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PAUSA-ENERGIA
 
INCHIESTA: gli italiani e i rifiuti Stampa E-mail
a cura della redazione

DIFFIDO, ERGO PROTESTO
Sono passati quasi quattro secoli da quando il filosofo Cartesio scriveva “cogito ergo sum”. E altri 220 da quando Goethe, passeggiando per le calli di Venezia bacchettava gli abitanti della città lagunare. “Sono rimasto colpito – scriveva - dalla grande sporcizia delle strade, facendo di conseguenza alcune considerazioni. Tanto più è imperdonabile la sporcizia della città, che per sue caratteristiche potrebbe essere tenuta pulita; tutte le vie sono pavimentate, e anche i quartieri più periferici hanno almeno i marciapiedi di mattoni; dov’è necessario, nel mezzo il terreno e un po’ più alto e sui lati ci sono degli scavi che raccolgono l’acqua e la portano a canali coperti. Altri intelligenti ritrovamenti architettonici del progetto primitivo attestano come gli eccellenti edificatori di Venezia si proponessero di farne la più pulita delle città, così come la più straordinaria”.
Oggi, in pieno 21° secolo la “filosofia del rifiuto” (nelle varie accezioni del termine) ha coniato un nuovo motto: “diffido dunque protesto”.

Quanto è oscuro il sacco nero
In effetti gli italiani sembrano voler chiudere il problema dei rifiuti urbani in un sacco (nero), quasi fosse un male da esorcizzare, magari da nascondere, certamente da non affrontare. Forse perché affrontarlo significherebbe chiamarsi in gioco in prima persona. E di questi tempi sembra più facile alzare una barricata o incatenarsi al cancello di un cantiere di quanto non lo sia modificare le proprie abitudini domestiche o fare della raccolta differenziata un personale obiettivo e non una semplice bandiera di comodo.
Così si assiste al paradosso del teorico appoggio plebiscitario e incondizionato alla separazione di carta, plastica, vetro e metalli in regioni dove a stento si raggiunge l’obiettivo del 10 per cento di raccolta effettiva. Oppure, alla numerosa schiera di compatrioti che pur dichiarando di non temere a priori le emissioni dei termovalorizzatori e di riconoscerne la necessità quando devono “giocare in casa” si oppongono poi a priori alla loro realizzazione.
E che dire della contraddizione spazio temporale dei molti, moltissimi, che si dichiarano contrari a spendere anche solo un centesimo di euro in più per smaltire i rifiuti al di fuori della loro regione… ma nello stesso tempo non vogliono sentire parlare di impianti all’interno dei propri confini? È come se un vegetariano convinto si opponesse alla coltivazione di frutta e verdura nel suo territorio.
Peccato che quello dei rifiuti non sia un semplice sfizio o un gioco delle parti, ma un problema che sempre più sta soffocando l’Italia.

Montagne e colline
Il primo dato che salta agli occhi in questa indagine è il fatto che gli italiani tendano a sottostimare il problema. Sono convinti di produrre semplici colline di rifiuti, quando in realtà sono vere e proprie montagne. Otto italiani su cento si illudono di buttare in pattumiera meno di 200 chilogrammi/anno di rifiuti solidi urbani. Più o meno quelli che realmente si producono in 5 mesi. Un altro 46 per cento stima la quantità in meno di 450 chili. La risposta, purtroppo, corretta (oltre 450 chilogrammi/anno) è stata indicata da un numero minore di soggetti: il 42 per cento degli intervistati. Pochissime le differenze in base al sesso e all’area geografica. Salta invece all’occhio positivamente il dato relativo all’età. I giovani sono i più realisti (nel 50 per cento dei casi), mentre solo il 36 per cento degli over 55 anni “azzecca” la risposta giusta.
Riempito il sacco nero, bisogna smaltirlo. E come? Alla domanda “sa dove vanno i rifiuti prodotti dalla sua famiglia”, gli intervistati hanno risposto in modo sorprendentemente positivo. Oltre la metà del campione, per l’esattezza il 54 per cento, ha risposto affermativamente, con punte del 63 per cento nel Nord Est e del 64 tra i giovani. Anche nel Mezzogiorno, pur gravato dal problema rifiuti, un cittadino su due ha palesato il suo senso civico, dichiarando di sapere dove vengono trattati i rifiuti che ha prodotto. Ancora una volta, trascurabile la differenza delle risposte tra maschi e femmine.
Anche la lunga strada che in molti casi i rifiuti italiani devono percorrere prima di trovare una sistemazione è cosa ormai risaputa, di dominio pubblico. L’83 per cento degli interpellati - con picchi del 91 per cento al Sud - ha dichiarato di essere a conoscenza del problema. Ebbene sì, “molti rifiuti prima di essere smaltiti viaggiano per centinaia di chilometri”.
Caspita, davvero un bell’esempio di civiltà. Gli italiani sembrano al corrente delle varie tappe compiute dai loro rifiuti verso la catarsi. Per sapere se si tratta di vera sostanza o solo di facciata, bisogna però aspettare le domande successive.

