di Sergio Vaccà
Vorrei precisare che, se accetto di intervenire nel dibattito, è perché mi dà il modo di chiarire la discutibilità della proposta di Berlusconi. Resta peraltro da osservare che una ripresa dello sviluppo nucleare comporta – come osserva G.B. Zorzoli – di misurarsi con il rischio della proliferazione, sia di ordigni nucleari sia di bombe sporche. La cosa evidente è che, nella misura in cui il nostro Paese diventasse una potenza nucleare, si verrebbe di fatto a creare una situazione che spingerebbe ad usare impianti e combustibile nucleari in guisa da rappresentare un aspetto ineludibile della politica internazionale.
Al tempo stesso penso, però, che la ripresa dell’impegno nucleare nel nostro Paese potrà avvenire solo accettando di legarlo a quello di Paesi come Francia o Germania, che potrebbero anche accettare, per diverse ragioni, un accordo-intesa di condivisione con l’Italia. Cosa che starebbe comunque ad indicare, specie nella fase iniziale, una sostanziale soggezione del nostro sforzo nucleare e dei suoi possibili sviluppi in campo politico ed economico ad alcuni grandi Stati.
Si tratta infatti di riconoscere che l’Italia, quando decise nel 1987 di rinunciare al nucleare, accettò anche il blocco sostanziale del proprio patrimonio di centrali e in particolare il graduale ridimensionamento dei suoi centri di ricerca e di innovazione tecnologica. Oggi si tratterebbe pertanto di ricostruire o potenziare una parte del patrimonio (che è rimasto in vita), in condizioni peraltro assai difficili, che inevitabilmente comportano un impegno finanziario, umano e di organizzazione della ricerca tale da rendere certamente la ripresa del nucleare un obiettivo molto difficile da conseguire, se non impossibile.
La proposta Berlusconi verrebbe dunque a sottolineare l’esigenza di un’esplicita dipendenza del futuro nucleare dell’Italia dalle specificità dell’impegno francese o tedesco (o di altre nazioni), con tutte le conseguenze economiche e politiche del caso. Questo perché il nostro Paese non può farcela solo con le proprie forze, cioè senza il fattivo coinvolgimento di industrie nucleari straniere e dell’esperienza avanzata formatasi nei rispettivi Paesi. È proprio questo l’aspetto che suscita le maggiori perplessità: la proposta ha un significato preciso se si completa con una politica di fattiva collaborazione con esperienze nucleari straniere, il che sembra rappresentare un impegno di non poco conto che comporta nell’immediato anche un’inevitabile dipendenza del nostro Paese dalle altre potenze nucleari.
Quando in Italia si propone una ripresa dello sviluppo nucleare significa dunque aprire una prospettiva di intensa collaborazione internazionale fra le industrie dei diversi Paesi. La ripresa nucleare solleva pertanto un problema di politica industriale nazionale (e internazionale) non facile da risolvere, ma che non può essere eluso.
Per meglio comprendere l’entità dell’impegno che deve essere affrontato dalle forze produttive del nostro Paese, può essere utile ricordare che, quando nel 1987 il Governo italiano nominò la Commissione presieduta da Paolo Baffi della Banca d’Italia, a questa fu dato anche l’obiettivo di precisare ciò che avrebbe potuto ancora essere salvato per servire in futuro (quanto ad impianti nucleari, strutture di ricerca, processi di lavorazione, eccetera).
La Commissione terminò i lavori, sia pure fra pareri contrastanti, non richiamando però in alcun modo l’esigenza di salvaguardare le strutture di ricerca e il patrimonio conoscitivo esistente. Ciò accadde perché una parte degli studiosi e dei tecnici che facevano parte della Commissione si rendeva disponibile ad assecondare la scelta di abbandonare il nucleare da parte di alcune delle forze politiche, che in quel momento governavano il Paese.
Nonostante gli sforzi che alcune strutture universitarie e alcuni centri di ricerca hanno cercato di svolgere, occorre riconoscere che l’abbandono del nucleare ha influito in modo indiscutibile sulla capacità del nostro Paese di impegnarsi ancora nel futuro.
