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Orlandi: "Dipendenza dall'estero? È più grave la Sindrome Nimby" Stampa E-mail
di Davide Canevari

Da Energia a Sorgenia. Nome diverso, medesima azienda? Non del tutto. A un paio di anni di distanza da quello che solo una lettura poco attenta dei fatti liquida come un semplice cambio di brand, Nuova Energia ha incontrato l’amministratore delegato Massimo Orlandi. E con lui ha provato a rileggere il recente passato dell’azienda e a delinearne i punti chiave dello sviluppo futuro.

Perché una società come la vostra, a pochi anni dalla nascita, decide di cambiare nome?
La scelta – non facile – è nata da una profonda riflessione strategica; e il cambio del nome è stato solo una delle conseguenze. Al brand Energia eravamo affezionati, e non poteva essere diverso. Siamo nati da zero e in soli 6-7 anni siamo diventati uno dei principali operatori italiani nel settore gas e nella produzione di energia elettrica da fonti fossili. Per essere dei debuttanti, abbiamo fatto tutto ciò che potevamo fare e certamente più di quanto ci potessimo attendere in un primo momento.
Una volta giunti a regime abbiamo – infatti – più che raddoppiato i risultati che ci eravamo prefissi con i primi business plan. A quel punto era inevitabile chiedersi “cosa avremmo voluto fare da grandi”. Puntare ancora tutto solo nelle fonti fossili – consapevoli, però, di operare in un mercato con spazi di crescita contenuti – oppure dedicarci in parallelo a settori innovativi?

Anche perché il quadro di riferimento era cambiato non poco…
In effetti abbiamo conquistato le nostre posizioni in un contesto di discontinuità. Prima dovuta al processo di liberalizzazione dei mercati elettrico e del gas. Poi ad una evidente carenza di generazione elettrica nel nostro Paese, che ha raggiunto il suo culmine nel 2003. Quell’anno il margine di riserva era nell’ordine del 3 per cento; e quando il 23 giugno EdF decise di trattenere 800 MW (qualcosa come l’1,6 o l’1,7 della domanda interna, non di più) si dovette interrompere la fornitura a turno a vari utilizzatori. In quegli anni c’era dunque spazio per nuovi operatori e c’era un gran bisogno di nuove centrali.

Terminato il transitorio, e pianificati una serie di importanti investimenti in nuova capacità di generazione, le prospettive si presentavano per così dire “appiattite”?
Guardando agli anni a venire, era difficile che la domanda di energia elettrica da fonti convenzionali potesse crescere a un ritmo superiore al 2 per cento. Avremmo potuto essere un po’ più bravi del mercato… ma non c’erano certo margini di sviluppo a doppia cifra per una azienda come la “vecchia” Energia. È qui che è entrato in gioco l’interesse per le rinnovabili, un settore nel quale pensavamo di poter avere più chance di sviluppo rispetto agli operatori storici e di grandi dimensioni, grazie alla nostra maggiore capacità di reazione e di adattamento.
Senza decidere di abbandonare o di rinnegare il convenzionale, abbiamo aperto una porta alle rinnovabili e abbiamo sentito ancor più l’esigenza di comunicare che la massima attenzione alla variabile ambientale era il nostro marchio di fabbrica. Questa sensibilità aveva accompagnato fin dalle origini proprio il nostro piano di sviluppo delle centrali tradizionali. Il nostro parco di generazione ha il più basso livello di emissioni specifiche di anidride carbonica tra i produttori, con oltre 2 mila MW installati. In media, il kWh comprato da noi produce 200 grammi di CO2 in meno rispetto allo standard nazionale.

E a quel punto Energia non era più il nome giusto?
Nella percezione comune il termine energia ha tante valenza positive, evoca concetti rassicuranti. Ma inevitabilmente ha anche elementi di negatività (ricorda qualcosa di potenzialmente distruttivo). Inoltre
nel nostro settore di riferimento esistevano 53 ragioni sociali che contenevano la parola energia. Per un’azienda emergente come la nostra, che voleva investire in comunicazione, c’era anche il rischio di essere
confusa o di diluire il messaggio. A quel punto non potevamo più tornare indietro: abbiamo preso coraggio e deciso di cambiare brand. Il nome che ci è stato proposto richiamava i termini “sorgente” e “genio” e ci ha convinti. Condensava i principi della nostra scelta strategica.