Pecunia non olet
I soldi non hanno odore, citava una celebre massima attribuita a Vespasiano. Ma la pattumiera sì. Eppure gli italiani sembrano prendere in poca considerazione il problema del costo dello smaltimento dei RSU. E questa è certamente una stranezza. Caspita, sappiamo quanto spendiamo per la benzina, per l’Ici, per l’Rca dell’auto, ma sui rifiuti...
Alla domanda “ha idea di quanto paga in un anno per lo smaltimento dei rifiuti” 48 italiani su 100 si sono arresi di fronte all’ignoranza. Il 69 per cento dei residenti nelle regioni del Nord Est paga a scatola chiusa senza sapere quanto. Più attenti i giovani (il 70 per cento degli under 34 anni dichiara di conoscere le proprie spese per lo smaltimento dei rifiuti). Le donne – forse a sorpresa, vista la presenza di non poche casalinghe tra le intervistate – hanno riconosciuto di non sapere con una incidenza superiore a quella degli uomini. Tra l’altro, come ben sanno gli statistici, anche tra i “sì” si annidano certamente dei “no”, visto che non era prevista la riprova, ovvero la dichiarazione della cifra effettivamente spesa.
Se la metà degli italiani non sa quanti soldi escano dal portafoglio, solo 7 su 100 dichiarano di essere favorevoli all’ipotesi di spendere di più pur di vedere i propri rifiuti smaltiti al di fuori della regione di residenza. Ci sono punte del12 per cento nel Sud e del 10 per cento tra i giovani. “Forse sarei disposto a pagare di più perché vengano smaltiti al di fuori della mia regione… ma non mi sembra giusto”, ha azzardato qualcuno. “Sono convinto che i nostri governi, presenti e futuri, per risolvere il problema devono obbligare le regioni a trovare le soluzioni, naturalmente, all’interno del loro stesso territorio”; “il governo deve por fine alla danza dei rifiuti lungo le strade d’Italia e rifiutarsi di spendere soldi pubblici a favore di regioni negligenti” sono state alcune risposte tipo. La parola d’ordine è quindi la stessa per quasi tutti: “Il rifiuto è mio e lo gestisco io”. Già, ma come?

Da problema a risorsa?
Forse con i termovalorizzatori… Dopotutto si tratta di sistemi che trasformano un rifiuto in kWh e calore. E questo gli italiani non lo ignorano, anzi. L’88 per cento del campione intervistato da Nuova Energia ha dichiarato di “essere a conoscenza del fatto che dalla combustione si può ricavare energia elettrica”. Il dato ha impressionato favorevolmente. C’è – tra l’altro – una distribuzione abbastanza equilibrata delle risposte tra le varie zone d’Italia e tra i sessi. Solo valutando i dati in base all’età si scopre qualche differenza di rilievo, con i più giovani consapevoli delle opportunità di bruciare rifiuti nel 90 per cento dei casi e gli anziani solo nell’81.
La sorpresa maggiore arriva, però, dalla successiva domanda: “Crede che le emissioni dei termovalorizzatori siano dannose per la salute umana?” Vietato dare per scontato la risposta. No, a sorpresa, la maggior parte degli italiani non considera a priori dannose le emissioni. Tutto sommato l’avversione dichiarata è stata molto rara. Gli italiani che hanno paura (“Ormai il territorio è devastato, non si può mettere un termovalorizzatore”) e legano il concetto di termodistruzione a quello di tecnologia obsoleta (“potrei anche essere favorevole, ma servirebbero tecnologie moderne”) sono stati molto meno numerosi del previsto.
Solo il 21 per cento propende per il “sì, credo che le emissioni siano dannose” (con punte del 26 per cento al Sud). La risposta più gettonata è “non so” (accomuna il 52 per cento degli italiani), ma i “no” prevalgono comunque sui sì, con una media nazionale del 26 per cento e un sorprendente picco del 62 per cento nella fascia di età tra i 35 e i 54 anni. Ancora più sorprendente vedere come i maggiori timori siano stati riscontrati tra i giovani (il 52 per cento teme che le emissioni siano dannose) mentre al di sopra dei 35 anni, tra le 429 persone sentite (Acerra compresa!) nessuna ha risposto sì. Singolare! Domandina provocatoria: le scuole hanno mai pensato di approfondire il dibattito sui rifiuti in maniera davvero costruttiva, visto che i maggiori timori sono proprio tra i più giovani?

