compenetrazione dell’uno con l’altro. Qualunque intervento programmatore nel settore civile era visto come una interferenza con il mercato, come una distorsione della libera concorrenza. Quindi due mani parallele e indipendenti, in perfetta ignoranza l’una dell’altra, una liberalizzante l’altra programmatoria (incidentalmente, con la fine della guerra fredda tutta questa situazione è radicalmente cambiata).
Una critica tuttavia si poteva fare (ed era fatta) agli interventi in campo militare per mantenere vivace l’economia: ed era che la spesa militare non gode di un “moltiplicatore” economico, non è cioè generatrice di nuovi investimenti (privati) e di nuove attività. Il meglio che possa capitare di un’arma è che non venga mai usata; tutte le altre ipotesi sono anche economicamente peggiori. Viceversa quando si investe per esempio in infrastrutture, queste aiuteranno molte industrie a produrre meglio e più efficientemente; una crescita del settore automobilistico incoraggerà il turismo e gli investimenti ad esso legati: insomma ci saranno effetti indiretti, oltre che diretti, sulla generazione di reddito e sull’occupazione. Discuteremo, tra poco, se con gli investimenti pubblici per l’energia ci si possa o meno attendere effetti moltiplicatori.

Un altro ricordo puntuale e forse più pertinente è “l’equivalente morale di una guerra”: questa espressione è stata usata in un famoso messaggio televisivo di Jimmy Carter del 18 aprile 1977, in cui il presidente degli Stati Uniti annunciava il Piano energetico che avrebbe presentato nei giorni successivi al Congresso americano. In realtà “l’equivalente morale di una guerra” è un’espressione che aveva mutuato dal filosofo e psicologo William James (1842-1910) che l’aveva introdotta in una sua conferenza all’Università di Stanford nel 1906: come è possibile sostenere l’unità politica e le virtù civiche di un Paese in assenza di una guerra o di una seria minaccia di guerra? Non inventandosi le minacce di guerra (che come niente portano alla guerra vera), ma trovando un nemico vero, non umano, che James aveva individuato nella “natura”, vista come l’ostilità (o per lo meno la difficoltà) incontrata dall’uomo nella sua lotta per la sopravvivenza e lo sviluppo. James propugnava quindi un servizio civile nazionale organizzato, che aiutasse a combattere la povertà e la fame in tutto il mondo, andando incontro a sacrifici e privazioni personali così come aveva fatto la militia americana fino ai tempi della Guerra Civile.
Oggi questa “guerra contro la natura” non sarebbe certamente un’espressione politicamente corretta, ma la sostanza vale: qualunque cambiamento richiede sacrifici, e per chiedere ai cittadini dei sacrifici occorre motivarli, far leva sulle molle interne etiche che ci sono in ciascuno di noi e che vengono così ben sfruttate (e secondo James, convinto pacifista, snaturate) nel caso di una classica guerra.

Questo diceva sostanzialmente Jimmy Carter nel suo messaggio del 1977. “La crisi energetica è la più grande sfida che il nostro Paese dovrà affrontare durante la nostra vita” (32 anni fa!). “Non ci ha ancora sommerso ma lo farà se non agiamo subito. Possiamo ancora controllare il nostro futuro prima che sia lui a controllare noi…”. “Uscire da questa situazione richiederà grandi cambiamenti. Molte delle proposte che farò richiederanno sacrifici e saranno impopolari”. A quanto pare a quell’epoca c’erano ancora uomini politici che parlavano chiaramente: e pensiamo che era nel 1977, dopo la prima crisi petrolifera ma ancora prima dello shock, assai peggiore, del 1979-80. E a questo punto Carter introduceva il concetto dell’equivalente morale della guerra: solo con questa profondità di motivazione, indirizzata a costruire anziché a distruggere, potremo avere ragione della sfida. Gli anni, i decenni passano, e i problemi restano, anzi crescono. E torniamo quindi ai tempi nostri.

