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Possa: "La ricerca in Italia? Piedi per terra e meno retorica" Stampa E-mail

di Davide Canevari

“La ricerca in Italia è un settore in cui è necessario liberarsi di molta retorica e frasi fatte, per riuscire ad affermare le reali opportunità che può avere il nostro sistema Paese”. Parole di Guido Possa, viceministro per l’Istruzione, l’università e la ricerca scientifica. Parole che sembrano andare oltre l’abituale coro dei mass media che semplificano il discorso nel classico slogan “In Italia si fa sempre meno ricerca”.

Onorevole, che cosa vuole dire con quella dichiarazione?
Quando si parla dell’argomento troppo spesso si è preda dei molti luoghi comuni. Raramente, ad esempio, si riesce a mettere a fuoco la complessità del lungo processo che dalla scoperta di nuova conoscenza porta alla effettiva possibilità di impiegare questa nuova conoscenza. Un sistema produttivo per “vivere” deve saper presidiare i mercati internazionali, esportando prodotti e servizi, e reggendo la concorrenza degli altri operatori internazionali. In altre parole deve poter interiorizzare rapidamente il cento per cento della nuova conoscenza. È questo il punto critico su cui troppo poco si pone l’attenzione.

Proviamo a valutare la posizione dell’Italia in base a questo metro di giudizio.
Oggi in nostro Paese produce circa il 3 per cento della nuova conoscenza a livello mondiale, “misurata” in termini di pubblicazioni sulle principali e più accreditate riviste internazionali. Questa forma di nuova conoscenza, tuttavia, è ancora lontana dalle applicazioni industriali. C’è poi un secondo livello che riguarda l’innovazione di prodotto, di processo, di servizio, che si misura – ad esempio – in termini di brevetti rilasciati. Ebbene, qui il contributo dell’Italia è nell’ordine dell’1 per cento. Queste cifre devono farci pensare, e dimostrano come sia retorico limitarsi a dire “la ricerca è la risorsa contro il declino di un Paese”. Ciò è vero nella misura in cui vi è la capacità da parte del sistema produttivo di interiorizzare in tempi brevissimi i risultati, di passare dall’articolo scientifico all’applicazione. In Italia è la ricerca industriale finalizzata all’innovazione di prodotto che ci vede assai carenti rispetto, ad esempio, a Francia, Germania, Stati Uniti.

Se l’orizzonte della ricerca è favorire la competitività, non vede il rischio che si punti tutto sulla ricerca applicata trascurando quella di base?
Per sua natura il sistema pubblico è più orientato verso la ricerca di base. Questa in Italia è finanziata più e meglio di quanto si creda. Oggi ci sono 56 mila tra professori e ricercatori che hanno proprio la ricerca come compito istituzionale. Alla loro attività va aggiunto l’apporto degli enti pubblici di ricerca. Nella fisica nucleare, per esempio, rappresentiamo un’eccellenza – riferita alla nostra consistenza numerica – di assoluto rilievo mondiale. Per dare un ordine di grandezza, investiamo più della Gran Bretagna. Il problema è che non sempre si possono fare le scelte più efficaci. La ricerca è un’attività a termine, nonostante Popper sostenga che “la ricerca non finisce mai”. Restando nel campo della fisica atomica, è chiaro che l’attività prodigiosa della prima metà del secolo scorso non poteva proseguire all’infinito; oggi non si possono più attendere enormi progressi a breve termine. In un sistema relativamente poco flessibile come il nostro è difficile redistribuire i finanziamenti, passare in tempi rapidi da un filone di studi ad un altro. Così, spesso, si prosegue su strade meno produttive… per il sistema produttivo.

Nella ricerca oggi ci vuole un disegno globale, una strategia, una politica di base. Condivide questa visione?
Condivido l’importanza e il ruolo della politica, ma non si tratta di un compito di indirizzo specifico. La politica dovrebbe limitarsi a creare l’infrastruttura che permetta di operare al meglio. Deve preoccuparsi di erogare i finanziamenti ai settori che più meritano, deve garantire ai nostri giovani l’effettiva possibilità di inserirsi in gruppi di lavoro, deve attivarsi perché nelle Università venga promossa l’eccellenza, deve stabilire regole trasparenti per la distribuzione delle risorse, deve saper decidere in tempi rapidi, rilevare e segnalare i bisogni che il settore sociale riconosce come prioritari. Personalmente li considero dei “meta - compiti” più che veri e propri compiti.

