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Spinaci: "Facciamo muovere l’Italia, siamo un’industria da valorizzare" Stampa E-mail
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di Davide Canevari



Claudio Spinaci, presidente dell'Unione PetroliferaIn Italia i consumi di petrolio hanno mostrato negli ultimi mesi qualche segnale di ripresa, dopo un lungo periodo di difficoltà. Cogliendo questo spunto, Nuova Energia ha incontrato Claudio Spinaci, presidente dell’Unione Petrolifera, per fare il punto sulla situazione.

“La ripresa? È sicuramente un segnale di stabilizzazione dopo le ingenti perdite degli ultimi anni, conseguenza del deciso calo dei prezzi dei carburanti che, almeno al netto delle tasse, sono tra i più convenienti d’Europa. Le famiglie sono tornate a spendere qualcosa di più per la mobilità rispetto agli anni passati, come dimostra anche il buon momento del mercato dell’auto”.

“Un recupero dell’1 per cento nei primi sei mesi di quest’anno non deve comunque illuderci che i problemi di sostenibilità del nostro sistema distributivo siano in via di risoluzione. Basti pensare che dal 2005 ad oggi abbiamo perso 10 miliardi di litri, ma la rete di punti vendita è rimasta più o meno la stessa”.




Come è cambiata negli ultimi anni la domanda per tipologie di prodotto, e come potrebbe evolvere nei prossimi anni?

**Benzina e gasolio rappresentano ancora più della metà dei consumi petroliferi nazionali e il 93 per cento nel settore dei trasporti, dove si confermano essenziali. Il prodotto autotrazione principe resta il gasolio, una tendenza che dovrebbe caratterizzare anche gli anni a venire.


Raffinazione: a che punto siamo in Italia e in Europa? Fino a poco tempo fa sembrava un settore destinato alla perdita e con poche vie di uscita. Oggi...
**La raffinazione è un’industria particolarmente esposta alla concorrenza internazionale, in particolare da parte di quei Paesi che hanno molti meno vincoli rispetto a quelli europei, non solo dal punto di vista ambientale, ma anche del costo del lavoro e dell’energia. La sua sostenibilità economica dipende inoltre dall’andamento dei mercati internazionali e in particolare dall’evoluzione del prezzo del petrolio.
L’industria della raffinazione è un’industria energivora e dunque basse quotazioni del greggio riducono i costi operativi.
Da questo punto di vista, il 2015 è stato sicuramente un anno positivo per i raffinatori italiani che hanno potuto contare su una buona ripresa delle lavorazioni, cresciute dell’11 per cento, e tassi di utilizzo risaliti intorno all’83 per cento. Anche in questo caso un recupero congiunturale, che non vuol dire avere risolto i problemi strutturali che restano in gran parte insoluti.
Va però anche detto che a livello europeo si è fatta strada una maggiore consapevolezza della strategicità di un settore che va in qualche modo difeso, non certo con una legislazione di favore, ma almeno non punitiva. Il punto è che ogni tanto, nel recepire nel nostro ordinamento le direttive europee, spunta qualche manina che tende a rendere ancora più severe le norme comunitarie.


Torniamo nel dettaglio sul processo di razionalizzazione della rete di distribuzione carburanti...
** Su questo fronte le cose non vanno molto bene. Come ho accennato, nonostante i prezzi industriali siano ormai allineati, e da diverse settimane inferiori alla media europea, la struttura della rete carburanti rimane non comparabile con quella degli altri Paesi UE.
Abbiamo un numero di punti vendita doppio rispetto a Francia, Germania, Spagna e Regno Unito, erogati che sono meno della metà e scarse attività non-oil che in altri Paesi rappresentano fino al 70 per cento dei ricavi del gestore. È evidente che è un sistema non più sostenibile, che favorisce fenomeni di illegalità e che pertanto stenta a razionalizzarsi.