La “cattiva” tra i cattivi
D’altra parte, se gli italiani temono un po’ i termovalorizzatori, sono letteralmente terrorizzati dalle discariche. Domanda: “La preoccupa di più una discarica o un termovalorizzatore?”. Risposta: il 60 per cento degli italiani “condanna” la discarica, il 31,2 per cento mette entrambi sullo stesso piano. Meno del 6 per cento del campione pensa che il termovalorizzatore sia la soluzione peggiore. Nel dettaglio, qualche dato che sembra andare in controtendenza, visti i titoli dei giornali di questi ultimi mesi: al Sud la percentuale di coloro che ritengono i termovalorizzatori più rischiosi è al di sotto della media italiana. Tra gli over 55 anni neppure tre italiani su 100 temono la termovalorizzazione più della discarica.
Sorprendente? Forse, a meno di tornare sul vero fulcro della questione. L’atteggiamento degli italiani oscilla tra la non conoscenza e il timore di essere comunque “presi in giro”. Più del termovalorizzatore si teme il gestore dell’impianto e l’efficacia dei controlli da parte degli enti preposti.
Ed ecco che il dietro front nei confronti del termovalorizzatore si completa proprio sul versante della credibilità. Giusto per lanciare una provocazione: se titolari della costruzione, gestione e controllo di questi impianti italiani fossero il governo svedese o svizzero, tra i nostri compatrioti ci sarebbero meno preoccupazioni?
A questo punto diventa del tutto trascurabile il fatto che bruciare una quantità superiore di rifiuti producendo energia consente di produrre più kWh, dunque di bruciare meno fonti tradizionali riducendo gli inquinanti. E che il petrolio si estrae (e dunque tende ad esaurirsi), mentre i rifiuti si sottraggono solo ai cassonetti, e nella nostra società non c’è certo il rischio di un esaurimento. Rimane sempre il tarlo del “sì, però poi chissà cosa esce davvero da quel camino…”.

Se Kyoto va in fumo
Esce molto meno di quanto ci si possa aspettare, affermano gli esperti di settore. “Effettivamente le tecnologie attualmente impiegate – confermano all’Amsa di Milano – consentono di avere emissioni di gran lunga al di sotto dei limiti prescritti dalla legge. Di fronte alle conseguenze della continua crescita dei rifiuti che produciamo (nella Provincia di Milano, si è passati da 1,692 milioni di tonnellate prodotte nel 1997 a circa 1,932 milioni di tonnellate prodotte nel 2001), la raccolta differenziata e il riciclaggio sono strumenti fondamentali che però hanno un limite fisiologico. Resta, dunque, una consistente percentuale di rifiuti che deve essere termovalorizzata o messa a discarica.
Termovalorizzare significa utilizzare l’energia prodotta dall’incenerimento dei rifiuti per la produzione di energia elettrica e per il teleriscaldamento, riducendo il numero delle centrali per il riscaldamento, eliminando le emissioni inquinanti prodotte da queste ultime e risparmiando petrolio. Milano ha fatto questa scelta e oggi il termovalorizzatore Amsa è un servizio di primaria necessità per la città e grazie al quale i rifiuti sono diventati una fonte rinnovabile di energia. L’impianto Silla 2, infatti, produce calore sufficiente a riscaldare circa 15.000 famiglie ed energia elettrica per far fronte al consumo annuo di circa 80.000 famiglie”.

