Protocollo di Kyoto: quasi un miraggio la definitiva ratifica

di Elio Smedile

Ha chiuso i battenti la ‘IX conferenza delle parti (COP9)’, svoltasi a Milano nelle prime due settimane di dicembre 2003, ed è quindi tempo per commentare “fuori dalla notizia” luci e ombre di questo Vertice sui cambiamenti climatici. In principio le prospettive sembravano essere molto favorevoli. L’Italia aveva ottenuto che il Vertice si tenesse, per la prima volta nel nostro Paese, in coincidenza con l’ultimo mese del semestre di presidenza italiano della Unione europea. Da questi eventi (semestre di presidenza italiano e Vertice sul clima) il nostro Governo si attendeva due significativi successi: da un lato il varo della Costituzione europea e, dall’altro, l’entrata in vigore, dopo sei anni di alterne vicende, del protocollo siglato nel 1997 a Kyoto. Le attese erano che il successo dell’uno trascinasse l’altro e che da ambedue ne derivasse un riconoscimento internazionale dell’autorevolezza del ruolo di mediazione svolto dal nostro Paese. Come tutti sanno, invece ambedue gli obiettivi sono stati mancati e l’immagine del Governo italiano nell’opinione pubblica europea ne è uscita (almeno in parte immeritatamente) appannata.

Come è noto le speranze dell’entrata in vigore vincolante del Protocollo di Kyoto durante la COP9 di Milano, erano risposte sulla ratifica da parte della Russia, il che avrebbe consentito il superamento anche della seconda delle due condizioni necessarie per l’operatività del protocollo (ratifica da parte di almeno 55 Paesi che rappresentino almeno il 55% delle emissioni globali).
Purtroppo già in settembre, alla conferenza mondiale sul clima svoltasi a Mosca, il presidente russo Putin aveva annunciato l’intenzione del suo Paese di congelare l’adesione al Protocollo. In seguito alcune caute aperture di autorevoli esponenti del governo di Mosca e le pressioni poste in essere da parte dei governi occidentali avevano fatto sperare di poter in extremis superare le resistenze russe. Ma fin dalle prime battute del Vertice era apparsa chiara l’indisponibilità dei negoziatori russi ad avviare trattative per la ricerca di una soluzione di compromesso (gradazione dell’impegno russo, possibile coinvolgimento dei due grandi esclusi, l’India e la Cina etc.). Si tenga presente che il niet di Mosca si aggiungeva a quello ben noto e probabilmente definitivo degli Usa (presenti con una delegazione di 60 membri pronti a fare affondare qualsiasi tentativo di avanzamento del Protocollo) e dell’Australia il cui governo ha mantenuto la sua opposizione a “Kyoto così com’è”.
Al di là delle dichiarazioni di facciata, alla base della presa di posizione della Russia vi è un problema di natura finanziaria. Il Paese ha ridotto dal 1990 di oltre il 30% le proprie emissioni acquisendo in tal modo il diritto a disporre di una massa cospicua di crediti di carbonio da immettere sul mercato delle emissioni. È quindi possibile che il governo russo, forte del potere di essere determinante per la ratifica definitiva del Protocollo, non intenda formalizzare la propria adesione prima di aver ricevuto adeguate garanzie circa l’acquisto dei crediti. Se così fosse, ci si potrebbe attendere una ratifica in tempi relativamente brevi, probabilmente dopo le elezioni che si terranno in Russia quest’anno. La situazione potrebbe tuttavia complicarsi se - come ipotizzava il Financial Times del 14 dicembre 2003 - il governo russo dovesse condizionare l’adesione all’ottenimento di concessioni in altri settori quali ad esempio l’associazione alla “ World Trade Organisation”.

