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Prezzo del petrolio: una follia preannunciata e ormai inevitabile Stampa E-mail

a cura di Drilling

Nelle passate settimane si è svolta a Vienna la solita riunione dei Paesi OPEC per “decidere” che direzione dare ai prezzi del petrolio. Dopo approfondite discussioni l’OPEC ha deciso di aumentare la produzione dei Paesi membri del 4 % a partire dal 1° novembre 2004.
È interessante analizzare la natura di questa decisione, che contiene in sé tutta la drammaticità della situazione e l’impotenza dello storico Cartello del mondo petrolifero.

La produzione effettiva dei Paesi OPEC viaggia quasi a 30 milioni di barili al giorno, mentre la quota (la produzione ufficiale) era di 23,50 fino a luglio e di 26 ad agosto, ovvero con un divario fra valori dichiarati e valori effettivi fra 3 e 5 milioni di barili al giorno. Perché dichiarare ufficialmente un aumento della quota che non raggiunge nemmeno la produzione effettiva dei Paesi membri ? Il tutto mentre il prezzo del petrolio viaggia intorno a 45 dollari a barile.

Il quadro si complica ulteriormente se si dà un’occhiata al bilancio mondiale della domanda e dell’offerta di petrolio. Il rialzo dei prezzi a livelli storici mai registrati finora si sta verificando mentre il mercato è allagato dall’offerta di petrolio. Secondo le stime dell’Agenzia Internazionale dell’Energia ci sarebbe stato nel terzo trimestre di quest’anno un eccesso di offerta di oltre 2 milioni di barili al giorno. Ovvero, il picco dei prezzi si è verificato proprio in coincidenza con il maggior livello dell’offerta.

Complessivamente durante il 2004 si è verificata una situazione di sovrapproduzione di 1 milione di barili al giorno di petrolio, per cui il prezzo avrebbe dovuto avere un trend in discesa almeno a partire dalla fine del primo trimestre, quando alla domanda corrente si è fatto fronte con una diminuzione del livello degli stoccaggi commerciali. Al contrario, l’evoluzione del prezzo è stata costantemente in salita sia nel primo sia negli altri trimestri, mostrando chiaramente che non è il rapporto globale domanda/offerta che ne governa la dinamica.

Ecco la ragione della decisione OPEC: era fin troppo evidente che l’andamento dei prezzi non è legato alla mancanza di offerta di greggio. Se l’OPEC avesse aumentato in modo effettivo la sua offerta, avrebbe solo sancito la sua totale marginalità sul controllo dei prezzi. Meglio continuare nella commedia di un aumento nominale e lasciar spazio agli analisti e politici di turno per continuare a invocare l’OPEC come il possibile risolutore della crisi dei prezzi.

Ma in realtà che cosa sta accadendo? Perché, con un eccesso di offerta di milioni di barili al giorno, i prezzi continuano a mantenersi a livelli incredibilmente alti? Se si fa un’analisi accurata dei fenomeni di mercato degli ultimi anni per cercare la chiave di questi apparenti misteri che muovono la dinamica dei prezzi, si può vedere che il principale fattore risiede nella crisi del modello storico che garantiva l’approvvigionamento delle benzine sul mercato americano.
Negli anni ’60 il prezzo del petrolio, controllato dalle compagnie petrolifere americane, era talmente basso per cui il costo del trasporto incideva per quasi il 50% del costo totale.

La strategia delle compagnie americane era pertanto di trasportare il greggio nel Mediterraneo (Italia) e nel Nord Europa (Rotterdam) utilizzando il canale di Suez, raffinare il greggio nelle raffinerie appositamente costruite, lasciare sui mercati europei il gasolio e l’olio combustibile e trasportare le benzine sul mercato americano. In questo modo il costo dell’approvvigionamento delle benzine negli USA veniva ad essere dimezzato.

Ovviamente il sistema di raffinazione americano è stato dimensionato in modo da produrre soltanto una parte delle benzine necessarie a quel mercato, perché una parte consistente veniva dal sistema di raffinazione europeo.
L’introduzione delle nuove specifiche ambientali per le benzine americane, introdotte a partire dal 2000, hanno messo in crisi il sistema. Gli USA hanno introdotto le nuove normative senza indurre investimenti nel sistema di raffinazione interno. Pertanto la sua capacità di produrre benzine ‘pulite’ è diminuita. Il mercato americano ha dovuto contare molto di più che in passato sulle importazioni dall’estero e in particolare dall’Europa, dove però la capacità di raffinazione è diminuita. L’Europa, infatti, negli ultimi anni si è riconvertita sempre più al gas naturale e ha eliminato molte raffinerie obsolete. In più, la severità delle specifiche ambientali in Europa è ormai pari a quella americana e quindi a parità di impianti esistenti la benzina “pulita” prodotta è inferiore a quella di qualità tradizionale.

