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Privatizzare l'energia: ancora una soluzione o solo una velleità? Stampa E-mail

a cura di Drillling

Le altalene del prezzo del petrolio continuano a suscitare dibattiti a ruota libera, consentendo a tanti esperti del settore di interpretare i rialzi o i ribassi del prezzo come una conferma delle loro teorie. Nelle settimane passate è stato il turno di Colin Campbell, il teorico della visione millenarista del petrolio.
L’inizio della fine è stato collocato nel 2011. Si tratta di un aggiornamento delle precedenti previsioni, dove l’inizio della fine era stato previsto successivamente per il 1989, il 1995, il 2002 e il 2005. Il dato nuovo del problema sta nelle ragioni che oggi vengono addotte a sostegno della tesi: i crescenti smisurati consumi di petrolio di Cina e India. Il che è veramente un modo singolare di porre il problema. Per una serie di considerazioni, abbastanza note ma spesso dimenticate, che conviene sviluppare. Il consumo di petrolio nel mondo, nel 2005, è stato così distribuito.
Ad una lettura anche superficiale di questi dati appare evidente che la grande idrovora del petrolio è in America del Nord, dove ancora oggi c’è un trend al rialzo dei consumi. Il dato è ancora più allarmante se si considera il consumo pro-capite degli Usa, che risulta essere ben 14 volte più alto di quello della Cina e di 32 volte più grande di quello dell’India. In queste condizioni, dire che la colpa della prossima eventuale fine del petrolio sarebbe da addebitare a Cina e India assume un carattere ideologico e poco scientifico. Come dire, in qualche modo noi ci eravamo accomodati, ora con questi newcomer ci tocca mettere a rischio i nostri equilibri.
Inoltre, credo che il problema sia mal posto, sia perché i dati relativi alla produzioni e alle riserve mondiali non mostrano questa drammaticità, sia perché il vero problema è quello del corretto utilizzo delle risorse e degli investimenti in adeguate tecnologie di trasformazione.

Senza entrare nell’analisi di dettagli tecnici, disponibili in qualunque sito internet specializzato, possiamo certamente verificare che il rapporto fra le riserve disponibili e la produzione corrente risultava di circa 40 anni nel 1994 e risulta essere ancora di 40 anni nel 2005. Gli investimenti delle compagnie petrolifere sono decisi e modulati in modo da mantenere costante il rapporto riserve/produzione. Incrementarlo vorrebbe dire aumentare lo sforzo finanziario e ridurre i profitti degli azionisti; diminuirlo vorrebbe dire mettere a rischio il futuro della compagnia. Se a distanza di oltre 10 anni il rapporto riserve/produzione è rimasto costante, vuol dire che siamo assolutamente in condizioni di normalità. Certo, se dovessimo cominciare ad ipotizzare scenari in cui sia Cina che India, ma anche altri Paesi in via di sviluppo, dovessero muoversi per raggiungere consumi pro-capite in linea con quelli europei o giapponesi, senza neanche prendere in considerazione gli standard americani, si giungerebbe a scenari di consumo drammaticamente elevati, che metterebbero a serio rischio i sistemi produttivi esistenti.
Nei mesi passati, in occasione della discesa del prezzo del petrolio, avevamo presentato una serie di dati sulla base dei quali era evidente che si trattava di un momentaneo fenomeno legato all’andamento climatico nel Bacino Atlantico, con un inverno mite e consumi di prodotti per riscaldamento decisamente al di sotto delle medie stagionali. Avevamo anche dimostrato come l’avvio della stagione delle benzine in America avrebbe nuovamente spinto il prezzo del petrolio al di sopra dei 70 dollari/barile. Non dimentichiamo che il consumo di benzine negli Usa rappresenta oltre il 55 per cento dei consumi di petrolio. L’analisi non era basata sulla mancanza di offerta di greggio, a fronte della indiscussa crescita della domanda, ma sulla ormai sistematica inadeguatezza del sistema tecnologico della raffinazione mondiale nel trasformare i greggi disponibili nei prodotti di alta qualità richiesti dal consumo.

Per meglio chiarire il concetto, nelle automobili non si mette petrolio, ma benzina (sempre più pulita e di alta qualità); negli aerei non si usa petrolio ma kerosene, nelle vetture diesel e nei veicoli pesanti non si mette petrolio, ma gasolio. E così via. Occorre quindi trasformare ogni giorno tutto il petrolio estratto nei prodotti finiti di cui hanno bisogno i mercati finali di consumo. Questa trasformazione è oggi drammaticamente in crisi, a causa della riduzione degli investimenti effettuati dalle compagnie petrolifere negli ultimi decenni in questo settore. Continuo a credere che il problema (che gli economisti puri che parlano di mercato petrolifero non vedono) sia quello della difficoltà crescente di coniugare l’offerta di prodotti petroliferi puliti con la loro domanda crescente nel mondo. Il fattore ambientale è divenuto critico e l’industria petrolifera non è in grado (né interessata dal punto di vista strettamente economico) di dare una risposta globale al problema. Ogni compagnia ha ridimensionato il suo circuito down-stream ed è in grado di fornire prodotti finiti puliti di qualità solo al proprio circuito. Non si è avuta una strategia globale di far business di lungo periodo sulla produzione in eccesso di prodotti di qualità. A fianco alle grandi compagnie, gli operatori indipendenti presenti nel circuito di raffinazione e distribuzione operano piuttosto con ottiche di breve periodo (cash cow) e non sono molto interessate a investimenti importanti ma probabilmente dal ritorno incerto (non è chiaro quali tecnologie prevarranno e quale sarà l’evoluzione delle normative).