Quanto investe oggi l’Italia per unità di Pil, e quanto investono i suoi principali competitor?
Secondo le rilevazioni dell’Istat, l’Italia oggi investe circa l’1,17 per cento del prodotto interno lordo in attività di ricerca. Da un lato c’è il finanziamento pubblico – pari circa allo 0,6 per cento del Pil – dall’altro la ricerca privata (praticamente sugli stessi livelli di quella pubblica). Il valore non può essere considerato di piena soddisfazione; merita comunque alcuni commenti. Come ogni statistica, anche la presente va valutata tenendo conto dei possibili errori; e in questo caso – ne sono convinto – i valori pubblicati dall’Istat sottostimato la realtà.

Ci sono attività di ricerca che sfuggono alle rilevazioni?
In primo luogo c’è una difficoltà oggettiva: con l’Università non è facile capire esattamente quanto va alla didattica e quanto alla ricerca. Allo stesso modo si tende a non considerare le ricerche di adattamento del sistema produttivo. Molti degli sforzi delle piccole o micro aziende non vengono comunicati e dunque non possono essere registrati dalle fonti statistiche. Se un costruttore di valvole riceve una nuova commessa da un impianto petrolifero siberiano, certamente dovrà adattare la propria gamma di prodotti a temperature più rigide della norma. Dovrà cambiare i materiali, effettuare prove di laboratorio, operare degli adattamenti. In altre parole, farà ricerca. Molto difficilmente, però, su questa operazione verrà messo il “cappello” della ricerca. La realtà italiana è quindi un po’ più rosea di quanto non comunichi quell’1,17 per cento.

Tuttavia il valore reale potrà crescere di pochi decimali. E questo ci relega ugualmente nelle retrovie tra i Paesi più sviluppati.
Io starei abbastanza attento a stilare classifiche mondiali dei Paesi più virtuosi in termini di ricerca. In Europa le realtà d’eccellenza sono, come noto, la Finlandia e la Svezia che superano il 4 per cento del Pil. Va però detto che una parte consistente della loro attività è nell’ITC, un settore nel quale c’è parecchia “mitologia”, in quanto spesso si considera la progettazione avanzata come fosse ricerca a tutti gli effetti. D’altra parte non è detto che aumentare sempre di più gli investimenti in ricerca sia necessariamente positivo per un sistema Paese.

Ecco un altro luogo comune da sfatare.
L’Unione europea si è posta l’obiettivo di raggiungere entro il 2010 un livello di investimenti in ricerca pari al 3 per cento del Pil: l’1 per cento da fonte pubblica e il 2 per cento da privati. Se ragioniamo fuori dalla retorica, si tratta di un livello troppo alto. Attualmente nei 15 si raggiunge infatti l’1,9 per cento. Quel punto in più rappresenta uno sforzo enorme, e questo per una semplice ragione: non tutti fanno ricerca e dunque non sarebbe equamente distribuito su tutto il settore produttivo. Attualmente solo per un quarto (circa) delle attività che contribuiscono alla formazione del Pil ha senso parlare di ricerca. Certamente, per fare un esempio, non farà ricerca il settore della ristorazione finale al cliente, o il commerciante d’abbigliamento al dettaglio, o lo studio di avvocati. Eppure tutte queste attività contribuiscono alla formazione del Pil. Così quando ci si pone l’obiettivo del 2 per cento di investimento privato in realtà si sta dicendo che le attività effettivamente dedite alla ricerca – come detto, un quarto del totale - dovrebbe destinare l’8 per cento del Pil loro imputabile. È tantissimo, anche perché sono qui comprese attività come la produzione di energia elettrica o la siderurgia che, anche volendo, non saprebbero come investire in maniera corretta cifre così elevate.

I privati investono poco. Come si può indurli ad aprire i cordoni della borsa?
Una delle soluzioni è quella di facilitare il rapporto tra sistema pubblico e produttivo. Questo Governo, in particolare, si è impegnato su due versanti. Il primo riguarda la costituzione di uffici speciali presso le Università, con funzione di collegamento industriale; è nostra intenzione estendere sempre di più il progetto. Il secondo sforzo riguarda lo sviluppo di partnership tra pubblico e privato all’interno di distretti di alto livello tecnologico. Già oggi in Italia ne operano una dozzina; i risultati sono più che soddisfacenti.