Nel 1999, foste il primo nuovo operatore a fare ingresso nel mercato “post-liberalizzazione”. Un evento decisivo per l’Italia, ma che ancor oggi fa discutere... A che punto siamo, dunque, con la liberalizzazione?
Sarei ipocrita se dicessi che la liberalizzazione non ha funzionato; siamo la prova che è stata efficace e che ha permesso anche a un debuttante di affermarsi. Però ci siamo dovuti rimboccare le maniche e non sono mancate le criticità. È inutile negare che gli ex monopolisti hanno avuto – e hanno ancora oggi – una maggiore capacità di influenzare leggi e regolamenti in campo energetico; di fare, attraverso un’azione di lobby, una sorta di concorrenza indiretta. La liberalizzazione è nata quindi imperfetta e non del tutto in linea con le esigenze dei nuovi operatori.
Ripensando a come si è svolto il percorso della liberalizzazione, sinceramente ci saremmo attesi dalle istituzioni un supporto maggiore. A volte, invece, nello Stato ha prevalso la figura di “azionista” (delle big company energetiche) sulla componente di “liberalizzatore”.

Il nostro Paese paga in tutti i sensi una forte dipendenza dall’estero. Cosa si può fare per migliorare una situazione sempre più allarmante?
La scelta di uscire definitivamente dal nucleare, operata 20 anni fa, è certamente una delle ragioni alla base della forte dipendenza dalle forniture di fonti fossili dall’estero. Però credo che l’attenzione vada spostata, almeno in parte, su un altro aspetto. Si parla della eccessiva dipendenza dal gas importato da Algeria e Russia, ed è cosa vera. Ma ci si dimentica di sottolineare come l’Italia sia forse l’unico Paese d’Europa che importa il 15 per cento del proprio fabbisogno di energia elettrica dall’estero. Se c’è una crisi nelle forniture di gas, comunque grazie agli stoccaggi e ad altri interventi, il nostro Paese ha alcune settimane di tempo per reagire. Se, però, si va in difetto di capacità produttiva di energia elettrica, il sistema salta istantaneamente. Quindi l’attenzione non va circoscritta solo al

"FINO A CHE IL GOVERNO
PROMUOVERÀ PRESSO
I GRANDI FORNITORI STRANIERI
SOLO LE AZIENDE DI STATO, CI SARANNO
DISTORSIONI IN TERMINI
DI CONCORRENZA"

reperimento delle fonti. È ancor più grave la carenza di capacità produttiva. E allora entrano in gioco la cultura del no e gli eccessi nostrani della sindrome Nimby, che sono elementi ancora più allarmanti della dipendenza dall’estero.
Voglio aggiungere un altro spunto di riflessione. Fino a che il governo promuoverà all’estero, presso i grandi fornitori di materie prime energetiche, solo le aziende di Stato, ci saranno distorsioni in termini di concorrenza e, in più, si renderanno “impresentabili” le altre aziende. E questa non credo sia la strada giusta per accrescere la sicurezza e la competitività di un Sistema Paese.

A questo punto, proponga la sua ricetta per alleviare la vulnerabilità del nostro Paese nel settore del gas.
La dipendenza del gas nella generazione elettrica è fisiologica; e questo è un dato di fatto. Dovremmo allora muoverci in due direzioni: diversificazione geopolitica dei fornitori e incremento degli spazi concessi ai nuovi entranti. Questo duplice obiettivo si potrebbe raggiungere favorendo nel concreto la costruzione di terminali di rigassificazione al posto dei “tubi”. Per l’immediato futuro si potrebbe cioè rendere prioritario l’ingresso in Italia di gas non trasportato attraverso i gasdotti già esistenti e non gestito dall’ex monopolista. Basterebbe stabilire, per esempio, che entro il 2030 – poniamo – il 30 per cento del gas consumato in Italia debba essere Gnl, non estratto in Russia o in Algeria, non “in mano” all’operatore dominante.