  • I volumi di benzina importati negli USA sono più che raddoppiati a partire dall’anno 2000 (da 500 mila a quasi 1,4 milioni di barili al giorno);
  • le importazioni di benzina “riformulata”, quella pulita, sono praticamente costanti perché l’Europa non è in grado di produrne ed esportarne di più.

Esiste quindi un problema tecnico-commerciale insolubile: quello di garantire al mercato americano l’approvvigionamento di benzine pulite in quantità sempre maggiori (la domanda americana continua a crescere). L’impatto che questo fattore ha sul mercato petrolifero mondiale e sul sistema dei prezzi è enorme. Infatti, per produrre le benzine mancanti al mercato americano, occorre raffinare nel mondo oltre 10 milioni di barili /giorno di greggio.
Sta qui la grande contraddizione dei numeri del bilancio petrolifero mondiale. Infatti, la stima del livello della domanda è fatta in termini di prodotti petroliferi effettivamente consumati e non in termini di materia prima necessaria a produrre questi prodotti.
È come se un mercato impazzito chiedesse rifornimenti crescenti di filetto. Non solo il prezzo del filetto, ma anche quello della mucca salirebbe alle stelle, nonostante le celle frigorifere siano piene di tagli non richiesti dal mercato.
Nella valutazione della domanda globale di carne, l’aumento di quella del filetto sarebbe marginale, ma in realtà la distorsione sul sistema dei prezzi sarebbe enorme.
Questa noiosa, ma necessaria discussione sulle ragioni tecniche che stanno alla base dell’impazzimento del prezzo del petrolio ci dà una chiave di lettura in più per analizzare molte decisioni strategiche prese dall’amministrazione americana negli ultimi anni.
Fino a qualche anno fa la mancanza di benzine nel mercato americano era risolta aumentando la raffinazione, durante l’estate, di greggi leggeri più ricchi di benzine. Il loro prezzo relativo aumentava su base stagionale ma entro limiti ragionevoli. Ogni automobilista del mondo si trovava a pagare un po’ di più per la benzina in estate ma, convinto che fosse un fenomeno stagionale, non protestava.
Oggi la mancanza di infrastrutture negli USA impone almeno a tutto l’Occidente un prezzo non solo della benzina, ma di tutto il petrolio e dei suoi derivati, inaccettabilmente elevato. Con conseguenze pesanti per l’economia globale.
Infatti, proprio quei greggi leggeri che una volta erano usati quasi esclusivamente dai raffinatori del bacino Atlantico per attenuare il picco della domanda di benzine USA, ora sono contesi dai raffinatori dell’Estremo Oriente per la petrolchimica e per la produzione di prodotti più ‘puliti’. Anche nelle città giapponesi, cinesi, coreane la questione ambientale è divenuta fondamentale. Anche in queste realtà, invece di investire in impianti di raffinazione adeguati si è preferito adottare soluzioni di breve termine, utilizzando una materia prima più pregiata (i greggi leggeri, appunto).
Il risultato è la competizione sui mercati internazionali per il controllo di questi segmenti di mercato.
Quante delle evoluzioni politiche, positive o negative, avvenute nelle maggiori aree di produzione di greggi leggeri hanno a che vedere con i fenomeni di cui stiamo parlando ? Il dubbio rimane forte, quando pensiamo che questi greggi sono prodotti, a parte il Mare del Nord e gli stessi USA, in Africa Occidentale (Congo, Angola, Nigeria), Nord Africa (Libia, Algeria), Mar Caspio (ex-repubbliche sovietiche, Iran) e per finire l’Irak kurdo.
A questo scenario complessivo si aggiungono alcuni fattori critici specifici degli Stati Uniti, dove, negli ultimi venti anni:

  • la dipendenza energetica dall’estero è aumentata di quasi il 30% passando da una importazione di 6,8 ad una di 15 milioni di barili/giorno. Il che vuol dire che il 70% dei consumi USA di petrolio sono ora coperti dalle importazioni estere;
  • il rapporto riserve/produzioni USA ha visto accorciarsi l’orizzonte temporale della fine delle riserve nazionali. Ai ritmi attuali di produzione e consumi, entro la fine di questo decennio gli USA dipenderanno totalmente dalle importazioni estere;
  • al contrario, il consumo pro capite di petrolio negli USA resta il più alto al mondo con quasi 26 barili/giorno per abitante. Questo valore è il doppio della media europea, dieci volte più alto dei paesi dell’Estremo Oriente e circa sei volte quello della media mondiale;
  • a fine decennio gli USA avranno bisogno di importare circa 40 milioni di tonnellate di benzine per coprire il loro fabbisogno domestico, ovvero il doppio dei valori attuali;
  • circa l’80% del petrolio negli USA è destinato a produrre combustibili per autotrazione (auto, aerei, trasporti industriali e agricoli) ed è quindi nel medio/lungo termine non sostituibile con altre fonti energetiche. La benzina, in particolare, rappresenta oltre il 50% dei consumi petroliferi.