Non prendiamoci in giro. La crisi economica non aiuta a risolvere il problema energetico, né viceversa. Sarebbe bello. Il primo effetto della crisi è l’indisponibilità di capitali per investimenti, sia pubblici sia privati. Le difficoltà non si fermano qui. In periodi come questo di rallentamento dell’attività economica, l’efficienza energetica tende a diminuire: si consuma, è vero, meno energia, ma non in proporzione alla riduzione nella produzione di reddito. Questo perché il sistema produttivo si era ottimizzato a regime, introducendo razionalizzazioni nell’organizzazione e nello sfruttamento degli impianti; i quali, funzionando a singhiozzo o su un numero ridotto di turni, certamente sprecano più energia.
La sola congiuntura positiva in questa situazione (conseguenza della crisi a livello mondiale) è stato il crollo dei prezzi del petrolio. Se dovessimo affrontare questa crisi con il petrolio a 150 dollari al barile, le conseguenze per le famiglie e per il sistema produttivo sarebbero ancora peggiori. Tuttavia si tratta di una dubbia benedizione. Segnali d’allarme molto preoccupanti arrivano da molte parti, come l’Agenzia Internazionale dell’Energia e il World Energy Council. Il petrolio a 40 dollari al barile ha scoraggiato gli investimenti in esplorazione e sfruttamento dei giacimenti, e ha reso antieconomici i giacimenti a maggiore costo marginale. Il problema ormai non sembra più essere “Come si farà a soddisfare la fame di benzina dei cinesi quando ci saranno 100 milioni di automobili in Cina?”; e neppure quello, sperabilmente a più breve termine, “Che cosa succederà quando l’economia mondiale ripartirà?”. Si tratta molto più banalmente di poter continuare a produrre petrolio anche solo al ritmo attuale, per soddisfare la domanda presente.
Gli investimenti, che erano ripartiti con il petrolio ad alto prezzo, sono nuovamente assenti e le conseguenze potrebbero farsi sentire da un momento all’altro. Forse ci guadagneremmo tutti se il prezzo del petrolio risalisse in tempi brevi verso valori intermedi (molte previsioni indicano cifre dell’ordine di 70-80 dollari al barile, ma si tratta di previsioni o di desideri?), prima che la ben sperimentata criticità del rapporto domanda-offerta ci rimandi, ancora in crisi, a valori astronomici.
Investire in energia sostenibile è certamente positivo agli effetti della crisi economica – purché sia fatto in modo considerato, e avendo in mente una strategia complessiva; è ben vero che fabbricare sistemi fotovoltaici crea business e posti di lavoro – certamente più che non pagare le royalty per il petrolio o per il gas naturale. È anche vero però che un sostegno molto generoso per le fonti rinnovabili, come quello attuale, non crea automaticamente posti di lavoro in Italia, ma piuttosto in Germania o in Giappone o in Cina, almeno se non è accompagnato da una politica industriale e soprattutto da una visione strategica adeguata da parte delle nostre imprese.
E sostenere soluzioni che sono lontane dalla competitività (salvo ovviamente che con la ricerca scientifica e tecnologica) potrebbe stornare le risorse da investimenti a maggiore potenziale anti-depressivo. Per esempio quelli destinati ad aumentare l’efficienza d’uso finale dell’energia: si tratta infatti in molti casi di investimenti a costi negativi (cioè che si ripagano in breve tempo con il risparmio sulla bolletta) e che quindi liberano altre risorse da investire che in gran parte chiamano in gioco potenzialità industriali già esistenti nel nostro Paese. Ecco l’effetto moltiplicatore di cui si parlava all’inizio.
In conclusione: cerchiamo per una volta di essere più seri; la situazione – sia quella economica sia quella energetica – è grave e non ci sono formulette magiche per uscirne. La soluzione richiederà sacrifici e mettere insieme le “due crisi” non basterà a risolverle, anche se certamente vanno affrontate entrambe.