Integralisti o integratori?
D’altra parte il problema dei rifiuti non si risolve certo in una disputa tra Bianchi e Neri o tra Guelfi e Ghibellini. Non esiste, in altre parole, la soluzione, ma un mix di interventi equilibrati e il più possibile coordinati tra di loro. Non ha neppure senso stabilire se sia meglio lo discarica o il termovalorizzatore perché la risposta giusta è la terza ipotesi: una combinazione ottimizzata delle due, in collaborazione con una adeguata politica di raccolta differenziata.
“In effetti - dichiara Enrico Bruschi, amministratore delegato di Daneco, la società impiantistica del gruppo Waste Italia - una gestione del sistema rifiuti veramente rispettosa dell’ambiente e proficua nel contesto socio economico nel quale viene inserita deve necessariamente utilizzare, in modo equilibrato e integrato, le diverse risorse disponibili per consentire la massimizzazione dei recuperi di materiale e di energia e per ridurre i disturbi arrecati alle popolazioni interessate dalla movimentazione dei rifiuti stessi. Per ottenere questi scopi, come Daneco, ci preoccupiamo anche di inserire correttamente i sistemi di trattamento dei rifiuti in un contesto più ampio, sfruttando ogni possibile sinergia col sistema energetico e con le attività sociali e industriali già presenti nelle zone interessate. Daneco, capogruppo di raggruppamenti di imprese appositamente costituiti, si è basata su queste filosofie impiantistiche per proporre sistemi tecnologici coordinati, in grado di risolvere i problemi di gestione dei rifiuti in diverse zone del Sud Italia. È in fase di realizzazione il sistema integrato in grado di gestire i rifiuti dell’area nord orientale della Sicilia: sistema che gestirà 687.000 tonnellate/anno di rifiuti urbani, al netto delle raccolte differenziate, destinando 405.000 tonnellate a recupero energetico e la rimanenza a ulteriori trattamenti miranti a recuperi di materiali”.
Sulla stessa lunghezza d’onda l’esperienza dell’Asm di Brescia, che conferma come sia indispensabile la comunicazione con i cittadini e come la soluzione termovalorizzatore vada intesa come l’anello di una catena articolata, non come una cattedrale nel deserto sulla quale dirottare il problema. La conferma nelle parole di Renzo Capra, presidente di Asm Brescia. “È stato possibile realizzare il termoutilizzatore di Brescia grazie all’ampio e franco dibattito con la popolazione e alla scelta di adottare un sistema integrato di smaltimento dei rifiuti basato sulla raccolta differenziata – Brescia è già arrivata al 40 per cento e l’obiettivo è il 50 per cento - e sul recupero energetico dai rifiuti per produrre elettricità (450 milioni di chilowattora l’anno) e calore per il teleriscaldamento (400 milioni di chilowattora l’anno). Questo sistema rappresenta oggi la soluzione più rispettosa dell’ambiente e consente, solamente a Brescia, di risparmiare 150 mila tonnellate equivalenti di petrolio e di evitare la produzione di 470 mila tonnellate di CO2 l’anno”.

Non lo conosci …e non ti va
Ma torniamo ai termovalorizzatori, così come li vedono gli italiani. Un altro paradosso emerso dall’inchiesta è il fatto che – comunque sia – molti dei giudizi sono stati espressi sull’onda delle emozioni o del sentito dire, senza avere alle spalle un’adeguata conoscenza del problema. Solo 3 italiani su 10 hanno dichiarato di “conoscere qualche impianto di termovalorizzazione in Italia”. Ma come, si prendono posizioni precise e a volte intransigenti, senza neppure sapere che “quel coso” di fianco a un’autostrada o al margine del proprio quartiere è “la cosa” di cui stiamo parlando? Come giudicare il sushi un piatto immangiabile e sfilare coi cartelli di fronte alle pescherie, senza essere mai entrati in un ristorante giapponese o avere assaggiato la pietanza.
Eppure questo è il dato di fatto. Il 73 per cento dei residenti nel Mezzogiorno, il 70 per cento degli adulti, il 68 per cento dei maschi… riconosce di non conoscere. Tra l’altro, vale anche in questo caso un appunto già mosso in precedenza: anche tra i “sì” si annidano certamente dei “no”, visto che non era prevista la segnalazione di uno specifico impianto come controprova. Da sottolineare come anche nel Nord Ovest, a pochi chilometri da Brescia o Milano, le risposte negative abbiano sempre superato quelle positive. Ma... il 60 per cento degli italiani non dichiarava di sapere dove vanno a finire i suoi rifiuti?
Nel percorso intricato di questo tortuoso rapporto tra gli italiani e i rifiuti, alla fine al termovalorizzatore viene comunque concessa una chance. Gli italiani, in fin dei conti, restano dell’idea che “sia comunque necessario che parte dei rifiuti da loro prodotti vengano trattati con la termovalorizzazione”.
Se il 30 per cento non si pronuncia, solo il 5 per cento nega la necessità. Ben il 65 per cento risponde, invece, affermativamente. Anche nel Sud Italia – ennesima sorpresa di questa inchiesta – solo il 6 per cento degli interpellati dichiara di ritenere inutile a priori la soluzione del termovalorizzatore. Si nota un leggero incremento delle risposte negative al crescere dell’età, ma siamo sempre su valori molto, molto contenuti.