Nel corso della Conferenza i grandi organi di informazione europei hanno dedicato molto spazio alle incertezze della Russia e alle conseguenze possibili della sua mancata adesione. È quindi più che naturale che a valle della conclusione dei lavori, nelle corrispondenze da Milano si parlasse di “fallimento della conferenza”, “arretramento del processo di ratifica”, “ naufragio del protocollo”.
Ma un bicchiere può essere visto mezzo pieno o mezzo vuoto. È certamente deprimente che dopo più di sei anni non si sia riusciti ad attivare un protocollo che fissava impegni largamente inferiori a quelli che sarebbero necessari per combattere efficacemente il riscaldamento globale (come è stato ampiamente riconosciuto nel corso della conferenza di Milano). Ma è anche vero che 120 Paesi (tra questi la maggioranza dei Paesi più industrializzati del mondo) hanno sottoscritto il Protocollo e mantenuto, durante la Conferenza, la propria posizione circa la validità di questo strumento. Di questa comune volontà sancita in ambito ONU da un significativo numero di Paesi, nessuno (Stati Uniti compresi) non potrà non tener conto. Come hanno evidenziato le Associazioni ambientaliste presenti a Milano (Greenpeace, WWF, Legambiente etc.) il risultato di COP9 può essere ritenuto soddisfacente perchè nei fatti la Conferenza ha raggiunto l’obiettivo di rendere vano il tentativo di quanti (Stati Uniti in testa) volevano che a Milano si celebrassero i funerali del protocollo di Kyoto. Il messaggio che emerge dalla COP9 è quindi chiaro: si va avanti. Pur se imperfetto, Kyoto non ha oggi alternative credibili, è l’unico accordo internazionale in grado di arrestare le conseguenze del cambiamento climatico. Ovviamente l’assenza degli Stati Uniti continua a pesare come un macigno e non è detto che, anche nel caso di sconfitta di Bush alle presidenziali di novembre, la nuova amministrazione decida un cambiamento di rotta nella politica ambientale USA.

Un secondo punto importante è la posizione dell’Unione europea che a Milano si è mossa con grande determinazione ribadendo l’intenzione di voler comunque procedere, indipendentemente da quando e come sarà reso operativo il protocollo di Kyoto, nella direzione di combattere il cambiamento climatico attraverso una significativa riduzione delle emissioni di gas climalteranti.
La Direttiva 2003/87/CE che istituisce un sistema per lo scambio di quote di emissione di gas serra nella Comunità e stabilisce date vincolanti per la sua implementazione è la conferma che Bruxelles intende andare avanti autonomamente per il raggiungimento (e il superamento) degli obiettivi previsti dal protocollo di Kyoto.
Una posizione dell’Unione europea “distinta e distante” da quella degli Stati Uniti, potrebbe, a giudizio di autorevoli commentatori, rappresentare l’elemento decisivo per il decollo del Protocollo. Inoltre - come ha sostenuto il neopresidente di Legambiente Roberto Della Seta - “Questa è la grande occasione per l’UE di dimostrare che davvero essa può farsi carico di indicare al mondo una strada diversa da quella unilaterale e monoculturale che la globalizzazione dei mercati e lo strapotere statunitense stanno diffondendo”.

Si sa che una delle obiezioni degli Stati Uniti al Protocollo è il timore che la sua attuazione possa incidere sullo sviluppo economico del Paese. Anche in ambito comunitario tuttavia sono riemerse, a valle della COP di Milano, alcune perplessità circa la compatibilità tra rispetto degli impegni di Kyoto e competitività dell’economia europea. Nel Consiglio europeo dell’Energia del 15 dicembre 2003 due Paesi membri (Spagna e Italia) hanno, anche se con diverse sfumature, richiesto di procedere a un riesame dei “costi Kyoto” in rapporto alla competitività dell’economia europea. Queste posizioni di Paesi politicamente vicini agli USA sono state giudicate da alcuni come le avvisaglie di un tentativo di ridimensionamento delle politiche europee sui cambiamenti climatici. Vi sono segnali di nervosismo. Vorrei citare, al proposito, un episodio riferito da Euroactive: alcune dichiarazioni della Commissaria all’Energia, la spagnola Loyola De Palacio che in astratto aveva ipotizzato un possibile disimpegno UE da Kyoto qualora la Russia confermasse in via definitiva di non voler ratificare il protocollo, hanno provocato una durissima replica del capo dell’unità Clima ed Energia del WWF internazionale Stephan Singer che ha accusato la De Palacio addirittura di sabotaggio delle posizioni dell’Unione sui cambiamenti climatici.

