In questi giorni, le cronache si sono occupate delle dimissioni del maestro Riccardo Muti. Periodo ad alta densità di abbandoni: sono scesi dal podio, d’altro tipo, anche Luca Montezemolo (Ferrari) e Raffaele Bonanni (CISL).

Se l’atto, pur in contesti e motivazioni diverse, accomuna i tre personaggi, al direttore d’orchestra spetta un merito. Lui, che comanda a bacchetta, deve essersi stufato di farsi comandare. Dallo spartito al partito (voce non del sen fuggita, ma del verbo partire), Muti lascia l’Opera di Roma (dov’è la grande bellezza?) con un laconico comunicato senza ouverture, crescendo e finale a sorpresa. Un assolo che tra tanta italica cagnara mediatica ha il valore di un memorabile acuto. C’è da scommettere, orazianamente, che in questa circostanza la parola detta non tornerà indietro.

Un bell’esempio, considerando che a parole nessuno batte gli italiani. Si pensi, rimanendo nei patri confini energetici, al delizioso duetto querelante (nel senso di querela) tra il leader pentastellato e il governatore della Puglia in merito al Tap (è il progetto di un gasdotto, non un tappo con pronuncia in lombardo). Nel confronto si è inserito il primo ministro dichiarando che “Non è pensabile che si blocchi un’opera pubblica che parte dall'Azerbaijan, e cioè il gasdotto Tap”. E pensare che si è detto e si dice no a molto meno. In compenso, Renzi, in occasione del vertice sul clima promosso dall’ONU, ha dichiarato che “Quella dei cambiamenti climatici è la sfida del nostro tempo, lo dice la scienza, non c’è tempo da perdere: servono accordi vincolanti, la politica deve fare la sua parte”.
“I nostri figli - ha sottolineato il premier - attendono che i posti di lavoro della green economy siano veri. L’Italia è pronta a contribuire con una dotazione significativa al fondo verde delle Nazioni Unite”.

A molti piace la forza del destino, ritorna vincitor. Altrimenti è meglio restare muti.

Giuliano Agnolini
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