Resta poi aperto il problema della rete elettrica. Sempre più operatori – specie se piccoli e interessati alle rinnovabili – segnalano che il sistema è in forte sofferenza. E che servirebbero grandi investimenti per adeguarlo. Cosa pensa al riguardo?
Se penso all’esperienza della mia azienda, credo che l’attenzione vada spostata su un altro aspetto, che attualmente ritengo prioritario: la corretta gestione e la disponibilità dei dati di misura. Quando immettiamo energia elettrica sulla rete nazionale, riceviamo da Terna un dato che misura l’ammontare complessivo dei nostri kWh. Poi, i singoli distributori locali provvedono a veicolare quell’energia ai nostri clienti finali. Peccato che la somma delle misure che i distributori ci comunicano non coincide con il totale di Terna. Questo crea problemi e lungaggini difficili da immaginare. Pensate che ancora adesso stiamo effettuando verifiche e aggiornamenti sui consumi del 2005, con le disfunzioni che un simile slittamento dei tempi può comportare. Come facciamo, ad esempio, a dire a un nostro utente che tre anni fa avremmo dovuto fatturargli 100 kWh in più e che non lo abbiamo fatto per errori di misura non dipendenti dalla nostra volontà? A questa situazione si è arrivati anche perché ogni distributore fa un po’ di testa propria e non esiste un formato elettronico standard di rilevazione e di comunicazione delle letture. Correggere questa anomalia sarebbe un importante passo avanti per migliorare la vita agli operatori e la qualità del servizio all’utente.

Il nucleare potrebbe ritornare in auge? Solo parole o c’è qualcosa di concreto?

"IL NUCLEARE
È UNA TECNOLOGIA RISPETTABILISSIMA.
MA IN ITALIA NON CREDO CI SIANO
LE CONDIZIONI POLITICHE
PER POTERLO RIPROPORRE"

Parliamoci chiaro. Le centrali a ciclo combinato sono “acqua fresca” per l’ambiente; hanno livelli di emissione molto ridotti per kWh prodotto. Eppure, come Sorgenia abbiamo sperimentato delle incredibili sofferenze per costruire sul territorio italiano una centrale con queste tecnologie. Mi immagino – allora – quale potrebbe essere l’iter necessario per arrivare alla realizzazione di un impianto nucleare, data l’esistenza del Titolo V della Costituzione. Sfido un qualsiasi governo a riuscire a convincere un presidente di Regione ad accettare l’installazione di una centrale sul proprio territorio.
E, a quel punto, il presidente di Regione a convincere il sindaco del Comune prescelto. Il nucleare è una tecnologia rispettabilissima. Ma in Italia – francamente – non credo ci siano le condizioni politiche per poterlo riproporre.

Quanto spazio possono ancora conquistare le rinnovabili?
Non ci si può certo illudere di coprire il fabbisogno energetico nazionale ricorrendo alle sole rinnovabili. L’Italia ha sempre registrato aumenti nella richiesta di energia elettrica, attorno al 2 per cento/anno anche nei momenti di stagnazione dell’economia. Lo scorso anno la generazione da fonte eolica ha coperto circa l’1,5 per cento della domanda. Quindi l’apporto di tutti gli aerogeneratori installati negli ultimi 12-13 anni è bastato appena a coprire l’incremento di domanda verificatosi nel corso di un solo anno.

