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Quotazioni del petrolio, "speculando" alla Einaudi Stampa E-mail

di G.B. Zorzoli

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La versione completa è disponibile solo sulla copia cartacea della rivista
Piccola confessione pubblica. Meno di due anni fa al momento di licenziare il nostro saggio Un mondo in riserva io e Guglielmo Ragozzino abbiamo avuto la tentazione di inserirvi la previsione di un prezzo del greggio a breve termine intorno a 80 dollari/barile, rispetto ai 70 allora raggiunti per la prima volta. Onestamente ipotesi più elevate non le abbiamo nemmeno prese in considerazione, pur essendo convinti che prima o poi si sarebbe arrivati ai mitici 100 dollari al barile. Alla fine abbiamo rinunciato, perché non eravamo sicuri che nel corso della vita media di un libro del genere quota 80 sarebbe stata realmente raggiunta. Venti mesi dopo la realtà ha largamente superato le nostre aspettative. Le quotazioni del WTI hanno varcato, e non di poco, la soglia dei 90 dollari, mentre su Il Sole 24 Ore del 2 novembre si parla esplicitamente di una possibile quota 100, anche se il quotidiano aggiunge che “molti analisti sono convinti che, una volta raggiunta quota 100, ci sarà una profonda correzione”. D’altra parte anche dopo avere superato per la prima volta quota 70 gli analisti hanno formulato pareri analoghi. In effetti le quotazioni del petrolio sono poi scese fin sotto i 60 dollari, arrestandosi però a livelli largamente superiori a quello da cui erano partiti; nella successiva risalita hanno superato il picco precedente per ridiscendere quindi di nuovo, anche questa volta senza raggiungere i livelli di partenza, e da questi minimi più elevati sono ripartiti per iniziare l’attuale corsa all’insù.
È pertanto realistico assumere che in un eventuale assestamento rispetto alle attuali quotazioni del greggio si verifichi un’analoga isteresi dei prezzi, interpretabile come effetto concomitante di fattori strutturali, che provocano una tendenza di lungo termine alla crescita, e di interventi speculativi in senso stretto, cioè di acquisti massicci di future, che forzano temporaneamente le quotazioni verso l’alto, salvo poi spingerle al ribasso quando per rientrare dagli investimenti chi ha speculato decide di venderli. Per verificare la fondatezza di questa ipotesi occorre individuare l’esistenza o meno di fattori “strutturali” e chiarire cosa si intende per “speculazione in senso stretto”.

"SPECULATORE È IN GENERE PAROLA CHE
NEL LINGUAGGIO COMUNE VIENE USATA
IN SENSO DISPREGIATIVO, MA
L'ACCEZIONE ORIGINALE DEL TERMINE
È
SPECULATOR, COLUI CHE GUARDA IN AVANTI...
"

“Speculatore” è in genere parola che nel linguaggio comune viene usata in senso dispregiativo, ma l’accezione originale del termine è speculator, colui che guarda in avanti: Luigi Einaudi cinquanta anni or sono in una delle sue prediche inutili scrisse che speculatore è uno che vede più in là, e non necessariamente un malvagio. Al tipo sociale dello speculatore inteso come colui che punta su affari (e profitti) di corto respiro, Einaudi opponeva infatti l’arte di «speculare», ossia guardare più lontano della visione corrente. Della prima categoria fanno parte gli operatori finanziari che al NYMEX di New York o all’IPE di Londra puntano al rialzo per il rialzo: insomma, i classici speculatori di Borsa. Ma non solo. Sulla loro scia corrono a investire anche molti piccoli risparmiatori, che in Un mondo in riserva abbiamo emblematicamente identificato nel parrucchiere di Denver, Colorado, pronto a investire i quattro soldi che ha messo da parte, con la speranza di lucrare sostanziosi guadagni da ulteriori aumenti delle quotazioni; in questo tentativo agevolato dal fatto che all’atto della transazione basta anticipare solo una cifra intorno all’1 per cento o anche meno del valore nominale del future, per partite di petrolio relativamente piccole corrispondenti a poche decine di migliaia di euro. Spesso incapace di realizzare al momento giusto, il barbiere di Denver ci rimetterà dei soldi, ma anche questo fa parte delle regole del gioco: il parco buoi non esiste solo nelle Borse di casa nostra (ma la medesima sorte può capitare anche a un colosso dei future come Refco, fallito a fine 2005). I fattori “strutturali” sono viceversa quelli che portano gli speculatori alla Einaudi a privilegiare l’ipotesi di una tendenza rialzista dei prezzi sul lungo periodo. Costoro sembrano innanzi tutto convinti che la domanda al di là di fisiologiche oscillazioni tenderà a crescere ancora nel prossimo futuro e - indipendente - mente dall’entità assoluta delle riserve esistenti - la capacità di offerta attuale e tendenziale faticherà a soddisfare le crescenti richieste da parte dei Paesi attualmente in forte sviluppo, a cui potrebbero aggiungersi diversi Stati africani, grazie alla ripresa delle loro economie trainata dal rincaro delle materie prime. Di qui la permanenza nel tempo di tensioni latenti, pertanto molto sensibili, come sta avvenendo in questo periodo, alle variazioni delle scorte di greggio, benzine o gasoli, soprattutto in un Paese grande consumatore come gli Stati Uniti, e al comportamento delle aree petrolifere a rischio, oggi in numero così elevato da rendere molto probabile che almeno in una di queste si verifichi a breve una crisi in grado di compromettere, in parte o in toto, la relativa disponibilità di petrolio.
Un altro fattore che muove gli speculatori alla Einaudi è la scarsa capacità di raffinazione, per cui basta il fuori servizio di una importante raffineria per mettere in crisi il sistema, evento che tende a verificarsi con crescente frequenza in quanto gli impianti sono quasi tutti molto vecchi, circostanza che aumenta la probabilità di guasti e il numero di manutenzioni programmate. D’altra parte gli investimenti in nuove raffinerie sono quasi tutti localizzati in Paesi produttori di petrolio, con il risultato di accrescere da un lato la dipendenza dei Paesi consumatori anche per i prodotti finiti, dall’altro di allargare anche per questi ultimi le aree a rischio.