Cosa si sta muovendo a livello politico?
**Il DDL Concorrenza, all’esame del Parlamento da più di un anno e mezzo ormai, prevede una serie di misure che vanno nel verso giusto: istituisce un’anagrafe di tutti gli impianti esistenti che oggi manca, dà cogenza ai criteri già esistenti per la chiusura dei punti vendita incompatibili con la sicurezza stradale e il decoro urbano e facilita il processo di riqualificazione.
Non è naturalmente un intervento risolutivo, ma sicuramente è un passo nella giusta direzione per arrivare ad una rete più in linea con gli standard europei, più sicura e sostenibile. Crediamo che una dimensione adeguata per il nostro Paese, che ha un’orografia particolare, sia intorno ai 15.000-16.000 impianti.

 


A proposito. Immaginiamo una stazione di servizio allestita anche per la fornitura di idrogeno, GNL e per la ricarica elettrica. Un sogno, un incubo...
**Né un sogno né un incubo. Le stazioni di servizio sono destinate a cambiare nel tempo perché cambierà il modo di muoversi degli automobilisti italiani e dunque anche le aziende che rappresentiamo si attrezzeranno sicuramente per trovare nuovi 8 modelli commerciali che soddisfino queste esigenze. Il punto è che la mobilità è un tema complesso e in continuo divenire e vorremmo che fosse affrontato con la necessaria professionalità, senza semplificazioni demagogiche, evitando soluzioni che appaiono salvifiche ma che in realtà non lo sono.
Anni di ricerca per nuove forme di alimentazione stanno dando oggi i primi frutti e richiederanno ancora diversi anni prima di essere alla portata di tutti a costi accessibili. La diffusione delle auto elettriche, ad esempio, crescerà sicuramente, ma si impiegheranno almeno 15 anni per passare da 100.000 (al 95 per cento ibride) ad 1 milione di unità, ossia il 3 per cento del parco circolante.
Un aumento incontrollato delle colonnine di ricarica rischia di costare molto e incidere poco, utilizzando risorse che potrebbero essere spese meglio. Di questo abbiamo ampiamente discusso con i principali stakeholder, istituzionali e non, durante uno dei cinque panel che hanno composto la nostra ultima assemblea annuale, tenutasi a Roma lo scorso 22 giugno. Le indicazioni emerse durante il dibattito hanno confermato che la transizione verso una mobilità low carbon richiederà alcuni decenni, un processo che bisognerà governare con attenzione per evitare contraccolpi negativi sull’economia del Paese.


È azzardato dire che senza il petrolio e i suoi derivati lo Stato italiano potrebbe fallire? Credo non esistano altre commodity sulle quali grava un carico fiscale tanto elevato... Come si è arrivati a una situazione del genere che, tra l’altro, in misura più o meno evidente riguarda anche molti altri Paesi europei?
** Il nostro è il settore che, con oltre 40 miliardi di euro tra accise e IVA, contribuisce maggiormente alle entrate dello Stato, anche più del lotto, dei giochi e dei tabacchi. Il fatto è che tassare i carburanti è il modo più rapido per reperire risorse ed equilibrare il bilancio dello Stato (basta pensare alle cosiddette clausole di salvaguardia inserite nelle varie leggi di stabilità): è ciò che è accaduto negli ultimi 30 anni. Un vero e proprio bancomat. Rinunciarci non è cosa facile e comunque si dovrebbero trovare delle coperture alternative.