Vicino sì ma non troppo
Ma soprattutto – a parole - gli italiani non si dichiarano contrari a priori “alla presenza di un termovalorizzatore nella loro città o quartiere” Sorprendente: 31 connazionali su 100 sono d’accordo, 28 sono contrari, 41 non si pronunciano. Man mano che ci si sposta verso Sud, calano i sì e crescono i no, comunque non in maniera traumatica (rispettivamente, 25 e 30 per cento). Perché allora l’annuncio di ogni nuovo impianto si traduce nell’immediata creazione di comitati di opposizione; ma soprattutto, perché i giornali a quel punto parlano di un’opposizione da parte della popolazione quasi fosse una posizione indistinta e condivisa?
In ogni caso, per pura provocazione, si può ricordare a quel 69 per cento di italiani che o non si pronuncia o nega il suo assenso alla realizzazione di un impianto nelle vicinanze della propria abitazione, che sempre loro – e nel 93 per cento dei casi – hanno negato l’ipotesi di spendere di più per vedere i propri rifiuti smaltiti fuori casa.

CDR, chi è costui?
La figura del Calimero, nell’inchiesta condotta da Nuova Energia, spetta al combustibile da rifiuti. La sigla, nonostante sia apparsa più volte sui quotidiani anche in questi ultimi mesi, è sconosciuta a oltre l’85 per cento degli intervistati. Qualcuno – tra chi ha risposto sì - ha sparato improbabili acronimi del tipo “centro di raccolta”, “centro di riciclaggio”, o “CDR me lo sono andato a cercare perché conoscevo solo i CDRom”. I colleghi giornalisti interpellati hanno subito pensato al “comitato di redazione”. Qualche bancario ha suggerito “conti diversi da regolare ”. Il numero di chi, realmente, sa che cosa siano i combustibili da rifiuti, cala ulteriormente. Però guai a parlare di CDR, perché allora tornano fuori picchetti e occupazione.

Ripensare la comunicazione
La morale di tutto ciò? Quello che emerge in maniera inequivocabile da questa indagine è il fatto che sul tema rifiuti ci sia informazione scarsa sul consumatore finale, considerato troppo spesso un semplice utente di un servizio (lo smaltimento, appunto) e non la pedina fondamentale della filiera. In questo la responsabilità spetta certamente ai media (soprattutto quelli divulgativi), ma anche agli enti – tranne rari encomiabili casi - e agli organismi a vario titolo coinvolti nella raccolta, nel trasporto e smaltimento dei rifiuti solidi urbani. Non è certamente casuale il crollo di fiducia espresso dagli italiani nei confronti dei controlli. È il sintomo più evidente di un grave scollamento tra enti pubblici e cittadini.
Il fatto per certi versi più preoccupante è aver rilevato che questo atteggiamento di fondo è assolutamente anelastico rispetto allo status sociale e alla professione svolta. Passando dal docente universitario all’esperto di pubbliche relazioni, dal disoccupato all’imprenditore, non si notano, di fatto, scostamenti nell’atteggiamento generale. Unica eccezione (ma questo non stupisce e non vuole certo essere una nota di colore), i portinai di condominio, costretti sulle loro spalle a non chiudere gli occhi e a non tapparsi il naso come unico atteggiamento “propositivo” nei confronti dei rifiuti.
“I risultati dell’inchiesta – conclude Fabrizio Scuri, presidente di Cogeme - alcuni dei quali abbastanza sorprendenti, comunicano, nel bene o nel male, che le attività di informazione e sensibilizzazione delle aziende rispetto a questi temi non hanno dato soddisfacenti risultati. Rimane ancora un senso di sospetto verso chi gestisce gli impianti e sarebbe interessante, in una prossima occasione, valutare se vi sono differenze significative tra aziende private o pubbliche. La nostra società, che opera nel settore della raccolta e dello smaltimento rifiuti con propri impianti, è al 100 per cento delle comunità locali e questo ci ha spinto in modo particolare a curare l’aspetto dell’informazione ai cittadini e alle scuole, con significativi investimenti. L’indagine, quindi, ci fa dire che le aziende devono ripensare le loro strategie e attività in questo settore, e che le istituzioni pubbliche si devono maggiormente impegnare nella formazione dei cittadini, anche a scuola. Ad esempio, quando i cittadini immaginano di arrivare all’80% di raccolta differenziata, di non avere impianti sul proprio territorio, di non pagare di più e di continuare a produrre i rifiuti”.



 
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