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PAUSA-ENERGIA
 
Se ne sentono di tutti i colori Stampa E-mail

di Elio Smedile

ColoriDi norma riservo alla TV le prime ore del dopocena, in funzione soprattutto della provata capacità dell’apparecchio di indurre sonnolenza.
Ma nell’ultimo mese, complice una noiosa convalescenza, ho trascorso più tempo del solito dinanzi al piccolo schermo, dando la preferenza a quelle trasmissioni dalle sedicenti ambizioni culturali meglio definite come talk show. Nel periodo cui mi riferisco, caratterizzato dai quotidiani allarmi sull’inarrestabile aumento delle quotazioni del barile di petrolio, questi parlatoi hanno mostrato una significativa novità rispetto al passato: in tutti gli spazi informativi, dal mattino a tarda sera, era presente il tema dell’energia, finora relegato in alcune trasmissioni dedicate all’ambiente.
L’energia – come i lettori di Nuova Energia ben sanno – che la si consideri dal punto di vista tecnico, economico o politico, è materia difficile da trattare senza un minimo di preparazione di base, altrimenti si scivola inevitabilmente in discussioni generiche di nessuna utilità. Ebbene, l’aver voluto (probabilmente per motivi di audience) inserire l’energia perfino tra i temi delle trasmissioni pomeridiane per le casalinghe (con tutto il rispetto per le casalinghe), ha abbassato straordinariamente il livello dei dibattiti. Il che non sarebbe di per sé un male se il linguaggio fosse divulgativo, ma le informazioni corrette. Viceversa, tra conduttori che non hanno dimestichezza con argomenti tecnici e partecipanti (specie politici) che discettano con sicumera di cose magari apprese da una lettura frettolosa dei titoli dei giornali, gli spettatori sono frastornati da affermazioni discordanti che fanno emergere come verità assolute le tesi di coloro che urlano di più.Quando a tali dibattiti partecipa qualche “vero” esperto, le sue argomentazioni spesso non in sintonia con il comune sentire della sala vengono ascoltate quasi con fastidio e subito interrotte dal conduttore, che per esigenze di scaletta desidera risposte secche e telegrafiche (si o no), ovvero sopraffatte dall’aggressività degli urlatori di turno. Spesso è il presentatore a sopravvalutare le proprie competenze: ricordo che in una trasmissione serale su una rete nazionale, dove si parlava di termovalorizzatori, chi conduceva il dibattito “tappò la bocca” ad un grande esperto della materia affermando: non è come dice lei, in settimana preparando la trasmissione ho letto molto sull’argomento e le cose stanno diversamente da quello che lei afferma.

Non del tutto dissimile è la qualità dei servizi comparsi negli ultimi tempi sulla stampa generalista e in particolare nei periodici a larga diffusione: il tema è trattato con superficialità, spesso vengono riportate inesattezze se non autentici refusi terminologici.
Tutto questo porta ad una considerazione più generale: l’energia è oggi uno dei temi-forza della nostra epoca e le grandi trasformazioni in atto coinvolgono direttamente tutti i cittadini in tutti i momenti della loro vita, da quando fanno rifornimento alla stazione di servizio a quando pagano le bollette di elettricità e gas, a quando devono stipulare un contratto di fornitura.
La “domanda di informazione” è quindi un must per una platea sempre più vasta di cittadini che vogliono conoscere per poter decidere. Ma l’informazione deve essere corretta e il linguaggio divulgativo semplice ed efficace. Purtroppo l’informazione generalista, non solo quella parlata ma anche quella scritta, non sembra avere (tranne alcune eccezioni) queste caratteristiche. Come tutti sanno, oggi la produzione mondiale di energia proviene dai combustibili fossili: petrolio, carbone, gas naturale. Nei prossimi decenni questa supremazia dovrebbe attenuarsi o scomparire per due emergenze principali. Da un lato, la necessità di tagliare drasticamente le emissioni climalteranti per arrestare il processo di riscaldamento globale del Pianeta e dall’altro – come evidenziato dagli avvenimenti ultimi – l’aumento vertiginoso dei consumi che ha fatto emergere nell’opinione pubblica timori circa la finitezza delle risorse fossili (in particolare il petrolio). La percezione corrente nella pubblica opinione è che stia finendo un’era, quella dell’energia abbondante e a buon mercato. Le alternative che vengono proposte in sostituzione dei combustibili fossili sono essenzialmente due, il nucleare e le energie rinnovabili.

