COOKIE
 
PAUSA-ENERGIA
 
Spezia: "Non è così facile coltivare l'energia" Stampa E-mail

di Davide Canevari

..Pioppeti nel Piacentino

Tra gli slogan più alla moda in questi ultimi tempi, quello forse più sbandierato invita a coltivare l’energia nei campi italiani. Piacenza, terra a vocazione agricola (di alta qualità), sembra rispondere all’appello con un certo scetticismo. O meglio,con un misurato realismo. “L’opzione delle coltivazioni energetiche estensive nelle nostre pianure non mi sembra una soluzione così facile e appetibile”, commenta Mario Spezia, assessore all’Agricoltura e vice presidente della Provincia. Una dichiarazione che sembra andare contro il consensus generale. Ma che si basa su dati concreti e riflessioni ben precise. “Oggi in Italia – prosegue Spezia – una centrale a biomasse per reggere il ciclo economico deve pagare il cippato pre-essiccato a un prezzo variabile tra i 40 e i 50 euro a tonnellata. Questo valore comprende, tra l’altro, i costi di trasporto che sono significativi poiché questo materiale ha un peso relativamente contenuto e occupa un volume elevato. Il prezzo di acquisto riconosciuto all’agricoltore è quindi certamente inferiore. Ebbene, non esiste una produzione agricola, nella nostra zona, che «costi» così poco. E quindi, che renda così poco all’azienda agricola”.

Però ci sono sempre gli aiuti…
È vero, nel nostro contesto le produzioni dedicate possono avere un senso solo se adeguatamente supportate da contributi ad hoc. Ma qui entra in gioco un’altra variabile. Occorrono garanzie di lungo periodo sul mantenimento degli incentivi. Dopotutto i Certificati Verdi hanno una durata di 12 anni e la Politica agricola comunitaria massimo di sette anni, poi interviene una revisione. Mentre il ciclo di vita di una caldaia a biomasse, tipicamente, è di 15 anni. Insomma, per decidere se attivare o meno un progetto non si può contare esclusivamente sugli aiuti; non si può ragionare solo sull’esistenza di contributi a fondo perduto. Il sistema dovrebbe avere la capacità economica di reggersi in piedi indipendentemente dalle sovvenzioni; altrimenti prima o poi va incontro a qualche problema. L’unico prodotto che davvero può essere impiegato, dal punto di vista di vista economico, è la mazza di mais, prodotto finale di scarto oggi impiegato per la concimazione del terreno. Oppure la ramaglia.

Occorre però fare attenzione alle reali quantità in gioco.
Infatti. Un MW di potenza installata ha un fabbisogno medio di circa 10 mila tonnellate di biomassa ogni anno. Il piano energetico regionale dell’Emilia Romagna ha previsto l’installazione di 300 MW di centrali a biomasse di questa tipologia; il che significa garantire 3 milioni di tonnellate di materia prima ogni anno. Diciamo che a Piacenza potrebbero essere richiesti una trentina di MW, per rimanere in linea con le aspettative regionali. Oggi, secondo una stima della Confederazione italiana agricoltura, il nostro territorio ha una disponibilità massima a 140 mila tonnellate/anno di residui di lavorazione del mais. E dunque potrebbe garantire la materia prima a meno di 15 MW installati. Piacenza dovrebbe quindi raddoppiare la sua disponibilità.

E ci sono i presupposti?
Teoricamente sì. Usando la risulta del mais,il cippato, le ramaglie… Oggi però molto di questo materiale viene arato all’interno del campo e utilizzato come fertilizzante del terreno. Se, teoricamente, andassi a sottrarre tutto questo apporto, dovrei ricorrere a fertilizzanti sostitutivi. Quindi è ragionevole pensare che del quantitativo teorico disponibile solo una parte possa poi essere davvero impiegato per le centrali a biomasse.

È davvero così difficile conciliare le due anime della sua provincia: la storica vocazione energetica e il pregio di essere una delle aree agricole italiane di maggior valore?
In passato,ai tempi del monopolio Enel, non esisteva un discorso di fonti rinnovabili legate all’agricoltura e non c’era neanche la possibilità di interazione e di dialogo tra le due componenti. Ciascuna si muoveva indipendentemente dall’altra. Oggi, invece, si pone all’attenzione di tutti l'alternativa di coltivazioni energetiche dedicate. Ma ho già espresso al riguardo alcune riserve. In pianura non vedo una reale convenienza economica; in montagna il discorso cambia.

Ci può fare un esempio?
Nel comprensorio di Bobbio – Val Trebbia – abbiamo identificato un terreno incolto di 4 mila ettari che si prestano bene al recupero e all’impianto di robinie con cicli di 4 o 5 anni. In quel caso non si va a sostituire una precedente produzione ad alto valore aggiunto e si ha quindi una convenienza economica. Come valuta il problema dell’accettabilità sociale? Ormai l’opposizione alla realizzazione di nuovi impianti non riguarda più solo le grandi centrali tradizionali, ma anche i piccoli impianti da fonti rinnovabili. Gli impianti che producono biogas attraverso processi anaerobici e dunque non bruciano la materia prima e non generano emissioni sono – di solito – realtà di piccola taglia. L’impatto ambientale è molto contenuto e non c’è di fatto opposizione, tenendo anche in considerazione il fatto che in genere vengono costruiti direttamente all’interno delle aziende agricole. Anche in questo caso, però, bisognerebbe far bene i conti economici; c’è un livello minimo al di sotto del quale l’impianto non conviene. In termini di accettabilità sociale il problema c’è sicuramente, invece, se entra in gioco la combustione.