Aggiungo che il fatto di connettere la ripresa del nucleare italiano ad aspetti decisivi della politica industriale internazionale è l’ulteriore e forse più importante dimostrazione delle difficoltà, dei costi, delle risorse che si devono impegnare per tentare di attuare il rilancio del nucleare patrocinato da Silvio Berlusconi.
Conclusione questa che può essere meglio valutata se si tiene conto che la scelta nucleare non soltanto comporta iniziative e sforzi specifici sulle risorse disponibili nel nostro Paese, ma inevitabilmente mette anche in moto l’esigenza di rivedere altri aspetti della politica energetica e di quella industriale in particolare, specie se si tiene conto che gran parte del “nostro” patrimonio industriale-meccanico è andato perduto.
La proposta di rilancio del nucleare del Presidente del Consiglio si presenta dunque come un’iniziativa che inevitabilmente sollecita forme di collaborazione internazionale che vedono però il nostro tessuto produttivo fondamentalmente inadeguato. Il che si traduce in tempi molto lunghi per consentire al Paese di rimettersi in gioco.
Si aggiunga che, comunque, i risultati che si potranno conseguire sono molto incerti, anche perché in questi ultimi anni le Nazioni che si sono impegnate nel nucleare hanno migliorato di molto il livello tecnologico degli impianti e hanno perfezionato, con specifiche attività di ricerca, il livello di sicurezza dei medesimi.
La proposta Berlusconi rischia pertanto di non raggiungere i risultati previsti, dimostrando che la ripresa del nucleare per l’Italia rappresenta una scelta di politica industriale che si potrebbe anche definire non più alla portata del capitalismo italiano e in ogni caso destinata a scuotere profondamente le strutture produttive del nostro Paese.
La ripresa del nucleare italiano si prospetta pertanto come un’impresa caratterizzata da un notevole grado di incertezza, come una vera e propria scommessa per il futuro.
Il nostro Paese si trova infine a dover affrontare una situazione nucleare assai compromessa dalle vicende di un recente passato che non sembra ormai poter essere superato, anche con eccezionali sforzi di investimento e con un impegno di collaborazione con Paesi più avanzati del nostro. Scommessa che è comunque strettamente connessa alla disponibilità di capitale umano qualificato.
L’impresa nucleare non è tanto contrassegnata da investimenti in capitale tecnico (nucleare, apparecchiature elettroniche, eccetera), quanto dall’apporto di capitale umano qualificato, come dimostra l’esempio della Cina. L’impresa nucleare rappresenta pertanto un’attività produttiva dominata dal progresso tecnologico, ovvero da un progresso tecnologico fondato, sostenuto o integrato nell’intelletto dell’uomo, della sua capacità intellettuale di trasformare le risorse materiali in risorse intellettuali.
È da questa trasformazione che si genera il potenziale di sviluppo dell’energia nucleare.
In questo senso lo sforzo che il nostro Paese deve compiere per produrre di nuovo energia nucleare si può definire come un eccezionale volume di investimenti destinato a produrre un’elevata qualificazione del capitale umano. D’altro canto, qualificare il capitale umano significa puntare decisamente sulla formazione scolastica, sulla creazione di laboratori di ricerca e sullo sviluppo di scambi internazionali che riguardano il mondo delle conoscenze nucleari, così da innescare la graduale edificazione di un potenziale produttivo.
Quanto si è fin qui detto a proposito del ruolo della ricerca scientifica nel nucleare, richiama l’attenzione sulla eccezionalità degli investimenti che devono essere effettuati per garantire un adeguato sviluppo del capitale umano dell’impresa nucleare.
Il fatto che lo sviluppo del nucleare solleciti la collaborazione internazionale con altre imprese conferma ulteriormente la necessità di investire risorse finanziarie rilevanti per essere in grado di coinvolgersi in modo efficace nella collaborazione scientifica internazionale.
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