Verrebbe spontaneo chiedersi: non sarebbe più semplice costruire le raffinerie che servono e trasformare la gran parte del petrolio esistente nei prodotti puliti che servono, piuttosto che alimentare tensioni enormi sui mercati energetici e mettendo a rischio la pace in troppe aree del mondo?
Certamente sì, se non avessimo passato oltre un decennio di credo monetarista che ha spinto le compagnie petrolifere mondiali sotto il controllo dei complessi finanziari, orientandole a una visione strettamente di breve periodo e di massimizzazione dei dividendi.
Non dimentichiamo che uno dei risultati di questa trasformazione (di cui la privatizzazione della nostra società nazionale è parte integrante) è stato anche la perdita della capacità di analizzare i fenomeni. Nel 1999, quando il prezzo del petrolio crollò a 9 dollari a barile, tutte le compagnie mondiali prevedevano il mantenimento di questi prezzi almeno per un decennio. I bilanci e le previsioni di allora sono documenti pubblici.
E lo stesso è avvenuto con la raffinazione. Ritenuta la cenerentola del business petrolifero, si è continuato a ridurne la capacità, senza guardare in avanti di un palmo. Il risultato è davanti agli occhi di tutti: il greggio sui 50 $/barile, perché manca la capacità di produrre abbastanza benzine pulite da greggi pesanti, i soli disponibili dai Paesi OPEC.
Il paradosso è che, sempre dal punto di vista finanziario e di breve periodo, questa crisi va bene alle compagnie petrolifere: i guadagni sono alle stelle. Ma allora chi deve farsi carico del problema se non si può contare sulle imprese petrolifere, ormai fra l’altro privatizzate?
Eppure, una stretta collaborazione economico-politica fra Europa e Russia potrebbe risolvere il problema in tempi rapidi.
Basta analizzare alcuni dati per vedere che la capacità di raffinazione esistente nelle repubbliche dell'ex-URSS è fortemente eccedente le necessità di copertura della domanda locale e potrebbe essere utilizzata (ovviamente con opportuni investimenti di up-grading) per produrre ed esportare le benzine verso i mercati occidentali.
Per brevità evitiamo di entrare in una analisi di alcuni interessanti dati di dettaglio circa le capacità di raffinazione in eccesso proprio in quelle repubbliche prospicienti il Mar Caspio, dove gli impianti potrebbero essere usati per raffinare il greggio scoperto di recente in quelle aree e consentire la esportazione di benzine. Anche qui si potrebbero trovare una parte delle risposte alle crisi politiche in quelle regioni.
Ma, starebbe bene agli USA una dipendenza energetica non già, come nel Dopoguerra, da un’Europa strategicamente alleata e militarmente dipendente, ma da un blocco economico quale potrebbe essere una Russia, anche se da raffinerie controllate da imprese europee?
La complessità di queste domande non lascia immaginare risposte nell’arco di questo decennio. La crisi irakena ha ormai spezzato gli equilibri storici del mercato energetico e, per anni, non ci saranno entità o meccanismi che possano garantire stabilità o controllo.
In questo scenario le compagnie petrolifere che sapranno muoversi con abilità vedranno aumentare i loro guadagni e le loro posizioni di mercato, ma non faranno alcun investimento per risolvere i problemi sul tappeto. Il prezzo del petrolio continuerà ad evolversi in modo pazzo a seconda delle contingenze istantanee del mercato. L’Europa avrebbe in mano una possibilità storica di spostare il baricentro dello sviluppo economico verso il versante orientale del bacino Atlantico assumendo un nuovo peso politico nello scenario mondiale.
Ma siamo solo all’inizio di questa storica partita per il controllo del mercato energetico. L’Irak è solo la prima mossa di una certa importanza. Infatti, ha fatto saltare quello che sembrava ormai un dato di fatto negli equilibri fra compagnie petrolifere europee e americane: influenza americana in Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati, influenza europea in Iran e Irak. Al di là di schermaglie diplomatiche, sembrava che questa ripartizione di aree di influenza fosse in fondo condivisa.
Il precipitare della crisi petrolifera negli USA e la dimensione raggiunta dalla concorrenza asiatica nel settore petrolifero hanno spinto Bush a rimescolare tutte le carte in gioco. Una presenza massiccia di Russia ed Europa in Irak avrebbe dato a questi Paesi un ruolo strategico nel controllo degli approvvigionamenti petroliferi mondiali nei prossimi decenni.
Forse questa oggettiva integrazione di fatto (geografica ma sempre più economica e politica) fra Europa e Russia nel settore energetico, che va dal gas e può arrivare alla fornitura importante di prodotti finiti (evitando all’Europa ingenti investimenti nel settore della raffinazione), viene vista come una potenziale minaccia aggiuntiva nello scenario della crisi petrolifera americana.

 
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