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Arrigoni: "Cosa manca nel PNIEC? Un po’ di sano pragmatismo..." Stampa E-mail

Arrigoni:“Cosa manca nel PNIEC?
Un po’ di sano pragmatismo...”

di PAOLA SESTI


Prende avvio con questo numero di Nuova Energia un confronto apparecchiato intorno a una tavola, non necessariamente rotonda ma comunque virtuale, dove ragionare sulla situazione energetica italiana con alcuni esponenti della nostra classe politica.

Il tentativo è quello di dare vita a un dialogo a distanza sui programmi e gli obiettivi al 2030 e al 2050, anche con uno sguardo europeo. Il primo ad accettare l’invito è il senatore Paolo Arrigoni, responsabile del dipartimento Energia della Lega. Lo incontriamo sorridente, nonostante sia reduce da una lunga coda in un ufficio postale; cosa che ce lo rende subito umanamente simpatico. E da buon ingegnere, dopo qualche battuta sulle commissioni (intese come incombenze e come gruppi di lavoro parlamentare), impiega pochi attimi per entrare nel merito della questione energetica.


Green Deal europeo e PNIEC. Per andare oltre una mera dichiarazione di intenti e di indirizzi, quali interventi sono necessari e urgenti - e attraverso quali traiettorie - per conseguire gli obiettivi sfidanti al 2030 e al 2050?
Il
Green Deal prevede che al 2050 l’Europa sia climaticamente neutra, con una riduzione ulteriore delle emissioni di CO2 già nel 2030.
Questi obiettivi impattano ovviamente anche sul PNIEC. Ma ci si dimentica che il mondo produttivo italiano ha già fatto investimenti e programmi necessari per traguardare gli obiettivi 20-20-20, sostenendo costi che vanno già a incidere sulla competitività delle nostre imprese.
E ci sono chiesti nuovi sforzi - e quindi ulteriori costi - quando il nostro Continente è responsabile per il 10 per cento delle emissioni globali mentre, contestualmente, altre nazioni come Russia, Cina e India non si sono poste obiettivi vincolanti di riduzione della CO2.
Poiché da sempre siamo vicini al nostro tessuto imprenditoriale, siamo preoccupati per un possibile innalzamento degli obiettivi al 2030. Andrebbe rivisto anche il criterio premiante previsto dal
Just Transiction Fund, che favorisce Paesi come la Polonia e la Germania dove ancora sono attive molte centrali a carbone e che hanno programmi di decarbonizzazione al 2036-2038 (contro il nostro piano al 2025). Andrebbero invece sostenuti quei Paesi, come l’Italia, che hanno già investito nella decarbonizzazione, sostenendone i costi.

Il mondo cambia a una velocità impressionante e la crisi che stiamo attraversando ha acuito questo fenomeno. Forse anche in tema di energia e ambiente serve ora il coraggio di prendersi alcune responsabilità, o meglio una comune responsabilità. La nostra classe dirigente è pronta ad abbandonare la demagogia e a collaborare per affrontare una riflessione seria che porti a proposte concrete?

Il buonsenso mi porterebbe a dirle che ha ragione, bisogna che le forze politiche collaborino per traguardare quegli obiettivi che servono per salvare il nostro bellissimo Pianeta. Ci abbiamo provato; la tutela dell’ambiente e il contrasto ai cambiamenti climatici dovrebbero essere argomenti comuni a tutti. Ma le posso dire che dopo 204 emendamenti presentati al Decreto Cura Italia, e tutti bocciati, i dubbi aumentano... Intanto quasi nessuno - nemmeno chi si riempie la bocca dell’ambientalismo più ideologico - sembra interessato al fatto che ogni anno più di 200.000 tir carichi di rifiuti attraversano la penisola da Sud a Nord. Se li mettessimo uno dietro l’altro in una ipotetica colonna, sarebbe lunga 3.300 km! Quale impatto hanno a livello ambientale?
Il problema di base è sempre lo stesso: si fa solo demagogia. E così, ancora, si preferisce non sfruttare le georisorse disponibili, pur avendo una dipendenza energetica del 78 per cento (contro la media UE del 54) e importando il 93 per cento del gas. È una contraddizione. Non parliamo poi della plastica. Abbiamo voluto addirittura anticipare i tempi e mettere al bando prodotti monouso, senza pensare che la metà della produzione europea di questi articoli è frutto del lavoro di aziende italiane.
Ma non è solo una questione economica. Si sta demonizzando la plastica nel suo complesso, quando con l’emergenza Covid si è visto quale importanza rivesta nella nostra vita e per la nostra salute.

Quando si parla di sviluppo sostenibile, spesso è presente il rischio di centrare il problema solo sulla sostenibilità ambientale, trascurando o addirittura eliminando altri fattori in gioco come la sostenibilità economica e quella sociale. Cosa fare affinché ci sia una maggiore aderenza alla realtà di Piani nazionali, provvedimenti e decreti?

Come ho già detto, il PNIEC prevede obiettivi sfidanti ma se lo analizziamo nel dettaglio sono molti i dubbi che sorgono. Quando si parla di produzione da rinnovabili non si può pensare solo al fotovoltaico, dimenticandosi di idroelettrico e geotermico. Ma anche nel settore dei trasporti, il sostegno è dato solo alla mobilità elettrica. E gli altri combustibili? Non si può non considerare il GPL, il metano, e anche i nuovi diesel Euro 6... Il parco circolante esistente non può essere rinnovato solo con l’elettrico, vanno promossi incentivi anche per gli altri carburanti. Non è solo un nostro pensiero, anche altre forze di maggioranza hanno presentato emendamenti in questo senso.
Ma è proprio il buon senso che sembra mancare nei decreti e nei Piani nazionali. Nel Decreto Clima - per fare un altro esempio di scostamento dalla realtà - sono previsti incentivi solo per gli autobus elettrici, che ad esempio nelle zone montane sono difficilmente utilizzabili.
Abbiamo presentato diversi emendamenti, chiedendo almeno di incentivare i bus Euro 6 per il trasporto scolastico. Nulla; nel passaggio dalla Commissione Ambiente all’Aula sono stati bocciati, nonostante l’appoggio iniziale di una parte della maggioranza. Sarà interessante - ahimè - vedere tra un anno quanti autobus elettrici saranno stati acquistati.

“L’economia circolare non si fa senza gli impianti”. Come si coniuga questa affermazione con la Sindrome Nimby, con l’estrema frammentazione delle politiche ambientali territoriali, con la lentezza burocratica che mina la certezza agli investimenti?

La risposta sarebbe semplice: bisogna fare proposte con pragmatismo. Tutti oggi parlano di economia circolare, ma servono delle pre-condizioni per poterla attuare. Esiste una gerarchia dei rifuti: bisogna innanzitutto parlare della loro riduzione, del recupero di materia ed energia, del riutilizzo e solo in ultima analisi di discarica. Per fare tutto questo servono gli impianti; non realizzarli e continuare a esportare rifiuti significa alimentare la criminalità organizzata e con essa un giro di traffici illeciti che si aggira sui 20 miliardi/anno.
Mancano i termovalorizzatori e gli impianti di compostaggio nel Centro-Sud, mentre quelli esistenti tra una decina di anni avranno bisogno di interventi di ammodernamento che, se non prontamente realizzati, porteranno a una perdita di almeno metà dei 6 milioni di tonnellate di capacità di trattamento attuale. Se mi passa uno slogan, “rifiuti zero, mille impianti”: questo va fatto, e va fatto velocemente, per metter in pratica realmente un processo di economia circolare.
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