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EXPO 2015, prove generalı per un’altra rivoluzione verde Stampa E-mail
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ALCUNE RIFLESSIONI SULLA STORIA E SUL FUTURO RUOLO DELL’AGRICOLTURA


di Ugo Farinelli



Vi sono molti e vari motivi per parlare di EXPO 2015 sulle pagine di questa rivista, e ne presenteremo qui alcuni. L’evento si occupa di agricoltura, di produzione di cibo, di sostenibilità, di alimentazione, di economia “verde”: tutti argomenti di cui trattiamo abitualmente parlando di fonti energetiche rinnovabili, di biomasse, di efficienza energetica. Pertanto - premettendo che al momento di scrivere questo articolo non ho a disposizione altro che il programma dell’esposizione e i suoi obiettivi - possiamo commentare i contenuti quali risultano dal nostro stato attuale delle conoscenze e magari facendo qualche estrapolazione sulla base di quello che ci aspettiamo.


Il Padiglione Zero con cui comincia l’EXPO 2015 dovrebbe presentarci la storia dell’uomo sulla Terra attraverso il suo rapporto con la natura e con il cibo. Siamo abituati a considerare questa storia attraverso l’interazione con l’energia. Fino a circa 300 mila anni fa, l’unica fonte energetica di cui poteva disporre l’uomo erano i suoi muscoli. La società primitiva era una società che basava la sua sopravvivenza sulla raccolta di frutti, di bacche, di funghi, di germogli e sulla caccia di animali di diverso tipo e diverse dimensioni.
Un momento: abbiamo detto suoi muscoli ma non è detto che già in alcune società primitive non fosse presente la schiavitù, e quindi non vi fosse questa prima disponibilità di fonte di energia esterna, divenuta poi di grande importanza nella fase di passaggio alla società agricola.



La prima fonte energetica esterna all’uomo e a sua disposizione è venuta dal fuoco: imparando ad accendere il fuoco quando ce n’era bisogno (o a conservarlo acceso in modo permanente) l’uomo ha aperto una serie di innovazioni che hanno cambiato il suo modo di vivere sotto vari aspetti.
Quello forse più importante è stato la cottura dei cibi, che permetteva di conservare il cibo per tempi molto più lunghi. Non era più necessario andare a caccia ogni giorno o quasi. Si svilupparono metodi più complessi di caccia, le cui partite duravano per vari giorni e che furono alla base delle prime organizzazioni sociali: distribuzione di incarichi tra i partecipanti, individuazione di una prima struttura gerarchica. Inoltre il fuoco permetteva di scaldarsi, di rendere abitabili caverne e rifugi di vario genere, e quindi di estendere progressivamente l’habitat umano. Su tempi più lunghi, il fuoco avrebbe permesso di utilizzare nuovi materiali (in particolare i metalli) per la costruzione di attrezzi e di armi per la caccia e successivamente per le operazioni agricole.
Alla disponibilità del fuoco si aggiunse in tempi un poco più lunghi quella della forza fisica degli animali, soprattutto per operazioni sulla terra come l’aratura. La scena era pronta per la prima grande transizione delle società umane, da nomadi (spesso all’inseguimento della preda da cacciare e mangiare) a popolazioni stanziali, basate sulla coltivazione di prodotti agricoli (che richiedevano necessariamente di trovarsi sulle stesse aree in stagioni diverse); e come alla raccolta si sostituì la coltivazione, alla caccia si sostituì l’allevamento di vari tipi di animali, da carne ma anche da uova e da latte (e perché no, da sangue).



Fin qui, la storia è ben nota, ma la sua interpretazione non è altrettanto unanime. Mi riferisco alla discussione sviluppatasi in questi ultimi tre anni intorno all’uscita del libro di un giovane professore israeliano, Yuval Noah Harari (Sapiens: From Animals to Gods: A Brief History of Humankind Kinneret, Zmora- Bitan, Dvir 2011 (in Hebrew); ed. Italiana Da Animali a Dèi - Breve Storia dell’Umanità, Bompiani Overlook-2014).
Yuval Harari della Hebrew University di Gerusalemme, senza contestare la storia già scritta si chiede se questa transizione sia stata effettivamente un passo avanti per l’umanità (e in effetti la più grande trasformazione finora delle società umane). La specializzazione delle colture che ha accompagnato tutto lo sviluppo dell’agricoltura ha portato a una dieta meno equilibrata e meno sana, ha richiesto un allungamento della giornata lavorativa, ha portato a maggiori rischi di carestie, a un affollamento dell’habitat umano, a una molto accresciuta vulnerabilità alle malattie, e a nuove forme di insicurezza.



In sostanza, ci dice Harari, l’uomo raccoglitore-cacciatore era più sicuro, più protetto, più sano, e in una parola più felice che non l’agricoltore-allevatore. Certo, misurare il grado di felicità di una società risulta molto difficile. Un passo in questa direzione può essere individuato nella sostituzione, proposta dall’UNDP (United Nations Development Programme) del GDP (Gross Development Product) con lo HDI (Human Development Index), che tiene conto di fattori che influiscono sulla qualità della vita, come la durata di vita, la salute, l’istruzione, eccetera. Tuttavia, il messaggio un po’ provocatorio del docente è interessante e stimolante: egli definisce la rivoluzione agricola “la più grande frode della storia” (history’s biggest fraud). [...]

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