Ci faccia qualche esempio?
Torino Wireless, che ha coinvolto l’Università e il Politecnico di Torino, grandi industrie come Telecom Italia, Motorola, Fiat, Alenia, STMicroelectronics, enti locali e istituti bancari, il Ministero. Questo distretto è nato per sviluppare ricerche specificamente indirizzate su tematiche di interesse industriale. Inoltre – come gli altri distretti – si è posto l’obiettivo di sviluppare spin off di imprese (anche micro, purché di alto livello tecnologico) e di promuovere la crescita della cultura della proprietà intellettuale. Meritano poi una menzione Veneto Nanotech (nelle nanotecnologie), Hi-Mec in Emilia Romagna (importanti azioni di partnership tra le università e il tessuto delle piccole e medie imprese), Materiali polimerici compositi in Campania. In Lazio è nata un’esperienza in campo aeronautico e spaziale; in Liguria stiamo partendo con un distretto di robotica “sistemi intelligenti integrati”. In Lombardia ne operano tre: uno sui nuovi materiali, uno sull’ICT e uno sulle biotecnologie; in Friuli Venezia Giulia c’è un altro importante distretto nel settore delle biotecnologie. Come si diceva in precedenza, si tratta di iniziative assolutamente aperte alle realtà di minori dimensioni.

I mass media dicono che abbiamo pochi laureati che proseguono gli studi nel dottorato e, più in generale, ricercatori. È questo il nodo?
Non si può certo dire che il nostro sistema di formazione lesini sforzi e, anzi, dimostra una grande capacità di produrre giovani di punta, in numero superiore alle effettive capacità di assorbimento del mercato del lavoro. Gli sforzi fatti di recente per migliorare la situazione sono evidenti: cinque anni fa c’erano 48.000 docenti e ricercatori, oggi sono 56 mila. Otto mila in più è un bel risultato!

E la fuga dei cervelli è ancora un problema?
Mi ricollego a quanto detto in precedenza: non si può considerare come fuga di cervelli il fatto che neo laureati di eccellenza cerchino all’estero uno sbocco. In Italia c’è la fila per fare ricerca e tutti vorremmo aumentare le possibilità, ma chiaramente le risorse sono quelle che sono. Per questa ragione diventiamo “esportatori” di giovani capaci, molti dei quali – poi – vogliono tornare. D’altra parte la mobilità sotto i 33-35 anni è indispensabile per accrescere le proprie esperienze. È fisiologico. Il problema non va quindi visto in termini di “fuga” degli italiani, casomai di non sufficiente capacità di attrattiva per gli stranieri – già all’Università – da parte delle strutture italiane. Questo anche per l’esistenza di barriere culturali e linguistiche.

Cnr ed Enea possono ancora essere considerati dei centri di eccellenza a livello internazionale?
Per il Cnr non si può fare un discorso unico, poiché è composto da 109 istituti; alcuni di questi hanno mantenuto l’eccellenza. Mi limito a due esempi: nelle nanotecnologie l’istituto di Lecce ha competenze riconosciute a livello mondiale; stesso discorso per le celle a combustibile a Messina. Altri sono un po’ in ritardo, ma nel complesso la situazione è buona. Quanto all’Enea, mi creda, ci lavorano tante persone di grande talento. Indubbiamente, però, l’ente ha vissuto male il dramma della riconversione nucleare e le varie vicissitudini che sono andate ben oltre la sua volontà. È stato difficile – e lo è tuttora – trovare una nuova chiara identità per l’Enea. Non dimentichiamoci, poi, di altre realtà di punta quali l’Istituto nazionale di fisica nucleare (assolutamente al top su scala mondiale), l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, l’Istituto nazionale di astrofisica.

Veniamo ai temi più strettamente energetici. In questo campo come si può far ripartire la ricerca?
Il discorso si focalizza, inevitabilmente, sul problema dell’energia nucleare. L’abbandono di questa fonte da parte dell’Italia ha rappresentato una decisione improvvida, un atto gravissimo, con conseguenze devastanti anche sul tessuto industriale. Decine di migliaia di miliardi di vecchie lire sono stati buttati al vento, tutto il sistema produttivo è stato squassato da quella scelta assurda, in netta controtendenza con la politica industriale che il Paese aveva perseguito nei 20 anni precedenti. L’energia nucleare è una formidabile risorsa, finora utilizzata in piccola parte. Le prospettive di ulteriori sviluppi sono immense. Posso quindi capire lo scoramento di chi ha visto l’Italia abbandonare questi filoni di ricerca.