Le fonti rinnovabili giocano spesso la carta dell’occupazione, evidenziando la loro capacità di creare lavoro. Qualcuno ha mai calcolato quanti posti sono attualmente garantiti in Italia dalla filiera petrolio: estrazione, lavorazione, distribuzione...?
**Il nostro è principalmente un settore ad alta intensità di capitale, ma anche il fattore umano gioca un ruolo rilevante, soprattutto per le alte competenze e professionalità che sono richieste. Il solo downstream petrolifero (raffinazione, logistica e distribuzione), che è ciò che rappresenta Unione Petrolifera, impiega direttamente circa 20.000 addetti e altri 130.000 nell’indotto, mentre l’upstream (ricerca e produzione) ne impiega intorno ai 110.000 tra diretti e indiretti.
Siamo un’industria che continua ad evolvere e innovare per rispondere alla crescente domanda di energia, dando il suo contributo all’economia del Paese; produce un fatturato superiore ai 100 miliardi di euro, distribuisce ogni giorno oltre 100 milioni di litri di carburanti, vanta una rete logistica distribuita capillarmente sul territorio, 600 depositi e circa 3.000 chilometri di oleodotti.
Una filiera di fondamentale importanza strategica. Detto ciò, eviterei di fare classifiche di questo tipo mettendo in competizione fonti energetiche completamente diverse tra loro. Ogni settore ha la sua importanza e ciò che conta è il contributo che dà alla sicurezza energetica e alla competitività del Paese.


Quanto è importate nel vostro settore la ricerca e quali investimenti sono stati fatti nel recente passato in nuove tecnologie.
**È fondamentale. L’industria petrolifera è in cima alle classifiche europee per innovazione di prodotto e di processo e ogni anno sforna nuovi brevetti che vengono poi esportati nel mondo.
Negli ultimi 20 anni il settore ha investito oltre 21 miliardi di euro che hanno permesso di ridurre drasticamente le emissioni climalteranti sia dei processi industriali sia dei prodotti (tra il 70 e il 90 per cento) e introdotto processi innovativi come le bio-raffinerie. Uno sforzo che richiede competenze e professionalità molto elevate ed è per questo che si punta molto sulla formazione degli addetti, cui sono dedicate oltre 500.000 ore/anno.


Abbiamo già fatto cenno alle alternative ai classici combustibili liquidi. Torniamo nel dettaglio sul GNL. Che cosa si sta muovendo di concreto in Italia e qual è la vostra posizione?
**Il GNL contribuirà sicuramente alla definizione del mix energetico più efficiente per traguardare gli obiettivi ambientali e potrà trovare un suo spazio anche nel settore dei trasporti stradali e marittimi. Sicuramente presenta dei vantaggi dal punto di vista ambientale, ma sconta una serie di problemi infrastrutturali e tecnologici. Attualmente in Italia ci sono solo tre punti vendita stradali in grado di erogare GNL, mentre le infrastrutture distributive e di stoccaggio sono da realizzare.
Un suo sviluppo richiederà dunque del tempo e forti investimenti. Ci sono molte delle nostre aziende che sono interessate. Anche in questo caso non c’è nessuna preclusione da parte nostra, purché il processo di penetrazione sia parte di un progetto complessivo e coordinato di medio-lungo termine basato sulla neutralità tecnologica e fiscale.


E per quanto riguarda l’idrogeno? Ogni tre o quattro anni in Italia si torna a parlare di questo vettore con grandi aspettative, e poi sparisce nel nulla. Che sia la volta buona?
**Non credo che l’idrogeno sia una soluzione percorribile nel breve-medio periodo, per tutta una serie di motivi legati alla sicurezza e alla tecnologia disponibile. Il famoso libro di Jeremy Rifkin che ne preconizzava una sua rapida affermazione risale al 2002, ma dopo 14 anni siamo ancora al punto di partenza nonostante i tanti sforzi fatti. Direi che sarebbe più conveniente concentrarsi su quelle tecnologie che presentano vantaggi più immediati e costano meno alla collettività.