Va subito ribadito che, se si analizzano correttamente i dati disponibili e le proiezioni più accreditate, una sostituzione significativa delle fonti fossili si colloca in un orizzonte di medio-lungo termine. Probabilmente questo non soddisfa chi vorrebbe un cambiamento in tempi relativamente brevi, ma è una realtà con cui dobbiamo confrontarci. Il periodo che abbiamo di fronte è una fase di transizione verso la nuova era dell’energia carbon free.

"UNA SOSTITUZIONE SIGNIFICATIVA
DELLE FONTI FOSSILI SI COLLOCA
IN UN ORIZZONTE DI MEDIO-LUNGO TERMINE. PROBABILMENTE QUESTO NON SODDISFA
CHI VORREBBE UN CAMBIAMENTO
IN TEMPI BREVI, MA È UNA REALTÀ"

Questo è il messaggio che gli scienziati, i tecnici, i giornalisti, dovrebbero impegnarsi a far giungere con chiarezza alla gente comune. Quello che si osserva, viceversa, è la tendenza – anche in personaggi e organizzazioni autorevoli – a proporre le classiche soluzioni miracolistiche ai problemi energetici, senza delimitarne gli ambiti di realizzabilità. E poiché spesso anche i media che diffondono le proposte non ne evidenziano i limiti di fattibilità, il lettore pensa che la soluzione sia dietro l’angolo e manchi solo la volontà politica di realizzarla. Ad esempio, nelle trasmissioni radiofoniche basate sul dialogo con gli ascoltatori, è tipico sentire persone assolutamente in buona fede affermare con sicurezza – citando personaggi di chiara fama – che se solo si volesse, in un Paese assolato quale l’Italia il “solare” potrebbe essere oggi l’alternativa globale ai combustibili fossili.
Ecco un tipico esempio dei risultati di una informazione superficiale e distorta. Come superficiali e distorti sono, a volte, gli interventi degli stessi esperti (o presunti tali). Il sociologo Jeremy Rifkin, personaggio di grande notorietà, in un’intervista recente (6 giugno) a Repubblica, dimenticando per un momento la sua “società dell’idrogeno”, ipotizza l’avvento di quella che egli definisce la terza rivoluzione industriale e cioè un “sistema distribuito, dal basso vero l’alto, in cui ognuno si produce la propria energia rinnovabile e la scambia con gli altri attraverso reti intelligenti come oggi condivide l’informazione tramite Internet”.

Il brillante sociologo americano (ospite d’onore di molti consessi nostrani) considera il nostro Paese come l’optimum per applicare questo modello. A domanda dell’intervistatore egli infatti risponde con grande sicurezza: “Voi (italiani) siete messi meglio di tutti: avete il sole dappertutto, il vento in molte località, in Toscana c’è anche il geotermico, in Trentino si possono sfruttare le biomasse”. Le stesse leggerezze non risparmiano il dibattito sul nucleare.
La rinascita di questa fonte viene vista da molti come la soluzione chiave per sostituire i combustibili fossili. Tra i più convinti, il Primo ministro britannico Gordon Brown che ha candidato la Gran Bretagna come il major player nella costruzione in tutto il mondo di 1.000 nuove centrali nucleari. La cifra è quanto meno ambiziosa se si pensa che attualmente gli impianti in esercizio sono 439 e molti di questi andranno dismessi nel breve-medio periodo. Ma l’entusiasmo di Brown si estende anche alle rinnovabili, fonti per le quali lo stesso Primo ministro ipotizza una crescita in Gran Bretagna del 700 per cento nei prossimi anni.
Non che in Italia l’attuale disputa sull’atomo si fondi su basi tecniche, scientifiche e culturali più equilibrate e maggiormente ponderate. Come noto il nostro Paese, che era negli anni Sessanta la terza nazione al mondo per numero di impianti nucleari in esercizio e che dopo il referendum del 1987 aveva abbandonato l’opzione atomica, ha manifestato l’intenzione di rientrare nel club dei Paesi nucleari. Solo gli impianti nucleari consentono di produrre energia su larga scala, in modo sicuro, a costi competitivi e nel rispetto dell’ambiente ha affermato di recente Claudio Scajola, ministro dello Sviluppo economico. Per il ministro è necessario ricostruire competenze e istituzioni di presidio, formando la necessaria filiera imprenditoriale e tecnica e prevedendo soluzioni credibili per i rifiuti radioattivi. A quel punto… potrebbero bastare 5 anni per iniziare la costruzione dei nuovi impianti nucleari.

