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Clima e infezioni non devono viaggiare insieme Stampa E-mail

Clima e infezioni non devono viaggiare insieme

di ELIO SMEDILE


In un articolo apparso negli ultimi giorni di aprile su Le Monde Eduard Bard ha messo in relazione le due maggiori crisi globali del nostro tempo: la pandemia causata dal Covid-19 e il cambiamento climatico.

A giudizio del giornalista francese si potrebbe primariamente escludere che la diffusione del virus possa essere ritenuto di origine climatica. Ciononostante – aggiunge – l’attuale pandemia potrebbe fornire spunti ai climatologi in previsione della diffusione accelerata del riscaldamento globale prevista per i prossimi decenni. La crisi causata dal coronavirus costituirebbe quindi una sorta di prova generale, un crash test per le società umane. È una tesi suggestiva ma - a parer mio - nel concreto difficilmente sostenibile.

Va peraltro segnalato che le interrelazioni tra cambiamento climatico e pandemie sono state già analizzate in differenti contesti, dando seguito spesso a molteplici interpretazioni. Tra esse, la più corrente è quella per cui lo
spillover del Covid 19 possa essere stato determinato dalle migrazioni di specie selvatiche per effetto dalla perdita di habitat causata dal cambiamento climatico. A tal proposito lo scienziato americano Aaron Bernstein è persuaso che se si vuole prevenire la diffusione di agenti patogeni occorre anzitutto non trasformare il clima, perché questo costringe le specie a venire a contatto con altre che potrebbero essere vulnerabili alle infezioni.

Quando si tratta della diffusione dell’infezione attraverso diversi potenziali percorsi - afferma lo scienziato - il cambiamento climatico è una forza destabilizzante. Per quanto concerne il rapporto salute/ambiente, il collegamento ha fatto riemergere alcuni interrogativi concernenti il rapporto tra la salute umana e gli squilibri ambientali e più specificatamente il modo con cui gli inquinanti ambientali possono alterare la risposta immunitaria e facilitare l’azione di virus e batteri. Questa alterità sembra trovare conferma in un contesto particolare del nostro Paese, quello dell’area più fortemente industrializzata del Nord.

In quest’area, infatti, dove si registrano i tassi più elevati di inquinamento atmosferico e del suolo, si sono per primi sviluppati i maggiori focolai del Covid-19. Per inciso, occorre far presente che allo stato attuale non vi sono dati di riconosciuta validità scientifica che provino l’esistenza di una correlazione diretta tra la severità di una pandemia e la (pessima) qualità dell’aria e del suolo di una determinata regione. D’altro canto, sicuramente le popolazioni di determinate aree della Pianura Padana sono esposte a un inquinamento dell’aria che certamente bene non fa all’apparato respiratorio e non è quindi infondato ipotizzare che esso possa essere un co-fattore che determini la durezza della pandemia.
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