Cosa risponde a chi “accusa” il vostro settore di boicottare lo sviluppo della mobilità elettrica?
**Nessun boicottaggio e nessuna preclusione. Credo tuttavia che il dibattito sul ruolo dell’auto elettrica vada rimesso nella corretta prospettiva. Uno dei maggiori benefici tradizionalmente attribuiti all’auto elettrica è quello ambientale, relativo all’assenza di emissioni dirette sia di CO2 sia di altri inquinanti, limitatamente alla sola fase di utilizzo (in quanto priva della fase di combustione).
Tuttavia, per un calcolo corretto dei benefici ambientali ed energetici legati alla mobilità elettrica rispetto a quella tradizionale, occorre far riferimento anche alle modalità di produzione dell’energia elettrica, alle fonti energetiche utilizzate per produrla e agli impatti derivanti dalle fasi di produzione dei veicoli e dei relativi componenti, nonché della necessità di smaltimento delle parti deteriorate come accumulatori e parti elettriche composte principalmente da materiali speciali spesso altamente inquinanti.
In questa logica, i benefici ambientali in termini di riduzione delle emissioni di CO2 che porterebbe l’auto elettrica sono molto meno evidenti e, soprattutto, risulterebbero una soluzione più costosa di altre. Per quanto riguarda gli inquinanti tipo i PM, un’auto Euro6 ha performance quasi comparabili alle auto elettriche.


Mi dica che, almeno per voi, la Brexit non cambia nulla. Praticamente tutti i settori dell’economia italiana hanno delineato previsioni cupe sul futuro, a seguito del referendum britannico.
**Dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico per noi cambia poco. Il Regno Unito non ha mai adottato l’euro che rappresenta il simbolo dell’integrazione europea, ha mantenuto un saldo controllo sulla politica monetaria e su quella fiscale e dunque nei fatti è sempre stato un po’ fuori dall’Europa. Da quanto potuto vedere sinora, sembra che al momento il prezzo più alto della Brexit lo stiano pagando proprio loro. La situazione resta comunque molto delicata per i possibili contraccolpi sulla crescita economica.



Allargando lo sguardo al di fuori dell’Italia, secondo la IEA stiamo per entrare nell’era del gas naturale dopo vari decenni di dominio del petrolio. Ma il passaggio di consegne dovrebbe avvenire tra il 2020 e il 2030. E anche dopo quella data si continuerà ad estrarre e bruciare oro nero. Dobbiamo metterci il cuore in pace...
**In realtà ci attendevamo questo sorpasso già da qualche anno, cosa che poi non è avvenuta anche per un recupero del petrolio. Credo tuttavia che dovremo fare i conti con la fonte petrolifera ancora per qualche decennio. Secondo tutte le principali agenzie internazionali, nel 2030 i prodotti petroliferi copriranno ancora il 75-80 per cento della domanda nei trasporti. Non è questione di mettersi il cuore in pace, ma di realismo.


Perché si fa così fatica a dare un’immagine “pulita” del petrolio? Eppure ogni italiano consuma quasi una tonnellata/ anno di questa commodity.
**L’industria petrolifera di oggi è molto lontana dagli stereotipi che l’hanno sempre caratterizzata ed è composta da migliaia di persone che ogni giorno si impegnano con responsabilità e professionalità per garantire la mobilità di merci e persone nel nostro Paese.
Purtroppo, spesso siamo oggetto di un’informazione che non testimonia correttamente questo impegno, direi anzi che a volte lo fa in modo distorto. Per questo motivo pensiamo sia giunto il momento di chiarire il ruolo strategico della nostra attività per “far muovere l’Italia”, cercando di rovesciare i tanti luoghi comuni che non hanno più ragione di essere.


Immagini di poter mandare un tweet a Renzi...
**I problemi del nostro settore sono così tanti e complessi che non credo bastino 140 caratteri. Posso solo dire che la nostra preoccupazione è che questa fase di transizione e la conseguente evoluzione del nostro settore, se non ben governata, rischia di privare le aziende delle risorse necessarie per poter continuare il proprio lavoro in sicurezza e con la consueta affidabilità. Questo è il vero rischio: rendere insostenibile un settore che è e rimarrà strategico per il Paese.

E all’OPEC?
**Dubito che all’OPEC interessi la nostra opinione.

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