Sembra quasi che in questo settore abbia ragione Popper. Il meglio deve ancora venie?
Oggi utilizziamo solo l’energia dell’uranio 235, che rappresenta lo 0,7 per cento dell’uranio naturale presente sulla Terra. Impiegare l’uranio 238, utilizzabile nei reattori veloci, significa ampliare le risorse energetiche di un fattore 100. La ricerca per i reattori veloci, l’ampliamento della gamma dei combustibili sfruttabili, lo sviluppo dell’energia del torio (tre volte più diffuso dell’uranio), tutto il discorso dei reattori per la produzione di idrogeno… Le prospettive di ricerca sono davvero sconfinate. Purtroppo per la maggior parte di queste voci l’Italia dovrebbe ripartire da zero e questo non fa che aumentare il rammarico.

A proposito di nucleare, gira voce che sia lei l’ispiratore della ripresa del dibattito in Italia…
Non è vero. Credo che sia più attendibile un’altra voce, quella che vede un contatto tra Berlusconi e Scaroni, in occasione dell’acquisto da parte di Enel del 66 per cento della società elettrica slovacca Slovenske Elektrarne. Da lì sarebbe ripartito il dibattito. Detto questo, vi partecipo molto volentieri e sono personalmente contento di questa prima svolta.

Sembra che in questo momento i Paesi asiatici stiano facendo da traino, e che l’Europa sia un po’ in soggezione…
L’Europa “rosso verde” è diventata timorosa e quindi il coraggio delle nuove iniziative in campo nucleare si è spostato in Asia. Vedo molto bene l’India, ma anche la Cina, la Corea e il Giappone…

L’industria nazionale di settore può ancora avere voce in capitolo?
La leadership tecnologica oggi chiaramente non è in Italia. Da noi è rimasto ben poco, ma quel poco è ancora di eccellenza. Come nel caso di Ansaldo, che produce per il mercato mondiale ottimi generatori di vapore e anche di recente ha vinto una preziosa commessa in California.

La liberalizzazione aumenta la competizione, ma questo non rischia di polverizzare gli sforzi in termini di ricerca?
In generale nelle attività energetiche il rischio è evidente e comprovato dai fatti. Nei mesi immediatamente successivi alla privatizzazione di Enel, Eni (e anche di Telecom) e con l’apertura dei mercati, si è assistito a una flessione molto marcata degli investimenti nei rispettivi comparti. La concorrenza da un lato promuove la ricerca (quella a breve o medio termine, con risultati pressoché sicuri), dall’altro la comprime per quanto riguarda lo sviluppo di progetti di ampio respiro e di lungo periodo. Ebbene, in campo energetico è questa seconda componente a prevalere e quindi la liberalizzazione ha portato - per ora - a una sensibile contrazione delle spese per la ricerca.

Le rinnovabili, almeno a parole, vanno per la maggiore. Nel lungo periodo, secondo lei, saranno comunque la soluzione?
Premetto che abbiamo assolutamente bisogno di fare ogni sforzo per promuovere il risparmio energetico e per avere un mix di combustibili il più ampio possibile. Quindi porte aperte alle rinnovabili. Però stiamo con i piedi per terra. Per il solare fotovoltaico non ci sono reali prospettive di breve periodo per una diminuzione consistente dei prezzi e per un aumento dell’efficienza. Le esperienze di Germania e Giappone, dove il mercato ha innescato un meccanismo virtuoso di sinergie, hanno comunque dimostrato che più di tanto non si può fare. Quanto all’eolico, trascuriamo pure i gravi impatti paesaggistici, soprattutto in certi contesti ambientali. Resta il problema della discontinuità di questa fonte.

Le rinnovabili, insomma, devono dare ancora molto… ma più di tanto non potranno fare?
Certo. E anche la fusione, in tempi ragionevoli, non può essere considerata una soluzione.

E allora?
Guardando a un futuro non troppo in là nel tempo, diciamo il 2020 o il 2030, non resta che il nucleare. È una risorsa sicura, non inquinante, molto diffusa. Certo ci sono tre problemi di fondo: la gestione delle scorie (e anche qui il ruolo della ricerca può essere determinante), la non proliferazione e l’accettazione da parte del pubblico.

Spesso anche un buon progetto inerente le rinnovabili viene bloccato. Figuriamoci il nucleare. E qui il pallino ritorna al ruolo della politica…
In Italia l’atteggiamento della gente nei confronti del nucleare è stato inquinato dalla strumentalizzazione di Chernobyl. Non si è trattato di un guasto ma di un dissennato esperimento che ha causato gravissime conseguenze, comunque contenute in 31 morti nell’immediato e meno di dieci decessi accertati a causa delle radiazioni nei mesi successivi. Inutile quindi evocare, strumentalmente, catastrofi nucleari. Questa è la verità. Eppure oggi centinaia di Comuni italiani si proclamano denuclearizzati, senza sapere cosa significa, circolano equazioni fin troppo assurde come nucleare uguale bomba e c’è un’ostilità diffusa che non si basa su reali dati scientifici.