La Direttiva 20-20-20 è concretamente e compiutamente realizzabile?
Studiando nel concreto la situazione dell’Italia, non si può negare che alcuni obiettivi siano semplicemente non realizzabili. Pensiamo al “20” delle rinnovabili. Visto che al di fuori della generazione elettrica gli spazi di manovra sono contenuti, il raggiungimento del target per il nostro Paese comporterebbe un’aggiunta – a regime nel 2020 – di un centinaio di TWh all’anno da fonte solare o eolica. Significa 50 mila MW in più di pannelli fotovoltaici o aerogeneratori. Mi sembra un obiettivo un po’ troppo ambizioso. E come tale, rischia di essere demotivante poiché irraggiungibile.

Non pochi sostengono che il mercato dell’emission trading potrebbe mettere in ginocchio gli operatori elettrici italiani, rendendoli meno competitivi a causa degli eccessivi oneri.
Non c’è dubbio che gli obiettivi che l’Italia si è data, e che l’Unione europea ci ha dato, ci costeranno parecchio e che rappresentano una missione molto difficile. Il nostro Paese, come successo in altre occasioni, ha portato a casa impegni non del tutto equi. Siamo storicamente dei bassi emettitori di anidride carbonica, rispetto ad altre nazioni europee. La regola del “dobbiamo migliorare tutti”, dimenticandosi a priori del punto di partenza, non è corretta e inevitabilmente ci penalizza.

Nel concreto, quanto crede davvero Sorgenia nel solare e nell’eolico? Quali sono gli obiettivi di crescita nel medio e lungo periodo?
Il business plan presentato lo scorso anno, e ancora in fase di completamento, ha permesso a Sorgenia di diventare il primo produttore nazionale di energia elettrica da fonte fotovoltaica. Questo grazie a 9 impianti da 1 MW ciascuno, già operativi, e ad altri 5 impianti della stessa potenza che dovrebbero entrare in esercizio entro giugno. In questa fonte intendiamo crescere almeno fino a 20 MW. Per quanto riguarda l’eolico, i nostri obiettivi al 2012 erano di arrivare a 450 MW, ma nel business plan attualmente in fase di completamento stiamo rivedendo al rialzo questa cifra, grazie anche alla recente acquisizione (lo scorso dicembre) del secondo produttore francese dell’eolico. Questa azienda ha già 100 MW in marcia, altri 70 autorizzati, e ha ambiziosi progetti di crescita e sviluppo.

Si parla spesso di “campioni nazionali”. Cosa le evoca questo termine?
Credo che l’obiettivo di un Paese non debba essere quello di favorire la creazione o la permanenza di un campione nazionale, ma di facilitare al massimo l’accesso dei cittadini ai prodotti e ai servizi (in questo caso energetici). E non è affatto detto che la strada sia quella di puntare su un’unica azienda leader. Il nostro è un settore che certamente tende all’oligopolio, e ciò è naturale poiché si tratta di un comparto ad alta intensità di capitali. Ma questo non significa che l’ambito competitivo debba restringersi a pochi grandi nomi di scala continentale. Anche perché, se non c’è la spina nel fianco dei minori e viene meno la concorrenza che questi comunque possono muovere, i big potrebbero avere la tentazione di sedersi.

All’estero quali sono i vostri – eventuali – piani di sviluppo?
Come detto, abbiamo già concretizzato un primo importante risultato in Francia. Stiamo cercando ulteriori opportunità – sempre nel campo delle rinnovabili – in altri Paesi. Per il momento, però, non c’è ancora nulla di definito.

Ci potrebbe essere spazio anche per il nucleare?
Abbiamo compiuto un prima scelta importante mettendo “fuori il naso” dall’Italia con l’eolico francese. Preferiamo continuare a muoverci un passo alla volta e in questa fase, sinceramente, il nucleare non è nei nostri piani.

Quanto è importante oggi la ricerca nel settore energetico? Avete qualche collaborazione di rilievo al riguardo?
Guardiamo con grande attenzione e interesse allo sviluppo delle nuove tecnologie. Abbiamo anche creato un fondo di venture capital sulle green technology in California. Si tratta di uno strumento molto efficace per favorire lo sviluppo di alcune importanti tecnologie e si stima che gli investimenti in questo ambito supereranno già nel 2008 quelli nell’information technology.

 
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