"UN ALTRO FATTORE DI GRANDE RILEVANZA E LEGATO ALLA TIPOLOGIA DELLA DOMANDA, SOPRATTUTTO PER QUANTO CONCERNE LA BENZINA"

Un altro fattore di grande rilevanza è legato alla tipologia della domanda, soprattutto per quanto concerne la benzina. La forte domanda di benzina “ecologica”, in particolare sul mercato americano, determina il prezzo a cui vengono venduti i petroli più pregiati, quelli cioè che contengono in misura elevata le frazioni più leggere e hanno percentuali minime di inquinanti, da cui più facilmente si produce benzina di elevata qualità ambientale. Poiché nessuno di questi fattori sembra destinato ad attenuarsi in misura significativa nel prossimo futuro, a loro ben si addice la definizione di “strutturali”, che per quanto concerne il difficile equilibrio fra domanda e offerta si sta arricchendo di nuovi punti interrogativi. Sarà una coincidenza, ma in un periodo caratterizzato da prezzi del greggio alle stelle, a fine ottobre nel corso dell’annuale convegno Oil & Money l’amministratore delegato di Total, Christophe de Mangerie, ha affermato che “una produzione mondiale massima di petrolio pari a 100 milioni di barili/giorno rappresenta a mio avviso un’ipotesi ottimistica”, per cui le compagnie petrolifere “dovrebbero avere come obiettivo la riduzione della domanda”, mentre ancora un anno fa le previsioni dell’AIE parlavano di 120 e più milioni di barili/giorno tranquillamente raggiungibili. Se per de Mangerie questa prospettiva non dipende dall’entità delle riserve esistenti nel sottosuolo e nelle profondità marine, che non sono mai state così elevate come oggi, ma dalla capacità dell’industria di produrre petrolio al ritmo voluto e dalla volontà e anche dall’abilità dei Paesi produttori di svilupparle, l’International Oil Daily del 31 ottobre (altra singolare coincidenza) ci informa che secondo diversi osservatori la produzione di petrolio raggiungerà un massimo intorno al 2012, dopo di che si assesterà a lungo su questo valore, mentre un’eventuale crescita dell’offerta dipenderà soltanto dal contributo dei biocarburanti e dalle fonti non convenzionali (sabbie e scisti bituminosi). Sempre secondo l’International Oil Daily altri esperti prevedono invece il raggiungimento del classico picco intorno alla stessa data, con una permanenza a tale livello per 15 anni, dopo di che inizierebbe un rapido declino. Queste previsioni da parte di esperti del settore sono singolarmente coincidenti con quelle di un’organizzazione a forte connotazione ecologista, come l’Association for the Study of Peak Oil, che colloca il picco del petrolio intorno al 2015: una ragione in più per rafforzare le componenti “strutturali” della corsa al rialzo delle quotazioni. In questa situazione tutt’altro che rosea per i Paesi consumatori, questi sembrano per ora mancare di strumenti in grado di contrastare l’emergenza prezzi, in netto contrasto con l’attivismo di diversi Paesi produttori. Che non riguarda solo il diffondersi un po’ dovunque di spinte nazionalistiche: ultime in ordine di tempo l’Algeria e la Libia, che puntano alla introduzione di norme contrattuali con le compagnie petrolifere più favorevoli ai loro interessi. Così i Paesi produttori del Golfo non sembrano intenzionati a rimanere nel ruolo di investitori sui mercati finanziari internazionali meramente passivi. Ne sono testimonianza le recenti iniziative del Dubai e del Qatar, che hanno portato il primo a possedere il 28 per cento delle azioni del London Stock Exchange, mentre il secondo è arrivato al 24. Insieme, col 52 per cento, possono avere il controllo della Borsa di Londra. Anche l’acquisto del 7,5 per cento del capitale del Gruppo Carlyle da parte del governo dell’Abu Dhabi, per chi conosce il ruolo che questo Gruppo gioca nella finanza internazionale e in alcuni dei più importanti investimenti industriali, fa parte della medesima strategia, che non si limita però a interventi attivi nel mondo finanziario occidentale.