Torniamo alle rinnovabili. L’Italia pare fuori dai giochi. È ormai troppo tardi?
Qualche attività industriale specifica c’è, soprattutto nel fotovoltaico. Non sono pessimista sulla possibilità che l’Italia dica ancora la sua in questo settore; anche se va sempre considerata per le sue reali dimensioni di nicchia.

L’Enea ha denunciato come in Italia manchi un progetto nazionale per l’idrogeno. Può dare qualche rassicurazione al riguardo?
Proprio al Miur abbiamo organizzato una piattaforma nazionale per l’idrogeno e le celle a combustibile; ovvero abbiamo promosso la convergenza degli sforzi dei vari operatori industriali, degli esperti di ricerca e degli scienziati, dei normatori. L’annuncio dell’iniziativa è stato formalizzato a Bruxelles durante l’incontro della piattaforma europea.

Il Protocollo di Kyoto per l’industria italiana può essere considerato un’opportunità o è un vincolo che ci ha colti un po’ di sorpresa?
Credo che per alcune aziende del settore industriale - energetico possa essere una opportunità se effettivamente il Protocollo spingerà i produttori di energia elettrica a migliorare l’efficienza degli impianti attualmente in funzione, dunque ad operazioni di revamping e di riconversione. Per il resto, limitandoci a una considerazione economica: ci potrà essere inevitabilmente un aggravio e un conseguente trasferimento di costi sui consumatori finali.

La parola globalizzazione è ormai entrata in qualsiasi dibattito e in ogni settore. L’Università italiana come si pone in questo contesto?
Con l’accordo di Bologna è in atto un processo di globalizzazione, meglio di “europeizzazione”, delle nostre università. La scelta della laurea breve cui segue quella specialistica, il cosiddetto “3+2” è forse la principale e più evidente disposizione di questo avvicinamento alla formazione tipica dei Paesi anglosassoni. Naturalmente occorrerà promuovere sempre di più la mobilità degli studenti, così come dei docenti e dei ricercatori, e accelerare i procedimenti in atto per il riconoscimento reciproco dei titoli di studio. Il processo è in itinere ed è ovviamente un requisito indispensabile per poi favorire la libera circolazione dei lavoratori.

La riforma dei cicli universitari con il 3+2 aiuta o “indebolisce” rispetto a qualche anno fa?
Non ci sono formule generali valide per tutti. Personalmente credo che se un giovane ambisce a ruoli professionali di punta non può certo accontentarsi della laurea breve a tre anni, che dà una formazione di medio livello, inferiore a quella erogata dal medesimo corso di studi prima della riforma. Lo stesso meccanismo dei crediti formativi deve essere ancora messo a fuoco nei suoi vari aspetti, soprattutto quando uno studente segue una certo indirizzo nei primi tre anni e poi, magari, decide di cambiare rotta nei due successivi di specializzazione.

Attualmente come sono i rapporti del Governo con il mondo della ricerca?
Per quanto riguarda gli istituti di ricerca direi che i rapporti sono ottimi. I ricercatori hanno ben compreso le finalità del riordino, le proteste iniziali sono rientrate e oggi c’è maggiore serenità e spirito di collaborazione rispetto a due anni fa. Come avevamo sostenuto, i timori si sono rilevati infondati.

E con il mondo accademico?
L’Università è in una fase di maggiore opposizione, anche per le difficoltà a superare la tradizione e la stabilità. Questo Governo ha voluto inserire una serie di riforme che incidono sulle modalità di scelta e di reclutamento di nuovo personale, rendendole più meritocratiche e meno personalistiche. Capisco che questo non sempre è facile da accettare…

La ricerca si identifica spesso con la scienza e la tecnologia. Ma un po’ di umanesimo e di etica non guasterebbero…
Sono sicuramente d’accordo. È assolutamente essenziale la componente etica e umanistica. Personalmente, ad esempio, sono molto favorevole alla legge che disciplina in Italia la procreazione assistita, proprio per i vincoli etici che pone ai ricercatori. Ho molto ammirato, al riguardo, i tedeschi che hanno votato una legge sugli embrioni ancora più restrittiva della nostra, mentre critico l’estremo opposto e super liberalizzato degli inglesi. Più aumentano le tecnologie e le possibilità di ricerca e più si va verso traguardi inesplorati e magari un tempo impensati, maggiori devono essere il rispetto, l’attenzione, l’etica.


 
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