Senza l’accettazione di questo modello economico-tecnologico, non c’è una logica all’andamento del prezzo del greggio e quindi non c’è alcun sostegno razionale di qualsivoglia previsione per i prossimi anni. Ad oggi non sembra che queste tensioni strutturali dell’industria petrolifera saranno risolte nei prossimi 10 anni. Infatti, alle tensioni negli Usa e in Europa, via via si vanno sommando quelle dell’Estremo Oriente, dove la domanda ambientalista si va facendo strada. Le politiche di penetrazione della Cina in Africa Occidentale sono anche finalizzate ad accaparrarsi forniture di greggi a basso tenore di zolfo. Basta solo un’occhiata ai dati del mercato americano per capire che il problema resterà di medio-lungo periodo.
In questo nuovo contesto, stanno emergendo alcune nuove criticità. Negli Anni ‘90, sull’onda del neoliberismo e monetarismo imperante, si è proceduto a privatizzare una serie di compagnie petrolifere, specialmente in Europa, forti della convinzione che il petrolio era ormai divenuto una commodity facilmente reperibile e dalla disponibilità eccedente la domanda.
Dal 1982 al 1999 il mercato petrolifero è stato infatti caratterizzato da prezzi bassissimi, tenuti intorno a 16 dollari/barile da una politica di contenimento della produzione da parte dei Paesi del Golfo e da una sommatoria di eventi internazionali (guerra del Golfo e sanzioni all’Irak).

Oggi, improvvisamente si riscopre la valenza strategica del petrolio e delle fonti energetiche. I governi entrano in campo per prendere possesso e stabilire un controllo su queste risorse. Russia, Venezuela, Iran Algeria, Libia, Nigeria, Cina e tanti altri Paesi produttori intervengono direttamente nel processo degli investimenti, rivendicando la proprietà della materia prima e il controllo sui processi di immissione della produzione sui mercati. A suo modo, con una visione debole e di corto periodo, l’amministrazione Bush ha fatto una mossa analoga con l’intervento in Irak e con le azioni di penetrazione nelle ex repubbliche sovietiche. Tutto questo porta però al controllo della materia prima, che è certamente il primo passo nel processo di controllo del mercato energetico.
Ma non consente ai governi di mettere sotto controllo il sistema dei prezzi del petrolio e dell’energia. Il processo di privatizzazione delle compagnie petrolifere rende oggi molto difficile la possibilità di modulare gli investimenti nella tecnologia e nelle infrastrutture necessarie per il governo del mercato petrolifero. A causa delle contraddizioni prima descritte, ormai da anni assistiamo ad un aumento dell’offerta di petrolio (costantemente in eccesso rispetto alla domanda corrente) e ad una crescita dei prezzi sul mercato.

Occorrerebbe investire in raffinerie più sofisticate, dotate di nuove tecnologie. Ma coloro che dovrebbero fare questi investimenti, le compagnie petrolifere, non hanno alcun interesse a realizzarli, perché verrebbero così eliminati i colli di bottiglia del sistema, rendendo disponibile tutta la potenzialità dell’offerta di petrolio trasformata in prodotti finiti. Con il risultato di farne scenderne i prezzi e far diminuire i margini oggi cospicui.
Certamente sarebbe velleitario riproporre meccanismi di pubblicizzazione di ciò che è stato privatizzato negli scorsi decenni, ma occorre ripensare a forme di intervento dello Stato (o entità come la Ue) nel settore petrolifero ed energetico per andare al di là della crisi odierna, che può solo aggravarsi in futuro. Non si deve e non si può confondere il processo di liberalizzazione dei sistemi di distribuzione a basso livello (benzinai, grossisti, importatori di prodotti, supermercati,...) con il governo del mercato petrolifero internazionale, che oggi è sfuggito a qualunque forma di controllo.
Basti pensare all’Italia.
Sulla base dell’eredità del passato, le raffinerie costruite negli Anni ‘60, continuiamo a produrre benzine in eccesso rispetto al fabbisogno nazionale. Il risultato non è un prezzo più basso sul mercato italiano, ma un prezzo più alto rispetto agli altri Paesi europei. Infatti, la parte più pregiata delle benzine viene esportata verso il mercato americano, dove si ha una remunerazione più alta.
Una lettura più attenta e di merito di queste modificazioni del mercato energetico potrebbe fornire una chiave di lettura molto efficace di gran parte delle tensioni che oggi si verificano sullo scacchiere internazionale.
Senza nuove tecnologie non sarà possibile conciliare i legittimi interessi dei Paesi industrializzati e di quelli in via di sviluppo. Ad esempio lo standard di vita americano, con un consumo di 26 barili pro-capite, con quello della Cina. Come pure non si potrà non tener conto delle aspirazioni della Russia, la cui produzione energetica risulta vitale per l’Europa. La questione energetica ci obbliga sempre più a cercare soluzioni concrete, rivedendo modelli che, a distanza di un decennio, appaiono obsoleti e sempre più ideologici.

 
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