Molte, chiaramente, sono le perplessità avanzate sia in Italia che all’estero sulla realizzabilità di questo piano. Un primo fattore, tutt’altro che trascurabile, riguarda le risorse umane. Come si farà -ad esempio- a reperire gli ingegneri nucleari necessari per concretizzare un progetto così ambizioso, se da tempo essi non sono più prodotti dalle nostre università?
Al riguardo i dati ufficiali del ministero dell’Università e della Ricerca sono a dir poco allarmanti. Al 1° gennaio 2008 risultavano iscritti a corsi di ingegneria energetica e nucleare soltanto 735 studenti su un totale di oltre 220 mila iscritti a ingegneria: lo 0,3 per cento degli aspiranti ingegneri italiani ha dunque scelto la strada del nucleare. Cambiano poco le cose per quanto riguarda le matricole, coloro che al 1° gennaio 2008 risultavano iscritti al primo anno di studi: 274 “nuclearisti” su 66.266 iscritti a corsi di ingegneria (neppure lo 0,5 per cento). E questa dovrebbe essere la “generazione” di neolaureati che, giusto fra cinque anni dovrebbe prendere in mano praticamente la ripartenza del nucleare made in Italy!
Per non parlare di altre figure professionali (una centrale non funziona di soli ingegneri) che non si possono certo improvvisare da un anno con l’altro. È superfluo aggiungere che questo aspetto è stato affrontato solo di sfuggita dai mass media nazionali. Filippo Cavazzuti, in un pregevole articolo apparso su la voce.info ha posto altri interessanti interrogativi cui – afferma – occorrerà dare risposta per evitare la impervia via italiana al nucleare e cioè gli assetti proprietari dell’industria nucleare, la regolamentazione del settore, le previsione di prezzo dei combustibili (uranio) e la redditività degli impianti.
Altri aspetti che nel dibattito finora condotto di fronte non hanno avuto praticamente attenzione.
Ma torniamo alle rinnovabili. È da qualche tempo che vengono pubblicizzati megaprogetti tendenti a dimostrare che dallo sfruttamento dell’energia solare si potrebbe ottenere energia in grado di soddisfare largamente i fabbisogni mondiali.
Mi limito a citarne alcuni, quali ad esempio quello di cui riferisce un rapporto dell’UNEP (Agenzia ONU per l’ambiente) dal titolo Global Desert Outlook. Il rapporto, pubblicato nel 2006, sostiene che i deserti potrebbero diventare le carbon-free power houses of the 21st century.

Ad esempio – si afferma – in un deserto come il Sahara un’area di 800 per 800 chilometri di deserto potrebbe catturare l’energia solare in grado di soddisfare i fabbisogni del mondo. Uno studio del German Aerospace Center, presentato al Parlamento europeo nel novembre dell’anno passato, ha stimato che imbrigliando l’energia del sole ricavata su appena 6.000 chilometri quadrati di deserto del nord Africa si avrebbe l’equivalente energetico dell’intera produzione di petrolio in Medio Oriente. Lo studio ha calcolato, inoltre, che gli impianti CSP (Concentrating Solar Power) potrebbero fornire il 68 per cento dell’elettricità consumata nel Nord Africa e nell’Europa entro il 2050. Studi e proposte avveniristiche come quelle sopra citate o di difficile realizzabilità (è il caso delle mille centrali nucleari di Brown) sono benvenuti e anche utili per comprendere le potenzialità delle risorse energetiche alternative. Ma occorre che le informazioni su di esse, veicolate dai media e dirette al grande pubblico, chiariscano problemi e prospettive di fattibilità in modo da non suscitare attese irrealistiche. Se stiamo alle stime di una organizzazione autorevole quale l’IEA (International Energy Agency), nell’orizzonte del 2050 il nucleare dovrebbe attestarsi intorno a circa il 6-7 per cento, le rinnovabili all’11-13 per cento. Mentre le fonti fossili, pur in calo, saranno comunque ancora predominanti. Tutto può cambiare, ma la realtà di oggi è questa e non sembra opportuno suscitare speranze ed entusiasmi che non trovano riscontri oggettivi.

 
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