Un camino spaventa sempre… Ma c ’è una soluzione?
Le centrali a biomasse che producono solo energia elettrica hanno un rendimento tutto sommato contenuto e quindi un impatto ambientale non trascurabile. Se, però, si sfrutta adeguatamente anche il calore, allora si chiude un ciclo ambientale positivo. Per altro questo è il modello da sempre adottato in Trentino. Il segreto è quello di comunicare adeguatamente sul territorio, attraverso incontri con gli attori del sistema, le valenze ambientali della produzione combinata di calore ed energia elettrica.

Come ha reagito il vostro territorio alla recente riforma della PAC? Ci sono stati cambiamenti nelle scelte degli agricoltori? Questo potrebbe favorire anche attività connesse alle bioenergie?
Di sicuro cambieranno molte cose.La nuova PAC non sostiene più i prezzi, ma tende ad aiutare e incentivare le produzioni agricole. Siamo ancora in una fase interlocutoria e di transizione, nella quale i singoli enti locali stanno mettendo a punto e cominciando ad attuare i piani di sviluppo rurale. La barbabietola da zucchero sta scomparendo; eravamo uno dei territori vocati a questa coltura ma oggi le produzioni si sono ridotte di circa il 75 per cento; anche per il pomodoro da industria sono previsti grandi cambiamenti… Questo sta inducendo molti a guardare con crescente attenzione alle coltivazioni energetiche. Ma, per tutti i motivi detti in precedenza, ci credo poco.

Dunque, cosa coltivare?
Da noi non c’è che l’imbarazzo della scelta tra varie produzioni alimentari di qualità. Non siamo un territorio “costretto” a sostituire la produzione di barbabietole con le ramaglie. Nella nostra provincia operano 400 imprese nel settore biologico e questa mi sembra una strada più promettente.

Si potrà mai arrivare,secondo lei, a una sorta di marchio made in Italy anche per le biomasse? Altrimenti il rischio è quello di soddisfare la crescente domanda di biocombustibili e biomasse solo attraverso l’import…
No. L’energia elettrica prodotta finisce tutta in rete; non viene venduta al supermercato con una etichetta. L’utente finale non ha strumenti per differenziare le sue scelte in base alla zona di origine della materia prima impiegata. L’unica strada sarebbe quella di concepire i Certificati Verdi in modo tale da differenziare il contributo a seconda dell’uso di biomasse locali o di importazione. Se la materia prima è trattata in modo “indifferenziato” non deve sorprendere il fatto che il produttore di energia acquisti quella che più gli conviene, da qualunque posto provenga.

Coldiretti, Cia e Confagricoltura segnalano come nuova opportunità di business per le aziende agricole italiane la produzione di energia elettrica attraverso piccoli impianti – solari, eolici, a biogas, idraulici – per poi rivenderla in rete. Secondo lei le aziende del suo territorio sono pronte a una rivoluzione di questo tipo?
La nuova PAC, tra i suoi obiettivi, promuove anche la cosiddetta multifunzionalità. Si chiede cioè alle aziende agricole di produrre, trasformare, vendere direttamente magari anche aprendo un punto vendita in città; di dedicarsi all’agriturismo e, perché no, di produrre energia. Bello e interessante; ma l’azienda deve essere in grado di svolgere tutti questi compiti, quindi deve avere le competenze adeguate e un numero minimo di addetti.

Tutto ciò si scontra con una struttura produttiva tendenzialmente polverizzata, magari con realtà aziendali dove lavora una sola persona coadiuvata saltuariamente da un paio di familiari.
Infatti, prima ancora di pensare a concretizzare tutte queste opportunità occorre favorire processi di aggregazione. La produzione energetica in piccoli impianti localizzati sul territorio potrebbe davvero essere un futuro possibile; ma solo se prima si condivide la necessità di stare assieme.

Altra questione delicata, la gestione dei bacini idrografici. Agricoltori e produttori di energia elettrica sembrano avere esigenze contrastanti. E quando c’è scarsità di acqua si rimpallano spesso le responsabilità. Come è la situazione nel vostro territorio?
Anche da noi la scarsità di acqua è un problema; per molti versi è il problema del futuro. Le nostre sono produzioni “idro-esigenti” in quanto ricche e di qualità. La questione non è di facile soluzione, ma occorre agire e ripensare, dopo molti anni, alla costruzione di nuovi invasi in montagna per l’accumulo di acque in quantità sufficienti alle esigenze dei vari soggetti e in grado di rendere nuovamente autosufficienti molti territori.

 

 
© 2005 – 2024 www.nuova-energia.com