Io credo comunque che, al di là dello stucchevole dilemma firma /non firma, nei lavori della COP9 di Milano si possa identificare nei “meccanismi flessibili” il tema centrale della Conferenza. Cosa sono i meccanismi flessibili? Occorre partire da una considerazione: il riscaldamento del pianeta è un fenomeno a scala planetaria, ne consegue che ogni riduzione delle emissioni è efficace indipendentemente dal luogo nel quale viene realizzata. Il Protocollo ha pertanto previsto che le misure nazionali di riduzione potranno essere integrate: a) dalla realizzazione di progetti comuni tra più Paesi industrializzati (Joint Implementation); b) dalla realizzazione di progetti comuni tra questi ultimi e Paesi in via di sviluppo (Clean Development Mechanism); c) attraverso il commercio internazionale dei permessi di emissione (Emission trading).

Il direttore generale del Ministero dell’ambiente, Corrado Clini, intervenendo a una delle Conferenze svoltesi nell’ambito del COP9, ha stimato che il costo di un intervento nei Paesi in via di sviluppo è circa 4 volte minore di quello attuato in un Paese industrializzato. È quindi evidente come esso rappresenti un beneficio sia per il Paese industrializzato (minor costo per ottenere lo stesso risultato) sia per il PVS (avvio di progetti bilaterali di cooperazione economica, acquisizione di tecnologie avanzate, riduzione dell’inquinamento etc.).
In conclusione, una considerazione circa le conseguenze che si avrebbero nel caso in cui non si riuscisse a giungere in tempi brevi alla definitiva ratifica del Protocollo di Kyoto. È, a mio giudizio, probabile che, come avvenuto per altri trattati internazionali, esso rimarrebbe indefinitamente in una sorta di limbo trasformandosi in qualcosa di simile ad un forum scientifico e tecnologico sui cambiamenti climatici.

Io credo comunque che Kyoto abbia già prodotto, ancor prima di entrare in vigore, ricadute importanti a livello internazionale. Molti Paesi hanno avviato interventi che spesso superano quanto previsto dal Protocollo e molti altri stanno per farlo indipendentemente dal destino dell’Accordo del 1997. Anche quelli che giudicano negativamente il trattato e non intendono ratificarlo, hanno avviato programmi che vanno nella stessa direzione di quanto prevede il Protocollo: basti citare, come esempio, per gli Stati Uniti, il “Climate Change Program (ICCP)”.
Da molte parti è stato fatto osservare che il Trattato dovrebbe prevedere una qualche forma di obbligo alla riduzione delle emissioni anche per quei PVS (ad esempio Cina ed India) che contribuiscono in maniera crescente alle immissioni dei GHG. Si noti, a tal proposito, che questi Paesi, pur respingendo decisamente la proposta, hanno nello stesso tempo, avviato programmi per molti versi in linea con gli obiettivi di Kyoto. Ad esempio la Cina ha, fin dal 1998, promulgato una eccellente “Legge sull’Efficienza energetica” che comincia a produrre effetti significativi in termini di diversificazione delle fonti, risparmio energetico, abbattimento dell’inquinamento dell’aria (e di conseguenza riduzione delle emissioni climalteranti). Ma quel che forse è più importante è il fatto che la mera esistenza di Kyoto ha prodotto una vasta sensibilizzazione della opinione pubblica mondiale ai problemi dei cambiamenti climatici. Una notizia per tutte. In un grande Paese quale la Cina che non partecipa al Protocollo e solo in tempi recenti è presente nel dibattito internazionale sui cambiamenti climatici, è stato effettuato da “Canada International Environmental Monitor” per conto del governo cinese un sondaggio di opinioni su un campione di cittadini di questa Repubblica. Il risultato è interessante: il 56% degli abitanti del Paese sono oggi favorevoli ad azioni più incisive per combattere gli impatti delle attività umane sul clima (nel 1997 erano solo il 24%).