"LA RECENTE APERTURA DEL MERCATO
DEI FUTURE AL DUBAI MERCHANTILE EXCHANGE (DME)
...È
IL SEGNO TANGIBILE DELLA VOLONTÁ DI DIVENTARE PROTAGONISTI IN PROPRIO..."

La recente apertura del mercato dei future al Dubai Merchantile Exchange (DME) che dopo una fase di rodaggio sta prendendo quota, è il segno tangibile della volontà di diventare protagonisti in proprio. Qualcuno è arrivato a scrivere “they would like to shift the center of gravity, elevating the Gulf, with its vast liquidity, into a weighty financial center in its own right”. Analoghe iniziative sono state avviate per quanto concerne la produzione di idrocarburi. L’Abu Dhabi National Energy Co. (Taqa) nel giro di pochi mesi ha portato a buon fine tre acquisizioni nel Canada occidentale: gli asset produttivi dell’americana Pioneer per 540 milioni di dollari, della canadese Northrock Resources per 2 miliardi,della canadese PrimeWest Energy Trust per 5 miliardi. In tal modo, Taqa è ora in grado di produrre in Canada 100.000 barili/giorno di petrolio con riserve intorno a 500 milioni di barili. L’avere concentrato le acquisizioni in poco tempo e in un ’area specifica del globo denota una ben precisa strategia di penetrazione: Taqa è arrivata in Canada per restarci. Come per altro sembra intenzionata a fare nel Mare del Nord, dove ha recentemente comperato per 550 milioni di dollari gli asset della canadese Talisman, che si aggiungono a quelli relativi sia a greggio sia a gas, acquisiti per 694 milioni dalla BP. Anche la strategia degli acquisti segue una logica ben precisa: assumere il controllo di assets che sono troppo piccoli per interessare le major, ma troppo costosi per le imprese minori. L’attivismo dei Paesi produttori non si limita però a iniziative di tipo economico-finanziario. Abbiamo Putin che si fa garante del programma nucleare iraniano, mentre il presidente Mahmoud Ahmadinejad viene accolto trionfalmente in Venezuela, dove sigla un’intesa che non è solo politica, in quanto è stata immediatamente seguita dall’annuncio di una joint venture nel settore sia del greggio sia del gas per lo sviluppo di progetti di E&P in Paesi terzi, a partire dall’America latina. Per le major questa notizia non suonerà certo come una campana a festa. In parallelo, Mosca ha deciso di costruire un gasdotto che veicoli il gas in direzione dell’Oceano Pacifico, cioè parallelo all’oleodotto già in fase realizzativa. Entrambi controllati da monopoli pubblici, aumenteranno l’influenza economica e politica russa nella regione del mondo dove si sta concentrando una quota crescente della ricchezza mondiale (basta pensare a quale presumibilmente sarà la somma dei Pil di Cina, Giappone, Corea fra una decina d’anni). Nel contempo sottraendo quote di idrocarburi al mercato europeo. Questo elenco di iniziative recenti, per altro incompleto, non apporta certo stabilità al settore, giustificando ulteriormente le previsioni rialziste degli speculatori alla Einaudi. A questo punto si pone un ultimo interrogativo: a quale livello i prezzi diventeranno insopportabili, provocando di conseguenza una crisi economica mondiale? All’inizio di questo secolo le risposte avrebbero prevedibilmente oscillato fra i 40 e, al massimo, i 60 dollari al barile. Oggi siamo molto oltre queste cifre e la crisi non è ancora arrivata. Sulle ragioni di questa inaspettata resilienza delle economie dei principali Paesi, risposte innovative ed esaurienti sono state fornite un anno fa al convegno “Petrolio ed economia: un dibattito aperto”, organizzato dall’Aiee (le relazioni sono consultabili sul sito www.aiee.it) a cui rinvio. Tuttavia, anche se ipotizzassimo un’economia mondiale in grado di neutralizzare gli effetti di una ancora più acuta scarsità economica dei prodotti petroliferi, come reagirebbe di fronte ad una sempre meno ipotetica scarsità fisica?

 


 

 
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